Capitolo quarto: Il male dentro l’anima (Romanzo: La strada più breve – di Ester Eroli)

DSCF0532_miniSono nato alla vita, uscito alla luce lentamente, in maniera subdola, in punta di piedi quasi per paura di cadere nell’insidia del tempo, nella sua trappola, nelle sue false promesse prive di ricompensa. La vita frenetica fatta forse di muti sentimenti, di conti in sospeso non mi interessava. Non avevo urgenza di trovarmi nel mondo. Sentimenti contrastanti mi invadevano, facevo fatica a respirare. Aprendo gli occhi sulle apparenze della vita tutto già mi sembrava futile, ripetitivo. Ero indifeso, con poco fiato, perso, separato da mia madre dopo che il cordone ombelicale era stato reciso. Di quel momento sinceramente non ho nemmeno una vaga reminiscenza. Solo mia madre riguardava le foto di rito di quegli istanti per aggrapparsi ai ricordi, per paura di dimenticare. Dopo il parto, vissuto da lei quasi come una tortura, con un senso di fastidio, anche se il dolore era scontato, dal suo volto traspariva una esasperante dolcezza. Non voleva darla vinta al dolore. Per attirare l’attenzione su di me escogitavo crisi di pianto, rigurgiti tremendi. Piangevo di continuo, non volevo smettere. In fondo non dovevo ancora pensare. La coscienza era tenuta a bada. La vita mi sembrava inconsistente ma nello stesso tempo piena di segreti. Avevo la sensazione nitida che la vita aveva bisogno di una accettabile preparazione, di esperienza. Invece nessuno mi diceva nulla e vivevo rintanato nella mia culla fingendo interesse alla vita. Mia madre prese subito l’abitudine di cullarmi con la musica donandomi energia e ardore. Mi curava, mi serviva operativa, efficiente, senza indecisioni. Mio padre fu subito preso da una passione travolgente per me e la sua era un’allegria quasi incosciente. Era forse atterrito all’idea di essere chiamato papà. La sua era una missione a tutti gli effetti complessa. Il destino gli aveva fornito l’opportunità Ma lui era convinto di essere buono, integerrimo, insospettabile, di avere la faccia di bravo ragazzo e non c’è cosa peggiore. In questo modo si va incontro solo a danni inevitabili. All’inizio della vita dipendevo dagli altri, avevo precise esigenze e un semplice imprevisto mi faceva piangere. Un senso di sconforto prendeva mia madre quando non comprendeva il mio pianto o la mia falsa quiete. Cercava sempre e comunque di accontentarmi, senza temere il giudizio prudente di suo marito. Non mi facevo domande sul perché del vivere visto che avrei avuto scarne risposte, scarni resoconti. Non sapevo una verità elementare e cioè che in tarda età si può tornare ad essere dipendenti dagli altri. La vita può subire un drastico cambiamento. Una pessima abitudine, un pessimo esempio è dare tutto ai figli senza ripensamenti. Se la memoria non mi inganna, i primi momenti sono tutti invasi da una nebbia brillante, ero sempre vezzeggiato e le cose che volevo erano sempre a portata di mano. Simulavo eccitazione, felicità per i giocattoli ma avevo solo una vaga coscienza di essere vivo, non avevo emozioni. Come brandelli di un sogno, avvolto in ombre di vapore, rivedo la mia stanza completamente piena di giocattoli. In quella stanza si celebrava il lusso sfacciato, si poteva constatare, accertare la ricchezza. In quel luogo aleggiava il dono prezioso del denaro. Si poteva dedurre che chi abitava in quella casa era una persona benestante. Di quella stanza ho un pessimo ricordo. Generalmente giocavo da solo, chiuso seguito da una arcigna governante e per sopravvivere dovevo inventarmi un amico immaginario con cui mi identificavo. Anche io ero invisibile, ero un manichino chiuso in un armadio ricoperto di polvere. Mia madre era sempre impegnata nei concerti, nelle lezioni di musica, mio padre era sempre al lavoro, sempre impegnato a scovare nuove fonti di guadagno. Giovanni pensava solo agli interessi, alla fama, al buon nome, alla reputazione, alla sistemazione dei suoi affari. Le sue molte amanti le teneva nascoste, temeva lo scandalo. Solo parzialmente si interessava a me. Nei suoi giudizi su di me era lapidario: somigliavo troppo a mia madre, soprattutto caratterialmente. Questo era il suo cruccio. Spesso non riuscivo a strappargli nemmeno un sorriso. Senza una motivazione plausibile in un certo senso scavava un solco tra me e lui. Io cercavo sorrisi schietti, conforto, comprensione e trovavo solo abbracci frettolosi. Questo caos poteva generare con il tempo solo male, un male che inganna, che non ha uscite di emergenza. Il comportamento di mio padre ha deboli spiegazioni. Tentando un barlume di risposta posso dire, cogliendo varie sfumature, seguendo le mie impressioni, che lui ricollegava i mei capricci al carattere di mia madre che lui detestava. Manuela gli faceva perdere il buon umore Era rimasto spiazzato, io somigliavo anche fisicamente a mia madre. Aveva accantonato l’accaduto ma Giovanni si sentiva tradito e mi teneva sotto tiro Spesso ansimante invocavo la copertura del suo affetto.Volevo calore umano come un disperato ma mi trattenevo nel manifestare i miei sentimenti. Voleva qualcuno che fosse fatto a sua immagine e somiglianza, come se lui fosse il ritratto della perfezione, senza ombra di dubbio. Spesso mi infliggeva dure punizioni degne di biasimo, mi tormentava con fermezza. Per lui ero un parassita silenzioso che viveva grazie alla sua generosa rendita La sua anima era infestata dal male ed era un male contagioso, ma era un’anima che si metteva in gioco che aspirava, benchè incompleta, al potere immenso. A colpo sicuro, orientativamente, in modo oggettivo potrei dire che nonostante gli inganni delle apparenze anche io nutrivo in germe dentro di me i sintomi della prevaricazione, della prepotenza. Inevitabilmente ero dentro l’enorme labirinto della forza oscura della mia razza. Una razza vigorosa, che incuteva timore, che impartiva ordini di morte. Quante società erano fallite per colpa dei miei