Alcune domande all’artista Federico Sguazzi il clochard

Alcune domande all’artista Federico Sguazzi il clochardFederico è un ‘artista che mette l’anima nella sue creazioni. Abbiamo visto cosa riesce a fare con del filo spinato. La curiosità di saperne di più non poteva mancare e gli abbiamo chiesto per una volta di raccontarsi a parole .

Federico quale è il tuo rapporto con l’arte, per un lungo periodo della tua vita non sei stato un artista a tempo pieno, ma fin da piccolo ne sentivi il richiamo?

Fin da piccolo disegnavo in un modo non pertinente alla mia età, infatti quando facevo vedere ai parenti o amici dei miei disegni, non credevano mai che li avessi fatti io. E questo a partire da subito, da quando son nato. Per crederci, dovevano vedermi all’opera.

Ho trovato questi giorni il mio primo quadro ad olio. Risale al tempo delle scuole elementari. La sera avevano istituito un “centro di lettura”, dove si poteva leggere e dipingere. C’era un pittore del paese, Suvereto in provincia di Livorno dove ancora vivo, che era il nostro maestro di pittura e ci consigliava sui colori e su come dipingere. Il mio primo quadro fu una Madonna di Raffaello, avevo dieci anni e volevo riprodurre anche improvvisando le antiche tecniche. L’insegnante, mi disse che non andava bene fare una cosa così impegnativa come primo quadro, a me invece sembrava normale. Alla fine ci volle mettere le mani, perché il lavoro logicamente andava a rilento, e lui, essendo un post-macchiaiolo, me lo snaturò, in buona fede certo ma non era più il mio quadro. Smisi subito e non ho più dipinto ad olio, e non ho più riprovato a fare qualcosa.

Un discorso talmente chiuso che una volta adulto sei andato a lavorare in banca. Come vivevi l’arte quando eri un impiegato? Era una compagna di giochi, un magnifico hobby, una valvola di sfogo?

Una volta impiegato di banca disegnavo solo vignette satiriche, le attaccavo in bacheca e quando mancavo, al mio ritorno, non le trovavo più. La mia creatività nell’ambiente di lavoro veniva fuori dai miei scherzi, le mia battute, la mia goliardia soprattutto con la clientela. Ero diventato, mio malgrado, un personaggio sopra le righe anche lì e senza l’Arte, alla quale, tranne le poche vignette, non pensavo minimamente. L’Arte per me era un discorso chiuso, ma non è mai stata un hobby, neanche in quel breve periodo in cui si è intersecata con la banca, ma una necessità, dalla quale non potevo esimermi.
In quel periodo però grazie ad amico di famiglia , ho cominciato a imparare qualcosa di falegnameria. Ho cominciato allora a mettere insieme i legni di mare, a incollare, a inchiodare e creare animaletti. Poco dopo sono passato agli orologi, compravo il meccanismo da tre soldi, e gli costruivo tutto intorno il resto. Abbiamo cominciato a fare alcuni mobiletti per arredare la casa con le tavole di mare, e qui siamo negli anni 2002-2003, e tutto è nato per caso, forse dall’idea di arredare la casa.

Come ha influito nel tuo percorso la malattia?

Ho cominciato nel 2005, in quell’anno il primo quadro è venuto da sé. Era terrificante, di una tristezza infinita, e da lì sono stato costretto a fare quadri. Ma non l’ho scelto io, è avvenuto e basta, come fosse una chiamata. Poco dopo nel novembre del 2006 mi è stato scoperto il cancro, e in banca non ci son più tornato. Il mio stile, non è legato al tumore, e questo vorrei sottolinearlo. Le opere inquietanti son nate prima, fanno parte dell’inquietudine dell’uomo moderno. Punto e basta! Direi che la malattia forse ha accentuato talvolta questo aspetto, ma non è mai stata dominante.

Quale è il messaggio principale che vuoi trasmettere con le tue opere?

Quello che mi propongo è aiutare me stesso e gli altri a trascendere e superare i problemi, ma quando io lavoro di razionale non vi è più nulla. Sono come in una sorta di trance semi lucida, le mani vanno da sole, mi muovo senza volerlo, prendo i colori e li sparo sulla tela, ci butto la terra, la cenere, la colla, ma senza rendermene conto alla fine non mi ricordo nemmeno cosa ho fatto, quali sono i passaggi che mi hanno portato a quel risultato. Quindi, se volessi riottenere qualcosa di simile, e se soprattutto mi fosse permesso, dovrei fare prima uno sforzo di memoria per capire cosa ho usato prima e cosa dopo, come ho mescolato le cose, e così via. Ma serve a poco, perché quando sento il richiamo, devo andare e quello che farò, chissà chi lo sa. Anche se io ho un’idea, ad esempio, fare una rosa, novantanove volte su cento faccio tutt’altra cosa. La rosa credo sia l’unica cosa che ho pensato, voluto e son riuscito a realizzare.

Cosa provi mentre crei?
Assemblare i legni di mare, cosa che non faccio più, mi rilassava, perché la natura è meravigliosa e i suoi pezzi sono dei capolavori di armonia che chiunque può percepire. Lavorare ad un quadro, è per me tutt’altra cosa, non mi rilassa affatto, anzi mi eccita, mi sfibra, mi sfinisce, mi fa entrare in una sorta di trance.
Se lavorando i legni di mare osservavo la bellezza della natura, e ne gioivo, con i quadri esploro il genere umano e le sue forze e cambia tutto, richiede una forza incredibile. Io lavoro in modo frenetico, maniacale, velocissimo, è come se mi trasformassi ed entrassi in contatto con queste forze, che ti danno si, ma ti levano anche tanto. Alla fine, i miei lavori durano al massimo mezz’ora, mi lasciano fradicio di sudore, e stanchissimo, guardo cosa è venuto fuori, e la prima cosa che mi viene in mente è: ma chi l’ha fatto? E il problema rimane.

 

Roselli Valentina

 

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