2 Agosto 2000 (Romanzo epistolare)

Una vita difficile romanzo epistolareTu dici che dovrei andare un po’ fuori, all’aria aperta, e passare le vacanze in qualche posto. Non sai forse che sono impresentabile, come potrei comparire su una spiaggia? Con quale costume? Preferisco continuare con la mia narrazione. Quando tornai a casa dall’ospedale ero un automa, l’ombra di me stessa, non avevo voglia di fare nulla. Mi avevano ricoperta di regali: peluche, bracciali d’oro, ecc. La gente pensa che sono i beni materiali che fanno la felicità, i beni possono solo consolare, ma non aiutano l’anima in tormento. Io dentro avevo come un fuoco che divampava, una rabbia sorda che mi faceva dire più volte: perché proprio a me? Chi potevo accusare del mio stato? Il destino? Il caso? E se era stato il destino perché aveva colpito me e non un altro? Cosa avevo fatto per meritare questo trattamento? Soffrivo dentro, come se una lama sottile mi penetrasse nel cuore. Mi potevano regalare un mondo d’oro ma l’incendio che avevo dentro nessuno poteva estinguerlo. Non mi divertiva più niente, nemmeno la televisione, i libri, i giochi di carte. Tutto sembrava inutile. Quando abbiamo un dolore la vita perde colore e sapore, le cose che prima ci davano gioia dopo diventano insulse, prive di valore. Le mie bambole con le loro gambe diritte sembravano solo sfidarmi, ricordarmi ancora una volta quello che ormai ero diventata. Il mio problema non potevo dividerlo con nessuno, era mio e basta. Potevo solo cercare quelli come me, ma era un’esigua minoranza. Non c’era un giorno tranquillo, pensavo sempre al mio problema, che ben presto divenne un’ossessione che mi trapanava il cervello. Ogni volta pensavo a possibili soluzioni: un’altra operazione, un incontro con uno specialista luminare, un progresso della medicina, un miracolo, l’incontro con un mago. Pensavo spesso a un possibile miracolo. In difficoltà cercavo con la mente soluzioni estreme. Mi facevo mentalmente l’elenco delle soluzioni possibili e poi le ripassavo in rassegna una per una, alla fine avevo solo un notevole mal di testa. Avevo toccato il fondo e annaspavo disperata per risalire, ma ero debole. Avevo pensato persino a un viaggio all’estero, magari in America alla ricerca di un luminare, di un cervellone. La mia mente lavorava febbrilmente e instancabilmente, senza requie. Alla inattività fisica non corrispondeva quella mentale. Ero un crogiuolo di idee che non si attuavano, se non nella mia fantasia. Ogni giorno mi veniva qualche idea nuova, che poi scoprivo essere inattuabile. Lavoravo di fantasia e pensavo di trovare la soluzione a portata di mano. Il mondo è intriso di possibilità, di occasioni, io volevo trovare la mia occasione. Ero già matura per la mia età. La malattia mi aveva fatto crescere in fretta. Il dolore in alcuni casi redime, aiuta a crescere. Non tutti i mali vengono per nuocere. Molti giovani crescono viziati e protetti dalla famiglia e non conoscono minimamente il dolore, la pietà, il sentimento, il rispetto, la fatica, l’onestà, i valori. Vivono nel lusso, nel benessere e niente li turba, sono cresciuti nella certezza, tra mura sicure. In fondo si apprezza l’ombra solo quando si è stati al sole. I giovani moderni non apprezzano quello che hanno perché lo danno per scontato. Non conoscono i sacrifici, il rispetto per gli altri. Vogliono tutto e subito. Molti giovani si sentono i dominatori del mondo. Per loro sono solo una diversa. A casa passavo il tempo leggendo romanzi di avventura e d’amore che mi portavano a identificarmi con i protagonisti, a vivere attraverso loro, una vita diversa, la sola che potessi permettermi. La fantasia mi aiutava enormemente. Spesso guardavo la televisione ma molte trasmissioni le trovavo insignificanti. Una cosa sola non volevo fare: uscire, su questo ero categorica. Mia madre, armatasi di coraggio, un giorno decise di riportarmi a scuola, nella mia classe. Non fu un giorno fausto, un’esperienza positiva. La classe si dimostrò un po’ ostile, percepivo, nonostante le suadenti parole, un senso di gelo, di distacco, di estraneità, di rifiuto sentito e non espresso. Vidi occhiate gelide, gomitate, commenti poco lusinghieri, sentii frasi pungenti, irritanti. La frase che mi colpì come una fucilata fu: “Non saranno matti a metterla con noi”. Nella classe era tutto un brusio, tutte occhiate ammiccanti, gelide. Solo qualche ragazza si era degnata di regalarmi dei mazzi di fiori. I fiori erano come tanti sorrisi aperti, gioviali, sinceri. Quei fiori mi parlavano, mi toccavano il cuore. Erano l’unica nota di colore in tutto quel grigio. C’era un’aria elettrica, pesante, un impaccio generale che si percepiva sulla pelle, nessuno sapeva dire parole appropriate, ognuno pensava solo a se stesso, questa era la verità. Si parla tanto di solidarietà ma nessuno poi in concreto si dimostra solidale. Ognuno si chiude nel suo recinto e respinge le persone estranee e diverse. Ognuno resta chiuso nel suo ambiente, con i suoi amici e non si