partenti, dei miei antenati della loro concorrenza sleale? Le loro intenzioni apparentemente erano serie, poi però facevano dei raggiri e alla fine, per sgravarsi del peso dei peccati, si recavano a messa come niente fosse. Anche io respiravo l’aria infetta della mia famiglia e mi recavo in chiesa con enorme sollievo, con trasporto, convinto che la chiesa fosse una barriera protettiva contro le brutture del mondo. La chiesa è invece un’inutile barriera quando la fede tentenna, quando non si crede alla rivelazione, all’eternità, quando dentro di noi guadagna terreno solo l’odio e il rancore. La verità del vangelo dovrebbe essere considerata una verità liberatoria, fondamentale. Nella mia giovane memoria consideravo andare alla messa una vera perdita tempo, che però faceva parte di certi riti familiari. Alle mie domande in fatto di religione mio padre rispondeva ma in modo reticente, non sapeva darmi una educazione di tipo religioso. Nessuno riusciva a riepilogarmi i concetti principali della fede a darmi una versione esauriente dei principali fatti delle sacre scritture. La mia metamorfosi, il mio rifiuto della fede avvenne quando il destino perfido mi colpì con un lutto violento. Quando avevo sette anni di nuovo la morte tornò a transitare nella mia casa, indisturbata, senza clamore tornò a colpire spietata. Una serie di avvenimenti nefasti facevano somigliare la mia famiglia a quella famosa dei Kennedy, profondamente colpiti da una serie di drammi e misteriosi lutti. Forse perché il male è la conseguenza diretta del peccato e il peccato azzera tutto persino i ricordi belli. Non ero stato preparato, addestrato al lutto. Non potevo rassegnarmi alla morte che nella mia mente infantile era stata rimossa, soffocata. Con il pensiero mi ero sempre sbarazzato della morte, non avvertivo i colpi inferti dal suo sguardo rapace. Io ero al centro dell’universo, ero il rampollo viziato, quello che difendeva il buon nome, il bambino vestito di velluto, malizioso e crudele. Era quello che con gesti precisi tratteneva il gatto per la coda, che agile si sporgeva dal balcone felice di essere osservato dai compagni che non lo avevano, era quello che torturava il cane con un bastone, che si slanciava nella corsa con una tuta sgargiante, che preferiva compagni figli di papà, che simulava sentimenti che non aveva, che faceva perdere le tracce nascondendosi nei nascondigli più impensati, che sistemava la stanza ricolma di giochi, che redigeva la lista per Babbo Natale, che setacciava il giardino dove correva a perdifiato, che scattante correva a prendere il gelato all’ora del tè, era quello che cercava un posto tranquillo per mettersi comodo, per divertirsi anche da solo, che rovistava nei vecchi bauli. Nella prima infanzia ero stato relegato nella mia stanza ma la frequentazione del collage mi aveva aperto gli orizzonti, anche se avevo sempre il carattere molle di mia madre. A scuola mi ero mostrato capace di orientarmi, competente, organizzato, capace di apprendere con facilità, in modo efficace. Avevo il vantaggio di avere una madre colta che mi seguiva e quindi mi sentivo superiore. Non aiutavo gli altri, i compagni di scuola, a fare i compiti perché in fondo li disprezzavo. Molti di loro erano in condizioni disperate ma avevo giurato a me stesso che non avrei mosso un dito in loro favore. In una sorta di patto solenne, muto con me stesso respingevo i poveri, gli inutili. Ero stato segnalato come il più bravo della scuola e mi compiacevo. Non facevo fatica a seguire le lezioni, pazientemente rispiegate da mia madre, poi non ero negligente. Per mio padre, quando andavo a chiedere un aiuto, ero invece un intralcio, risucchiavo il suo tempo ed io rimanevo sconcertato quando mi respingeva. Lui era tutto proteso a sistemare la sua carriera. Tuttavia era severo e pretendeva voti altissimi, se prendevo un voto più basso faceva scene cruente, quasi indecenti. Con dinamiche diverse mi spingeva a fare sempre di più nello studio e nelle mie varie attività ed io facevo fatica a riprendere fiato. Era insopportabile, ogni volta passava in rassegna i miei quaderni attento a ogni minimo dettaglio. Ed io per carpire la sua fiducia cercavo di studiare sodo, di rifugiarmi nei libri. Ci tenevo ad apparire bravo ai suoi occhi, mi identificavo in lui, lo consideravo un esempio da seguire, e non avrei cambiato idea. Quando prendevo un brutto voto mi facevo vedere con un sorriso triste e il volto scavato ed evitato lo sguardo di mio padre. Lui capiva subito che c’era qualcosa che non andava e mi rimproverava. Apparivo come un gatto sorpreso a rubare nella dispensa. Ben presto imparai a riconoscere il suo passo nel corridoio, il fruscio delle sue vesti e a presentarmi rilassato dato che nel frattempo avevo strappato la pagina con il voto brutto. Nel silenzio immobile, palpabile lui parlava poco, allora io cercavo nel mio piccolo di vivacizzare il dialogo facendo un elenco delle cose accadute a scuola, che lui nemmeno sentiva o su cui trovava da ridire. Non mi accarezzava mai, forse soffocava la sua voglia per apparire austero e pignolo. Quando poi scopriva il brutto voto, dato che si informava, io fingevo di cadere dalle nuvole socchiudendo gli occhi. Giuravo disorientato che avrei rimediato agli errori con scrupolo. Alcune volte depistavo mio padre per paura di ritorsioni. Con una perfetta casualità mi scovava, mi fronteggiava e mandava in frantumi la mia voglia di giocare, di vivere all’aria aperta. Incappavo sempre in ogni occasione nella sua ombra preoccupata del mio avvenire. Perlustrava la mia vita in lungo e in largo, invadeva i miei spazi liberi, si insinuava indisturbato nei miei pensieri, non gli si poteva mentire, coglieva ogni mia svista, si appostava dietro le porte, mi sorprendeva nei giochi, leggeva il mio diario. Io gli parlavo con cautela per timore. Restava interdetto quando io facevo fatica a studiare certe materie come la matematica, vedeva