10 novembre 2000 (Romanzo epistolare)

Una vita difficile romanzo epistolareIn alcuni concorsi letterari ottenni dei riconoscimenti: targhe d’argento, coppe, ecc., e cominciai a scrivere in riviste letterarie. In chiesa mi permisero di vendere le copie di alcune mie opere e a una festa mi premiarono con una targa. Mietevo successi un po’ dappertutto. Scrivevo articoli, saggi, collaboravo con dei professori. Conoscevo le lingue e facevo anche ripetizioni di francese e spagnolo nei ritagli di tempo. Guadagnavo sempre una miseria, ma il denaro per me non era tutto. Molti erano ossessionati dai soldi. Per me il denaro era solo un mezzo di sostentamento non lo scopo della mia vita. La felicità non può dipendere da un sostanzioso conto in banca. Il bene primario era la salute che a me mancava, questo era il mio vero cruccio. L’imperfezione del corpo da me era vissuta come una malattia. Ero malata, ma ero anche malata di affetto, d’amore. Nei miei scritti trapelava questo ardente bisogno d’amore che si percepiva a pelle. Non ero stata amata fino in fondo, totalmente, senza riserve. A parte mia madre, mi pareva che non mi amasse nessuno. Gli amici veri erano pochi. Molti erano addirittura invidiosi dei miei successi letterari. Cosa veramente ridicola. Molte ragazze si mettevano in competizione con la mia arte, per dimostrare che anche loro valevano qualcosa. La rivalità che sfociava in dispetti e cattiverie. Spesso trovavo il cappotto rovinato con una bibita, trovavo manomesse le mie cose. Volutamente mi facevano piccoli dispetti che mi toglievano il sorriso. Quello che non sopportavo era la cattiveria pura e l’invidia. Molti invidiosi avevano atteggiamenti persecutori, erano distruttivi. Tendevano ad annientare l’oggetto della loro invidia anche solo con le parole, cercando di sminuirlo. Molti dicevano che il mio titolo di studio non serviva a niente. Io rispondevo che avevo studiato per me stessa non per gli altri. L’educazione di certa gente lasciava a desiderare. Molti mi facevano capire che nessun uomo mi avrebbe mai considerata. Le donne di cultura non sono apprezzate dagli uomini che le giudicano noiose. Il problema era che non ero appariscente. In fondo al mio cuore forse ero anche io ambiziosa, volevo avere una parte nel mondo, essere protagonista in qualche campo. Dopo tanti insuccessi, insulti volevo avere un po’ di successo da godermi in pace. Non volevo il clamore ma una piccola parte solo per me. Cominciai a pubblicare opere su alcune antologie e questo mi rese raggiante. Mi scrivevano commenti lusinghieri. Per carattere ero remissiva, schiva, timida non volevo stare sotto i riflettori. Volevo solo un riconoscimento, lasciare una traccia, essere ricordata per qualcosa. Non volevo sparire lasciando solo un vuoto. Non potendo avere figli potevo lasciare in eredità qualcosa. Scelsi come mia erede la figlia di una persona a me cara. Era un passo importante che dovevo fare se volevo vivere serena. Lei avrebbe continuato la mia opera. Lei scriveva, leggeva molto era simile a me. Aveva un carattere più forte del mio, avrebbe fatto strada. Era graziosa, stravedeva per me. Lei era l’unica persona con cui mi confidavo, mi dava sicurezza, mi stimava. In passato il ribrezzo degli altri mi aveva portato a una disistima nei riguardi di me stessa. Lei mi valorizzava, mi rispettava. Cristina era entrata casualmente nella mia vita ed era poi divenuta importante. Cristina avrebbe seguito i miei scritti, avrebbe provveduto alla mia sepoltura, avrebbe ereditato il patrimonio di famiglia. In tutto questo mi piaceva la continuità. Lei sarebbe stata la mia erede, questo mi tranquillizzava quando pensavo alla mia