apre all’altro. Il nuovo spaventa, atterrisce, disorienta. Si preferiscono le solite certezze alle incognite del futuro, di una nuova conoscenza. L’unica soluzione forse era frequentare una classe speciale. Non potevo confondermi con la gente comune. Mi rifugiavo nel mio angolo, nel mio cantuccio. Mi sentivo ghettizzata. Intorno a me c’erano sorrisi ipocriti e rifiuti. Ogni giorno si chiudevano per me delle porte. Mi dovevo abituare soprattutto al rifiuto, dei coetanei e della gente. Io stessa vedevo ostacoli dove non vi erano. Le porte si chiudevano al mio passaggio come se fossi un’appestata da tenere lontana. La mattina mia madre mi accompagnava a scuola dopo avermi vestita dato che da sola non riuscivo a farlo bene. Durante il tragitto ricordo gli sguardi pietosi della gente, le occhiate di commiserazione, le persone che si voltavano. Le donne erano più critiche e ironiche degli uomini. Una volta in prossimità della scuola vidi una coppia di fidanzati ridacchiare al mio passaggio e dire che ero un vero relitto umano, per fortuna che quel giorno mi aveva accompagnato una signora e non mia madre. Mi veniva voglia di urlare, di dire che non era colpa mia se ero così, e che poteva accadere anche a un loro figlio, non era detta l’ultima parola. Avevo mandato una maledizione, bestemmiato per la rabbia. Ero traumatizzata più per il mio pensiero che per il loro gesto ignorante. Non dissi invece una parola, era, tutto sommato, fiato sprecato. La gente che ha successo di solito si monta la testa, appare superba, guarda gli altri dall’alto in basso. Non pensa che anche per loro può esserci il momento del buio. Un proverbio saggio recita: nel bene non ti ingrandire nel male non ti avvilire. Può, quando meno ce lo aspettiamo, accadere un evento che cambia completamente il corso della nostra vita. Quei fidanzati erano convinti che a loro non sarebbe mai accaduto nulla, che loro erano perfetti. Si comportavano come se solo loro fossero gli artefici materiali del loro destino. Ognuno che sta bene, facendo affidamento sulle proprie forze, si sente potente, in grado di sfidare il mondo e le sue insidie. Il dolore in realtà è sempre in agguato e colpisce alla cieca, non guarda in faccia a nessuno. La gente benestante si sente in diritto di insultare chi è più sfortunato di loro. La fortuna va e viene è come un cavallo che passa veloce e bisogna saltarci sopra al momento giusto. La fortuna è imprevedibile, cieca, premia chi vuole, anche gli stolti. Una volta, nei pressi della scuola, un gruppo di ragazzini mi derise dicendo frasi sconvenienti. In pratica sostenevano che non potevo essere la loro fidanzata. Alcuni impertinenti dicevano ad altri: hai visto quanto è brutta la tua fidanzatina? Niente ferisce così gravemente come le parole taglienti. Non volevo andare più a scuola per nessuna ragione al mondo. Non c’era giorno che non subissi un’offesa, un insulto, uno sputo. Un gruppo di ragazzini scatenati tentò persino di farmi cadere dalla sedia. Non mi sentivo amata. Un giorno per gioco mi tirarono persino dei sassi, dei noccioli di ciliegia. Avevano passato i limiti. Mi ritirai ombrosa e sdegnosa nella mia cameretta e mi chiusi dentro a chiave, non volevo più uscire. Mi creai mentalmente a poco a poco un mondo tutto mio dove nessuno poteva entrare. Il mio cuore si chiuse, si serrò come uno scrigno. Nessuno poteva più entrare, penetrare la mia anima lacerata. Comincia a reagire, mi attivai per uscire dal torpore. Mi costruii delle ragioni per vivere. Iniziai delle collezioni anche impegnative: francobolli, bambole di porcellana, cartoline illustrate, matite colorate, figurine, quadri. Nei ritagli di tempo studiavo, leggevo quotidiani, dipingevo, ricamavo, scrivevo poesie. Avevo ritrovato dentro di me una notevole carica, una forza interiore pazzesca, io stessa mi stupivo di tanta ostinazione. La meschinità degli altri mi faceva sentire superiore. Ero chiusa come un baco da seta nel suo bozzolo, i contatti con il mondo esterno erano annullati, azzerati. Quando venivano gli amici di mio fratello accampavo scuse per non incontrarli. Mi rintanavo nella mia camera come fosse un porto sicuro. Gli amici non dovevano sapere che lui aveva una sorella in quello stato. Evitavo come la peste le frecciatine velenose delle donne. Per evitarle mi mettevo in disparte, mi allontanavo. Anche con le fidanzate di mio fratello evitavo di parlarci. Io non potevo fidanzarmi con nessuno, non avrei avuto figli. I ragazzi guardavano le belle donne, per me non vi erano sguardi benevoli. Tentarono di mettermi in istituto, nonostante l’opposizione di mia madre, che conosceva il mio carattere e sapeva che mi sarei trovata male. In istituto i miei simili erano tutti poveri diavoli. Ragazzi informi, storpi, privi di arti, malati di mente, pazzoidi, schizofrenici ecc. Con loro tentai di familiarizzare ma mi resi conto che molti purtroppo erano completamente privi di senno, non ci potevo fare affidamento.

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