il mio poco entusiasmo e si accigliava. Si rammaricava della mia poca efficienza. Rimproverandomi aspramente in verità rallentava la mia capacità di apprendimento, bloccava la mia memoria. Memoria che invece avevo in dote in abbondanza, ma che si traduceva, per la paura, in amnesia. Con assoluto distacco scuoteva il mio spirito di osservazione e mi faceva scivolare nella malinconia, che mi sfiorava repentina con le sue nuove sensazioni tristi. Malinconia che mi mandava incontro alla morte del cuore e che poi si dileguava lasciandomi addosso una allegria stonata. Mi leggeva nel pensiero, leggeva i miei ridicoli diari. Io congelavo per la paura di un suo rimprovero. Alcune volte tentavo di scappare al suo sguardo o mi rivolgevo a lui con tono implorante. Di giorno ero a scuola e lui al lavoro, ma la sera sentivo con terrore la sua voce stridula. Spesso con tono viscido, persuasivo mi spingeva a procedere nello studio della matematica. Dondolandosi nervosamente sulla sua sedia, circondato dal lusso, mi rivolgeva parole volgari e irriverenti. Provocava maliziosamente il mio astio, il mio capriccio. Io temevo di fare passi falsi, di studiare in modo approssimativo, insomma di deluderlo. Nel mio diverso mondo ero arrivato a una sorta di prostrazione psichica. Per lui dovevo riuscire in ogni intento. Faceva pressione perché studiassi di più, senza perdere tempo in giochi oziosi. Avevo la responsabilità del mio futuro. Il legame familiare era il filo che mi univa agli antenati studiosi e perfetti. Non mollava la presa su di me. Io dovevo avere culturalmente una base solida, dovevo avere risultati soddisfacenti, rammentare tutto. Mi faceva domande di cultura e si aspettava risposte sicure come prova del mio studiare, io impietrito non azzardavo mai risposte vane. Se sapevo la lezione la ripetevo a voce alta, facendo puntuali descrizioni. Per l’opinione pubblica dovevo essere il figlio bravo a scuola. Aveva una scarsa opinione di me io ero un essere poco raccomandabile, banale, indisciplinato, una creatura in pena, senza coraggio. Mi sottovalutava abbastanza anche con frasi pungenti, in modo strano. Invece a scuola tutti si complimentavano con me, mostravo delle capacità che non sapevo di possedere. Nel suo modus operandi c’era un ordine maniacale che lo portava puntualmente verso il nervosismo. In questi casi per placare l’ansia che mi trasmetteva, che avvertivo, andavo fuori in giardino e sparivo senza lasciare tracce. Mi convincevo che era il caso di sopportare il suo modo insolito di mettermi alla prova. Nel mio modesto pensiero, anche se smuoveva il mondo per me, era troppo contraddittorio il suo comportamento. Da un lato mi voleva sveglio e dall’altra svuotava i segnali della mia mente con nozioni pesanti lanciate in rapida sequenza che mi stordivano. Quando chiedeva spiegazioni, scavando nel dettaglio, del mio operato, a me tremavano le mani e avevo il respiro affannoso. Nell’avventura della vita ero sotto pressione. Spesso ero disgustato dalla sua forma mentis, dai suoi gesti inconsulti che attiravano la mia attenzione. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia, non proferivo parola e arrossivo per vigliaccheria. Ero riservato, intimidito, mostravo un sorriso svanito. Solo nei grandi accadimenti precisavo con forza la mia innocenza, rimarcata per autodifesa. Comunque ero sempre all’erta. Dopo mi pentivo di aver fatto delle valutazioni univoche su di lui. Nessuno individuava il mio cruccio, l’intreccio segreto della trama della mia vita appartata, della mia coscienza articolata. A colpo sicuro posso dire che per gli altri conducevo una vita invidiabile, piena di confort grazie al reddito elevato di mio padre. Non avevano altre informazioni su di me. La mia stanza era disposta verso il sole, accattivante, piena di fascino, piena di arredi. Le case spesso non mentono, spesso sono spettrali, sono trappole chiuse, gabbie d’oro che gli invitati sentono, loro percepiscono l’odore di chiuso e l’umidità inorridita dell’anima che ci vive pur nello splendore degli arredi. Nella mia casa mancava un clima rilassato, un gesto di cortesia. A risollevare i componenti della mia famiglia era solo la fede assoluta nei soldi che paradossalmente ripristinavano la calma. Mio padre mi aveva regalato una vita senza l’ombra fugace della povertà, senza compromessi. Se ripenso a quel periodo rigoroso ricordo il mio impulso a tralasciare ogni cosa, a fingere serenità, a procurarmi piccoli divertimenti, piccole conferme delle mie capacità, che mi consentissero di andare comunque oltre. Il mio piano di azione era semplice, non era rivoluzionario: focalizzare l’attenzione solo sullo studio, senza variazioni, per trovare un accomodamento. Scaricato dalla vita vera vedevo solo mio padre fare carriera. In realtà ero persuaso del fatto che non c’era scampo. Mio padre aveva caratteristiche affini al suo gruppo di appartenenza, al suo gruppo sanguigno. Per loro la vita nel lusso poteva essere un antidoto al dolore. Nel mio modo ingenuo di vivere stavo sulla difensiva senza indignarmi, ma senza particolari convinzioni. Avevo sposato la logica di scegliere il male minore. Controllavo la rabbia in modo impressionante, senza rivolgere appelli a dio, che per me non esisteva. Con flebili speranze ascoltavo i rimbrotti di mio padre contro di me, la sua agitazione come se le mancasse la terra sotto i piedi, eppure aveva tutto. Ero spesso stanco dei soliti suoni e profumi di casa troppo sobri, poco consolanti. La gente non si accorgeva di nulla, per loro eravamo una famiglia normale piena di aspettative, i cui componenti erano legati insieme da un progetto di felicità. In senso esteso tutto procedeva senza scosse come se ci fosse stato un tacito patto con il destino. Era la nostra famiglia un quadretto idilliaco, non avevamo bisogno di aiuto, potevamo aiutare le famiglie disagiate con la beneficenza senza sacrifici, senza risparmiare. Io invece andavo