11 agosto 2000 (Romanzo epistolare)

Una vita difficile romanzo epistolareMi domandi come fu il ritorno a casa? Dopo tanti tormenti, le mura domestiche mi sembrarono stupende. Sentivo il calore del nido domestico. Apprezzai finalmente la vita in famiglia. Quella casa che prima mi era sembrata un carcere, ora mi appariva accogliente, calda, protettiva. Nella vita tutto è relativo, dipende da quale prospettiva si guardano le cose. Ormai avevo finito le scuole medie, ridendo e scherzando. Ero più grande, ero cresciuta. Il viso era più allungato, i capelli più luminosi. Nel corpo informe non si avvertivano sostanziali cambiamenti. Non quelli che io mi aspettavo. Avevo creduto di divenire più graziosa, più appetibile. La gente di me vedeva solo il tronco. Le gambe gelide erano bloccate, immobili. Nell’adolescenza cominciò a crescermi il seno, ma non era grande e sodo come io lo avevo immaginato. Non pensavo come le altre a pettinarmi, a truccarmi a mettere in risalto almeno il volto. Non aveva senso se poi dovevo per forza di cose stare in casa. Per chi mi sarei fatta bella? Il problema ora era rappresentato dal proseguimento die miei studi. Io ormai volevo studiare a tutti i costi, anche se molti mi consigliavano vivamente di smettere. Per quale motivo volevo studiare? A che sarebbe servito? Io volevo studiare per molte ragioni. Capivo al volo le cose, ero intuitiva, avevo un’eccellente memoria. Inoltre volevo dimostrare agli altri che anche io avevo delle doti. Non ero fisicamente presentabile, ma avevo doti intellettuali. Potevo essere apprezzata ugualmente. Lo studio era l’unica forma di riscatto, che mi consentiva di affermarmi, di farmi notare. Volevo primeggiare, dare agli altri l’immagine di una ragazza originale, scrupolosa, corretta, precisa. Studiavo con impegno, con profitto. Ero zelante, pignola. Passavo ore sui testi, approfondivo gli argomenti con ricerche enciclopediche. Facevo l’autodidatta in alcune materie dove la mia preparazione mi sembrava scarsa e insufficiente. Facevo blocchi di appunti, ripetevo i concetti a voce alta. Ricorrevo a vari espedienti mnemonici per non dimenticare nulla. Nei ripassi spesso ero maniacale, dedicavo allo studio un tempo illimitato. Ma che altro dovevo fare? Nel mio ristretto orizzonte c’era solo una ristretta cerchia di persone con cui spesso e volentieri non andavo d’accordo. C’era la mia vicina di casa, sempre on quell’aria di compatimento, di pietà che mi faceva rabbia. Mio fratello era l’eterno assente. I negozianti erano indifferenti. La parrocchia era un luogo di pettegolezzi e ipocrisie. Cominciai così una serie di letture che mi dischiusero la mente, mi accesero la fantasia, mi fecero vedere altri mondi, altre realtà. Nelle letture, specie di classici, fui precoce. La lettura degli autori stranieri mi fece intravedere la visione di altri continenti, di altre civiltà, di altre nazioni e città. Volevo visitare quei luoghi, mi prese la smania tremenda d viaggiare. Ma come realizzare i miei sogni? Come potevo viaggiare liberamente alla scoperta del mondo senza l’ausilio delle gambe? La mia insofferenza cresceva man mano che non vedevo realizzati i miei progetti. Avevo la mente che mi pullulava di pensieri, volevo andare avanti a ogni costo, anche con immani sacrifici. Volevo essere una persona come le altre. Volevo la comprensione del mondo, uscire allo scoperto. Scrivevo poesie giorno e notte. Se la notte mi veniva un’ispirazione folgorante, come di solito avveniva, mi alzavo e scrivevo con la luce della lampada accesa. La notte apporta consiglio. Stavo attenta a non far rumore per non svegliare nessuno. Scrivendo mi sfogavo, mettevo nero su bianco la mia angoscia, davo volto e nome alle mie sensazioni, impressioni, vuotavo il sacco, descrivevo minuziosamente i fantasmi che si agitavano ancora dentro di me. Quello che dentro di me era indistinto prendeva corpo sulla pagina. Stati d’animo fluttuanti venivano immortalati dalla mia penna leggera. La penna sembrava volare.

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