30 settembre 2000 (Romanzo epistolare)

Una vita difficile romanzo epistolareArrivò il momento cruciale della iscrizione all’università. Mio padre decise di iscrivermi alla facoltà di matematica. Il mio parere contava poco. Per le lezioni avrei frequentato saltuariamente e avrei avuto in casa un tutore. Alle lezioni mi accompagnava mia madre, quando non stava male, con una pazienza incredibile. Aspettava per i corridoi la fine delle lezioni con estrema calma. Spesso mi aiutava anche a studiare quella arida materia. Io preferivo di gran lunga la letteratura, anche straniera. La matematica era una serie infinita di calcoli, formule, simboli, che mi davano alla testa. Alcuni esami furono molto duri. Mia madre mi ascoltava ripetere le lezioni. Furono anni pieni di lezioni, di libri, di ripassi. Per fortuna non avevo tempo di pensare a quello che io chiamavo ormai semplicemente “il mio problema”. Se qualcuno disgraziatamente mi ricordava per caso la mia condizione mi adombravo, diventavo cupa, mi offendevo. Mi stordivo con lo studio per dimenticare ogni cosa negativa. La gente sbadatamente metteva il dito nella piaga ricordandomi il mio stato. Alcune donne facevano riferimento alla mia condizione con parole sgradevoli al mio fine udito. Alcune erano forse invidiose della mia arte pittorica, del mio talento artistico. L’invidia è veramente il più deleterio dei vizi capitali. Erano gelose anche di alcuni miei vestiti. Ma come si fa a invidiare anche malignamente una ragazza come me sprovveduta? Era pura cattiveria. Anche quando mi ricoverarono per una polmonite c’erano donne che invidiavano la mia biancheria fine, le mie camicie da notte ricamate. La gente è invidiosa di tutto, anche dei tuoi capelli. Per invidia molte donne facevano anche dei dispetti. Molte invidiavano il colore dei miei capelli, la mia spiccata capacità di capire al volo concetti e formule. Ero il bersaglio di ragazze perfide che mi tormentavano. Alcune si vantavano per sottolineare la loro posizione di vantaggio rispetto a me, per farmi soffrire, per umiliarmi. Non ho mai trovato molta solidarietà nell’universo femminile. All’università purtroppo ero a gomito con molte ragazze che frequentavano i corsi, non potevo sottrarmi ai loro apprezzamenti, ai loro giudizi. Mi innervosivano a tal punto che diventai irascibile. Scattavo per un nonnulla come una molla, come una persona morsa da una vipera. Affinai la mia tecnica di difesa, praticamente imparai ad essere indifferente, impassibile, di ghiaccio. Niente mi scalfiva, mi toccava, le cose mi scivolavano addosso senza lasciare il segno. La mia faccia era una maschera di indifferenza. Le parole offensive non le registravo. Odiavo il turpiloquio, la volgarità ma notavo con raccapriccio che i giovani della mia generazione usavano tutti, chi più chi meno, un linguaggio scurrile, vergognoso. Quando passavo sentivo commenti truci su di me. Ovunque si parlava di solidarietà, di rispetto per gli altri, di volontariato, di giovani disponibili. Io ero sfortunata incontravo solo angeli del male. Avevo smesso di frequentare la chiesa, il gruppo. Nessuno si era degnato di cercarmi per capire i motivi della mia assenza. Molti andavo al gruppo per trovare amici, fidanzati, per organizzare feste, trovare lavori. A spingerli era sempre l’egoismo. I soldi della bussola venivano rubati, i vestiti per i poveri spesso saccheggiati. Nel gruppo serpeggiavano pettegolezzi, malignità. Molte si litigavano il fidanzato conosciuto al gruppo, che era divenuto un luogo di ritrovo come poteva essere un bar. Molti andavano in chiesa per fare sport o per frequentare le sale del centro ricreativo messo adisposizione dei giovani del quartiere. I giovani mei coetanei, sia di università che di chiesa, erano tutti impegnati in palestre, discoteche, e altri sciocchi divertimenti. Nessuno veniva a trovarmi. Non si può passare un pomeriggio chiusi in casa con una handicappata. Nei momenti di sconforto urlavo come un ossesso posseduto da un demone, gridavo scalmanata, e tiravo oggetti, tutti quelli che mi capitavano a tiro. Me la prendevo con tutti.

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