alla ricerca di conferme, annoveravo un dolore nel vuoto delle cose, mi perdevo in attimi di disperazione. La famiglia non mi appariva più una corazza contro le insidie del mondo. Vivevo in una falsa normalità. Ma quanti sono i bambini che vedono la loro innocenza violata proprio in famiglia? Ipotizzo in modo plausibile che siano numerosi. Le notizie che abbiamo al riguardo sono molte e insegnano. Molti piccoli nella follia del dolore cercano di riprendersi il futuro con dispetto, di strapparlo, con espedienti, alla nebbia del dubbio. Non vogliono sprecare l’unica occasione che hanno e quindi rincuorati dal loro spirito cercano di ricominciare la vita, senza trattenersi, senza remore. I primi scompigli avvengono nel nucleo familiare Ognuno di noi ha il suo passato morto alle spalle ed io avevo già questo piccolo trauma. La vita di ognuno è sempre simile a un romanzo pieno di colpi di scena e fallimenti. Ogni individuo ha le sue colpe da espiare, nessuno escluso. Perso nel vuoto mi lasciavo contagiare dal dubbio corrosivo. Nei miei monologhi solitari parlavo solo con addosso un senso di estraneità. Il futuro mi appariva mostruoso, dovevo solo andare incontro a fatiche universitarie, alla gestione del patrimonio, a emozioni inseguite e mai provate, a seguire regole ferree, a sposare senza amare. Con mia madre, nonostante lei fosse un po’ ingrigita dal tempo, triste avevo sguardi di intesa. Lei era l’unica prova vivente dell’esistenza dell’amore che non può crollare davanti alle difficoltà. Il collage, benchè seguisse modelli didattici antiquati, rappresentava per me un ottima occasione per distinguermi, per portare avanti la strana partita che avevo ingaggiato con la vita. Accettavo le attenzioni degli insegnanti che avevano per un me un occhio di riguardo, grazie anche a cospicui regali, seguivo le regole di condotta con precisione. Ero un sorvegliato speciale e non potevo abbandonarmi a comportamenti sospetti durante le ore di lezione. Nel silenzio insopportabile di quel mondo, di quel collage nessuno poteva adescarmi sul serio. Mi impegnavo negli studi ottenendo dei successi a titolo personale, senza arrendermi. Con espressione soddisfatta evitavo il contatto con i bimbi meno intelligenti, che per me non pensavano, non esistevano. Nella mia superbia di superfavorito mantenevo nei confronti degli altri una distanza di sicurezza. In fondo nessuno poteva attaccarmi, non smettevo mai di studiare, a casa mi ripetevano le lezioni, ovunque mi giravo in casa c’erano librerie possenti che invadevano il mio tempo libero. Leggevo costantemente nell’illusione di migliorarmi con l’apprendimento. Ero all’oscuro del fatto che nella marcia della vita due sono le cose che contano: l’educazione e la dignità. Io invece non rispettavo gli altri, ero di indole irascibile e perdevo la dignità di essere umano disprezzando gli altri. La cultura non è nulla se non è accompagnata dall’educazione. All’età di sette anni compresi la forza del dolore malvagio. Mia madre Manuela fu investita da un camion e morì sul colpo. La vita è imprevedibile. Nella tela della vita si possono verificare piccole imperfezioni, anomalie, macchie ma anche grandi stappi. Di quegli istanti ho ricordi vaghi. Ricordo solo che sulla strada furono accesi molti ceri e molte candele. La morte imprevista mi dimostrava ancora una volta l’assenza di una logica e la possibilità di venire avvelenati all’improvviso senza motivo. Il mondo delle favole che mi venivano raccontate era un mondo menzognero e quindi crudele. Ormai non nutrivo dubbi, non avevo bisogno di conferme si poteva passare all’altra parte della barricata senza essere avvisati. Si entrava a far parte della categoria anime in breve tempo. Non volevo arrendermi all’evidenza ma la favola della piccola fiammiferaia mi insegnava molto. La protagonista moriva assiderata fra l’indifferenza dei passanti. Esisteva quindi una classificazione, da un lato i vivi con i loro segreti, mai rivelati, con le loro ostilità, miserie, minacce, con i loro ruoli, le loro angosce dall’altro i morti chiusi nella gelida indifferenza di un sepolcro, bisognosi forse di un ricordo, di una carezza. Nel mio piccolo inferno quotidiano la morte mi suscitava pensieri profondi, nonostante l’età, scrutava la mia anima, la corrompeva. Con aspra ripugnanza provavo un grave risentimento per la morte che sorrideva fra sé. La morte austera stava in agguato, nascosta, occultata e poi piombava nella vita per caso ornata dei suoi simboli macabri. Con mente fredda, semplicemente ci impediva di vivere. Al cospetto della morte dobbiamo guardarci dentro, perdonare, avviarci a una confessione liberatoria. La morte può essere un’occasione perfetta, da sfruttare per espiare i peccati, per redimerci. In lei sussiste la sintesi di tutto il nostro vivere. Con la fede, con le preghiere da grande, nella mia posizione di adulto imparai il valore catartico del dolore e della morte. Da piccolo invece non capivo le mosse della morte, mi aveva deluso, volevo abolirla. Nessuno era protetto, tutti erano sotto la sua nera ala. Non reggevo al dolore scomposto, la morte mi aveva tolto l’ unico affetto sincero. Volevo eludere la morte, il suo schema di gioco perverso ma non ci riuscivo. Mi chiedevo se mia madre era morta tranquilla, se aveva fatto tesoro delle lezioni di vita. Capivo comunque che il male genera solo altro male e che se non si rimedia ai torti il male vince, almeno apparentemente. Consideravo la morte un male contagioso come la peste, ingiusta e scorretta. Il dolore che si era materializzato nella mia vita cresceva e mi imprigionava. Potevo salvarmi solo ricacciando indietro le lacrime e lasciando fuori dalla vita il dolore. Se volevo la vita salva dovevo percorrere la strada giusta, quella migliore, senza tregua, ma non avevo l’intenzione, ero troppo sperduto. In quel disastro irrimediabile avevo solo un sorriso triste. Dalla mia scomoda posizione esaminavo