fine. Non potevo andarmene in silenzio, in punta di piedi. Da lei non pretendevo l’impossibile, mi bastava il suo affetto. Se gli altri avevano avuto salute, bellezza, amore, lavoro, soldi io avevo la mia arte e avevo Cristina. Questa fanciulla serena, determinata dagli occhi grigi. Avevo la sua foto sulla mia scrivania. In occasione di San Valentino mi portava dei regali fantastici per non farmi sentire il peso della sconfitta in amore. In amore non ero stata fortunata. Gli altri non sembravano avere pietà per la mia condizione, anzi ci trovavano da ridire. La mia anima era lacerata anche se non lasciavo trasparire nulla. Ero brava a nascondere i tormenti dell’anima. Dalla vita prima di accomiatarmi volevo qualcosa, non potevo restare a bocca asciutta. Mi convincevo che la mia nascita non era stata inutile, ero nata per combattere le ingiustizie, sia pure indirettamente con gli scritti, ero nata per lasciare una piccola traccia. Non potevo andar via con un pugno di mosche in mano. Gli altri avevano avuto le loro soddisfazioni, magari l’amore di una persona, io rivendicavo le mie. L’amore mi mancava, mi mancava la stretta di un uomo, le sue braccia lungo i miei fianchi, il bacio caldo di labbra appassionate. Ero sensuale e passionale e quindi stare senza amore mi pesava. A lungo andare l’assenza d’amore la vivevo come un lutto, come una perdita. Se mi trovavo nel mondo dovevo avere un ruolo, volevo lasciare qualcosa di me. Non potevo essere sposa,, madre volevo essere qualcosa. Sulle riviste vedevo vip che avevano tutto: applausi, successo, amore, bellezza, rispetto. Mi domandavo perché a loro era concesso tutto. Io non avevo nemmeno quello che mi spettava di diritto. Quando entravo in crisi e mi disperavo per la mia condizione non pregavo più. A un certo punto il rapporto con la fede divenne contraddittorio, alternavo momenti di sfiducia totale a momenti di esaltazione in cui ero convinta che la giustizia divina sarebbe intervenuta. Per combattere il male certe volte ci voleva la spada si San Michele Arcangelo. Con il passare del tempo continuavo a non concepire l’esistenza della morte. Non capivo perché bisognava per forza lasciare tutto affetti, oggetti, e finire chissà dove. Non capivo quale fosse la destinazione ultima dell’anima. Avevo dubbi anche sulla esistenza stessa dell’anima, io non l’avevo mai vista. Esisteva il paradiso o era una invenzione per far morire la gente serena ? Esisteva l’inferno con i diavoli e il fuoco? Quanto male bisognava fare per andarci? Con quale criterio si giudicavano le anime? Cosa facevano le anime? Poi mi domandavo il destino dell’universo, se vi erano altri mondi oltre il nostro, se altri pianeti erano abitati. Volevo mentalmente, affrontando queste tematiche, superare il microcosmo in cui ero costretta a vivere, non certo per mia scelta. Mi dava fastidio pensare alla fine di tutto, mi chiedevo come sarebbe finito l’universo. La morte per me forse sarebbe stata una liberazione, mi sarei liberata dalla schiavitù del corpo, ma per gli altri non era così. Mi domandavo se c’era la reincarnazione di cui parlavano riviste e santoni. In verità nessun morto era tornato a raccontare qualcosa. La morte era un baratro, un pauroso salto nel buio, nessuno poteva sottrarsi. Mi colpiva la descrizione dell’aldilà dei musulmani, e se avessero ragione loro? Con quale criterio si stabiliva la verità? Troppe incognite sulla fede non mi facevano dormire sonni tranquilli. Quando tutto mi era chiaro mi assalivano dubbi atroci. Lo studio della storia delle religioni non mi aveva aiutato, anzi aveva aumentato le mie perplessità.

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