solo i segni esterni della morte: la bara, i fiori. Mi facevo le solite domande di routine anche se non avevo risposte, voci in capitolo: dove era mia madre? Non c’erano cavilli, attenuanti, parole amichevoli. Tuttavia non volevo mollare, per questo lasciavo il mondo fuori e mi chiudevo in me stesso. Il male peggiore del genere umano è uno solo: la solitudine persino nella morte. Triste e pensieroso segui il corteo funebre. Mi madre probabilmente era in qualche punto invisibile, imprecisato dell’universo, in un luogo in bilico tra cielo e terra e mi guardava pietosa con il respiro corto, flebile, con le speranze sospese, senza illusioni. Con la voce rauca, stanca, con un sorriso sgradevole rispondevo sgomento alle condoglianze che mi venivano fatte. Mio padre rispondeva desolato con una smorfia del volto e un filo di voce. Non si era arreso. Dal suo punto di vita bisognava andare avanti con un senso di sfida, la morte era solo un’interferenza insignificante fra le frequenze della vita, solo un livido bagliore sinistro. Di rimando bisognava restituire lo schiaffo alla vita. In chiesa durante il funerale solo la lettura silenziosa dei salmi mi produsse un effetto ipnotico, rilassante. Capivo che ogni libro, anche quello privo di attrattive, racchiude un suo messaggio. La scrittura aveva una sua funzione consolatoria, soprattutto nel dolore straziante. La poesia, la scrittura ha il fascino di conservare il tempo che passa come un quadro di paesaggio che non esiste più. Mi rendevo conto che il destino beffardo mi aveva confuso, smarrito nel mare del silenzio con i suoi occhi di ghiaccio. Ribollivo di rabbia perché mi aspettavo un epilogo diverso, invece il male dilagava in modo irrimediabile. Non comprendevo appieno le ragioni di tanta crudeltà gratuita da parte della natura, della vita. La natura con destrezza trovava tutti i pretesti per seminare zizzania nel mondo. Nella casualità l’uomo vacillava senza trovare un varco sicuro. Ascoltando il battito sommesso del mio cuore riuscii solo a dare una carezza d’addio sulla bara lucida. Tutta la gente aveva ammirato il mio coraggio. Percepivo la presenza solo formale di certe persone e questo mi indispettiva. In quello strano silenzio, nella fresca brezza della sera avrei voluto vedere, ben in evidenza, occhi affranti, parole pronunciate con dolcezza, singhiozzi da togliere il fiato, sguardi distolti, massima dedizione alla salma. Mi accorgevo che il dolore della gente era contenuto, limitato, senza concitazione. Intercettavo solo sguardi appannati capaci di reggere il mio, facce abbronzate con occhiali scuri, sfrontate che restavano immutate nel tempo. Negli occhi della gente del popolo vi era anche un oscuro bagliore di odio, non partecipavano diligentemente al lutto. Era morta una donna ricca, superba, possidente che spesso, senza motivo, ostentava, indicava la sua ricchezza. Per la gente comune, convocata per l’occasione, era facile rassegnarsi. Anzi il funerale aveva fatto perdere loro del tempo prezioso e il tempo trascorso non si recuperava. Tenevano d’occhio il feretro come fosse una cosa senza importanza. Spesso spostavano l’attenzione su di me, sui miei abiti eleganti solo per sottolineare, per rimarcare la loro differenza. Ammutoliti sentivano il suono ossessivo delle campane a morto. Il dramma peggiore è quello del ceto medio a mio avviso. Esso viene invidiato dagli umili e deriso dalle classi elevate. Io facevo parte di un ceto che era solo invidiato e odiato. Contrariato seguivo tutto senza protestare. Per loro, per la gente del popolo, la morte di mia madre era solo una piccola crepa del quotidiano, un incidente che non lasciava traccia nel loro angusto mondo. Dopo il funerale rientrai nella quiete irreale della mia cameretta linda. Ero piombato nell’incertezza, i giocattoli non mi davano sollievo, erano inutili. Ero inglobato in una nuova realtà in cui non c’era nemmeno una pausa per pensare. Nella mia ingenuità capivo che dovevo convincermi a trovare altri punti di riferimento. Dovevo agire in fretta se volevo evitare il peggio. Dovevo abituarmi al cambiamento, alla mia nuova destinazione. L’idea mi suggeriva di non ricalcare i comportamenti passati, quello che avevo prima che mi accadesse il lutto A ridosso della mia stanza non c’era più la camera di mia madre piena della sua presenza, che mi accoglieva divertita con le sue risate fugaci. Non potevo tentare la fuga. Mio padre non si sottrasse alle sue responsabilità, ma la notte stessa del funerale cadde in un sonno profondo, a mio giudizio, quasi disinteressato. Io non riuscivo a dormire. Capivo che la vita era un flusso di eventi che nessuno, senza eccezioni, poteva fermare. Tutti eravamo piccole gocce annientate dal mare inospitale della vita. Dopo vari accordi mio padre successivamente riuscì a reclutare alcune governanti per me, incurante delle conseguenze. Da loro non avevo neppure un piccolo sollievo, erano estranee che mi lasciavano solo nel buio doloroso, insopportabile del dolore. Per loro ero solo un guscio vuoto fonte di guadagno. Per non impazzire, per stemperare la tensione rimuovevo il pensiero della morte, facevo finta che non esisteva. Le mie governanti erano anziane, arcigne, ben calate nel loro ruolo, abituate, quasi per istinto, a allevare i piccoli, a sbattere contro i loro sciocchi capricci. Non mostravano mai segni di stanchezza, di perplessità, emozioni umane. Per loro non c’erano prove difficili. Erano contente perché avevano un tetto, erano al riparo, avevano un salario, del cibo buono. In questo modo annientavano la povertà da cui provenivano. Per loro ero un foglio bianco senza segni distintivi su cui scrivere strani responsi. Non ero né buono né cattivo. Spesso mi rimproveravano, mi opprimevano, mi rivolgevano parole incomprensibili, insulti, mi tormentavano. Mi sentivo fragile e avvertivo il male annidato nell’ombra della mia stanza, che saliva come la marea. Io attendevo una svolta come se stessi su una debole linea di confine. Mio padre invece era disinvolto, si crogiolava nel suo benessere, trovava conforto nelle cose. Aveva fede solo nel suo potere magnifico, nella sua identità che lo rendeva unico, meno umano e più immortale. Non sapeva che in alcuni casi l’ultima risorsa può essere solo Dio. Si può cercare la fede anche nel male, perché la fede è dono sfavillante. La fede ci fa ritrovare la logica della vita, ci ritempra, ci mette davanti al mistero della vita, ci fa capire che tutta la vita ha un senso, che si deve accettare l’altro, accettare i propri limiti, ci invita al perdono, ci mostra il luogo profondo dove finiscono le anime, ci invita a non guardare il mondo con gli occhi del male, ci fa dimenticare i troppi ricordi, ci spinge alla serenità e alla fiducia, ci fa capire che il giudizio finale non spetta a noi. La fede ci fa essere sempre nella luce. La devozione può diventare brillante, puro abbandono, essere come un ricordo di luce che ci fa riemergere magicamente dal buio dandoci una nuova condizione esistenziale. Con la fede svanisce il buio della notte, arretra il male, avanzano persone nuove. La fede ci aiuta a vedere dentro noi stessi, mostra l’insondabile, è un balsamo per le ferite dell’anima, un rifugio per le paure. Pregare qualche volta può dare conforto, può dare la spinta senza essere dei religiosi fanatici. Nel mio adulto percorso spirituale ho imparato a riconoscere il bene, a fare il bene. Esiste un mondo parallelo al nostro in cui le anime resuscitano a nuova vita. Questa è una verità consolante, non un equivoco. Mi ha sempre molto colpito la frase presente in una chiesa famosa di Spello in Umbria: lasciatevi investire dalla luce di Dio e vincerete le onde del male. Lontani da Dio ci può essere anche droga, alcol, perdizione, disonestà, falsi miti come quello del sesso e del denaro. Mio padre portava abiti firmati, il suo stile di vita grondava denaro. La sua vita si svolgeva in modo logico, perfetto, lasciava prevalere la ragione. Il suo pessimo carattere era una protezione, gli serviva forse per non crollare. Secondo il suo metro di giudizio la vita era un fenomeno pieno di divertimenti, gioie senza pesi. Forse il male ha una matrice genetica, comunque mio padre si comportava come i suoi insopportabili antenati. Retaggio della sua specie era anche quell’infliggere sofferenza per puro sadismo creando assurde situazioni di sottomissione. Provavano, i miei antenati, forse piacere nella crudeltà senza una motivazione lucida e razionale. La bontà non è solo una categoria morale. Nelle pagine della mente di mio padre come un’ombra fugace appariva il suo sogno particolare: fare di me un essere simile agli antenati. Io non li conoscevo tutti, sapevo poche notizie essenziali, quelle che ero riuscito a estorcere a mio padre e alle governanti, che mi raccontavano storie banali del passato. Certe cose era meglio non saperle. Biasimavo il comportamento dei miei avi, il loro istinto primordiale a prevaricare. Mio padre si illudeva che gli antenati potessero insegnarmi qualcosa. Io potevo cadere solo nel peccato di superbia per imitarli o nel male senza rimedio. Eppure loro si consideravano moralmente integri. In quel clima subivo un condizionamento ambientale forte, privo di stimoli esterni, non mi facevano misurare con il mondo, mi tenevano sotto una campana di vetro. Crescevo riservato, protetto dalle brutture del mondo. Recitavo la mia parte con espressione allegra, mi adoperavo per cercare di capire la vita, a non abbassare la guardia. Eppure ero stranito, la mia anima era dispiaciuta, disturbata dal caos che regnava intorno a lei e che generava ulteriori sofferenze. Nel mare della vita avvertivo solo sussurri e avevo l’orrenda sensazione di non essere stato fortunato, di aver subito dei torti nonostante instillavo rabbia nei poveri per la mia ricchezza brillante. I poveri forse mi avrebbero derubato se avessero potuto, si sarebbero comportati in modo malvagio se avessero avuto l’occasione. Mi sentivo un essere inutile. Un giorno una delle mie governanti con tono affettato, quasi con brusco disprezzo, senza alcuna delicatezza, insinuò che mio padre aveva un’altra donna. Per lui era facile trovare una sostituta. Per lui la vita continuava senza la minima variazione. La condanna più grande per chi scompare dallo schermo della vita è proprio quell’assenza di ricordo da parte dei vivi, quell’ assenza di una memoria non solo individuale, quell’assenza di affetto prezioso. L’estinto ha perso il possesso della vita, l’unica cosa che aveva. Si sente come percosso, distrutto, sospeso e spedito senza pietà nell’altra dimensione, dove non solo il corpo si corrompe ma anche l’anima dei ricordi. Facendo mente locale capivo che ero giunto al capolinea. La vicenda dolorosa aveva avuto il suo epilogo. Alla spicciolata cercavo conferme ai sospetti, ma trovavo solo notizie frammentarie. Con cautela cercavo chiarimenti e facevo accertamenti. Ero spaurito, aveva preso il sopravvento l’ incredulità. Forse le occhiate fugaci di mio padre erano più eloquenti di tante parole. Dovevo uscire allo scoperto, domandarlo a lui, anche sottovoce e smettere di tormentarmi, di apparire un idiota. Constatavo che, a dispetto del poco tempo che era trascorso, mio padre aveva ricominciato a vivere alla grande, anzi non aveva mai smesso. Nella circostanza mi sembrava che tradisse mia madre, violasse il patto peculiare, speciale fatto con lei davanti all’altare e in sede civile. Per non farsi vedere da me mio padre prendeva particolari precauzioni, mi depistava di continuo. Poiché con il male ci si sporca sempre di più lui precipitava nel burrone, nell’abisso e invece era convinto di essere buono, di comportarsi bene. Si assolveva da solo. Del resto il confine tra bene e male spesso è labile, sottile, casuale. Con discrezione indagavo con il desiderio di coglierlo in fragranza. Il mio incarico era quello di porre fine a quella catena inarrestabile di menzogne. Conservavo una calma vuota priva di concitazione come se uno strato di polvere mi avesse avvolto. Ingenuamente cercavo la forza rigogliosa, viva e nello stesso tempo letale fra i cimeli di famiglia, fra i ritratti grotteschi degli antenati, messi da parte in stanze chiuse. Suoni antichi mi giungevano da un tempo dove la vita non aveva più senso. Per tamponare l’angoscia del mio cuore, per rimediare ascoltavo musica ritmata a tutto volume, disobbedendo a mio padre. Un giorno di ritorno da scuola mi apparve una scena surreale in cui mio padre si lasciava travolgere dall’abbraccio festoso di una donna procace. Avevo scovato il male, bisogna essere bravi anche in quello, mi ero addentrato nel suo territorio oscuro. Il male non fermava l’avanzare di altro male, come se ci fosse una sorta di assuefazione le persone continuavano imperterrite sulla strada del male. Ci sono persone che provano piacere nel male, una sorta di orgasmo, e vedono il mondo confuso, con gli occhi del male. Ci sono persone talmente perfide che godono del male degli altri e ostentano il proprio benessere. Il male è sempre gratuito, il bene ha sempre un prezzo. Molti trovano banale fare il bene, perché il male lo hanno dentro e lo conoscono bene. La vita, senza compassione, mi metteva alla prova. Mi aveva invaso una inaspettata sofferenza. In quella assurda situazione, in quell’oceano di ombre mi sentivo spacciato. Il male era andato oltre le mie aspettative. Mio padre, che aveva già elaborato la colpa, non tentava una autodifesa ma si limitava a fare una semplice smorfia di disapprovazione. Assecondava il suo istinto di sopravvivenza. Era ancora ironico e presuntuoso. La donna scelta non era certo semplice e genuina, era piena di un pacchiano splendore. Era uno schianto che non temeva concorrenza. Aveva un vestito leggero e arioso, i capelli biondo platino pettinati in modo eccentrico, una scollatura piena di lusinghe, un sorriso sprezzante, seccato che non faceva concessioni. Era strepitosa, amabile, deliziosa come un vino pregiato. Forse era una donna libera che andava a briglia sciolte perché non aveva nulla da perdere. Apparentemente era innocua, compita. Era stata reclutata nel bel mondo, tra i debosciati conosciuta intimamente nei locali. Sembrava istruita, impegnata e nello stesso tempo sventata. Non vedevo l’evidenza ossia che i suoi pensieri erano tutti di bassa lega e che si concentravano solo sui soldi e sui vestiti. Dovevo stare in guardia, il mio cuore subiva una battuta d’arresto. Un violento brivido percorse la mia schiena. Salutavo la donna svogliatamente, con disagio. Manifestavo il mio disappunto con un riso amaro. Era una donna peccaminosa che già aveva elaborato il suo piano perfetto e inaudito per me: liberarsi di me mettendomi in collegio. Ero entrato ormai a far parte di diritto nella schiera dei figli usati come pacchi postali, allevati magari lontano da casa. Non potevo oppormi alla rapacità di quella donna, anche se mio padre mostrava un filo di incertezza. Non era troppo convinto della soluzione. Nel lavorio malinconico della mia mente non vedevo neppure una debole luce di speranza. Dovevo di nuovo rielaborare la perdita, molto onerosa per me. Lei, la signora in questione, aveva preso il comando della situazione e raggiunto con me una tregua armata, anche se io avrei dato fuoco alle polveri. Non ascoltavo i suoi rimproveri, le sue arringhe raffinate. Mi redarguiva minacciosa, scontrosa con mille moine. Era immorale e dissennata e non era adatta a essere madre, anche se lei non lo dava a vedere, non poteva e non voleva accollarsi un bambino. I suoi metodi educativi non erano originali mi generavano un crescente ribrezzo. Mi toglievano il gusto di vivere. Nel vuoto assoluto della grande casa ciondolavo cercando di tenere alto il morale. Era l’ennesima volta che vedevo una donna superba, di tempra orgogliosa, traviata, con un sorriso affettato, senza particolari finezze culturali, con sguardo sognante, con voce suadente, capricciosa, piena di sussiego incedere con fare imperioso e scollature vertiginose nel mondo che conta. Era deprimente vederla atteggiarsi a star assoluta nei salotti dove gli uomini andavano in visibilio per lei e dove riscuoteva un eccezionale successo. Era appariscente, piena di brio, espansiva, languida, stupefacente, aveva un effetto rasserenante sugli altri. Ai teatri dava un tocco di lustro con i suoi vestiti eleganti e un po’ esagerati, attraversava i saloni bardata, tutta in ghingheri e conquistava tutti con il suo sguardo supplichevole, si presentava come un’amica. A darle forza era l’alcol. Mio padre, completamente plagiato da lei, gustava i complimenti che le rivolgevano e la seguiva assorto, fiaccamente. Era una donna snaturata, che amava solo essere apprezzata e ricordata dagli uomini. Concretamente pensavo, perché i bambini sono attenti osservatori, più dei grandi, che fosse reduce da una delusione amorosa con un uomo importante e che avesse umili origini e poca cultura. Mi domandavo come facevano gli uomini a eccitarsi per lei, a seguirla appassionati sulla sua nave traballante colma di torture, come facevano a sostenere il suo sguardo sleale. Invece è fuori discussione che tutti gli uomini sono motivati a seguire solo queste sirene perfide, licenziose e libidinose. Si illudono che queste donne abbiano un cuore d’oro, che nutrano sentimenti sinceri. Mio padre si credeva corrisposto, la adorava, invece lei in realtà civettava con tutti tanto da farlo apparire come uno zimbello. Avendo ricevuto da lei solo pugnalate, in sua presenza provavo un pizzico di disagio. Lei per fortuna non sentiva i gemiti del mio cuore, anche se mi guardava con fare indagatore. Ormai non facevo più caso alla sua presenza, non ascoltavo le frasi che diceva con enfasi. Aveva fatto piazza pulita in casa dei ritratti di mia madre, aveva sostituito molti mobili e si pavoneggiava trionfante, depravata fra le stanze convinta di avere ormai il dominio assoluto su tutto. Io pur rimanendo alcune volte senza fiato, non obiettavo, non mi intromettevo. Lei voleva il controllo del patrimonio, dilapidare gli averi. La sua ipocrisia era indisponente, spaventosa, mi procurava sdegno. I suoi gesti plateali, la sua voce sensuale e rotta inquinavano il mio mondo. Mio padre la trovava irresistibile, e per questo con lei era generoso anche se lei lo umiliava in modo deplorevole. Non era una donna riservata, era sordida, turpe, guardava in cagnesco tutte le donne che giravano nel suo salotto e soprattutto quelle che scatenavano la gelosia nel suo cuore. Parlava a ruota libera con un linguaggio tormentato, spinoso, poco colto. Io restavo pietrificato davanti ai suoi comportamenti ignobili, devastanti, maleducati. Molte donne che si atteggiano e fanno le snob molto spesso tradiscono la loro natura triviale e scurrile Nel mio mondo infantile, ancora incontaminato, contava solo la salute spirituale, la tranquillità dello spirito che però non avevo, ma nessuno era disposto ad intercedere per me, a favorirmi, ad aiutarmi nella conversione del cuore. Lei con il suo sguardo annebbiato dall’alcol spesso mi ricattava, mi rivolgeva accuse infamanti, non mostrava forme di clemenza per i miei capricci, calcava la mano su i miei errori davanti a mio padre. Ero ormai pronto per finire in collegio, ero sull’orlo del baratro. Mio padre per tagliare corto mi mise in un collegio dove veniva a trovarmi solo in tempi prestabiliti. Potevo tornare a casa solo per le feste comandate Nel caos generale del grande e vecchio collegio della capitale, nella fredda luce dei grigi corridoi, non mi sentivo preso in considerazione, nonostante la mia origine familiare nobile e famosa. Tutti mi rivolgevano frasi ironicamente cortesi. Fra gli allievi vi erano molti dotati di illustri titoli nobiliari che esibivano la loro ricchezza in un vero trionfo della vanità, si consideravano superiori e per questo mi isolavano, incoraggiando sempre la mia esclusione. Questi giovani rampolli, gaudenti e immaturi, erano ai miei occhi una ciurma di beoni allegri e festaioli, un po’ svitati, svagati che passavano la giornata in odiosi passatempi, che per loro erano fonte di divertimento smodato e il guaio era che erano sempre pronti a tutto. Buttavano i bicchieri di vetro in terra nel refettorio, rovinavano le tovaglie con bruciature di sigarette che prima avevano fumato in bagno, di nascosto. Atteggiamenti briosi, prepotenti che non concepivo e per questo mi avevano preso sott’occhio. Spesso maltrattavano ragazzi timidi e indifesi della scuola, ed io allora intervenivo per proteggerli e allora tutto degenerava in una rissa. Spesso si faceva a pugni nel cortile durante la ricreazione per una stupidaggine. Sugli insegnanti gravava una schiacciante responsabilità, ossia quella di seguirli, ma loro, con un contegno impeccabile, fingevano di non vedere, non indagavano neppure su certi misfatti. Verso alcuni protetti mostravano aperti segni di fiducia, parlavano loro con tono zuccheroso.Dietro compenso, grazie ad alcuni regali costosi, erano disposti a valorizzare in modo gentile gli allievi più sgradevoli. Nessuno prendeva nota delle incaute azioni. Gli insegnanti erano indifferenti. I genitori di simili allievi, nella loro posizione, nel loro ruolo, intercedevano in modo audace presso gli insegnanti per i loro figli ricevendo, in certi casi, anche gli omaggi della direzione. I nomi altisonanti rianimavano lo sguardo assente del direttore. Io arrancavo dentro questo mondo osceno dove non era possibile nemmeno assistere a un gesto nobile, di affetto. Era iniziata una nuova fase della mia vita, che per mio padre sicuramente rappresentava la grande svolta, il momento privilegiato, piacevole in cui sarei divenuto con il tempo più colto e più scaltro. Per me era solo una oziosa pausa in cui avrei visto la mia vita, quel poco che ne rimaneva, a brandelli. In quel periodo ero facilmente influenzabile, debole e quindi sempre ansioso, sempre sotto scacco. Con ribrezzo, fra gli alti e i bassi, partecipavo alle feste che si tenevano nel collage in occasione del compleanno di qualche illustre erede. L’atmosfera sembrava di calda ospitalità, ma era tutto finto, opaco, ipocrita. Era solo uno sfoggio di autorità e ricchezza. Con uno scintillio negli occhi, con un ampio sorriso falso mi avvicinavo gradualmente al tavolo del rinfresco e prendevo delle tartine raffinate al salmone e mangiavo con aria dimessa. La maggior parte degli allievi infatti mi escludeva dalle conversazioni, solo perché avevo difeso qualche ragazzino timido. Loro erano convinti di fare discorsi importanti, densi di significato perché loro erano importanti dato che i loro genitori avevano le mani in pasta ovunque. Io non cedevo alle loro lusinghe, non partecipavo attivamente alle loro bravate, al loro vociare, quindi ero degno di disprezzo. Io seguivo una linea di condotta pulita, onesta avanzavo nella strada dello studio, studiavo sodo per arrivare alla meta senza furore accecante, senza rabbia, con intuito e forza di volontà. Tutti mi rivolgevano per questo inferocite occhiate nervose, mi maltrattavano e escludevano. Andare bene a scuola significava attirare l’attenzione di alunni invidiosi e crudeli, che mi sottoponevano a continui dispetti e insulti di vario tipo. Nelle giornate congestionate di studio tendevo a non farci caso, facevo l’indifferente come una statua di sale. Con uno sguardo sgomento cercavo di fare tardi sui libri la sera per non dovermi confrontare con loro. Il rapporto con i compagni di scuola era diventato insostenibile. Ogni volta ripetevo l’esperienza di fare tardi e mi aiutava a calcolare il tempo trascorso i rintocchi delle campane della vicina chiesa. Le emozioni delle letture dei libri le vivevo solo interiormente, non potevo esternarle con gli altri, condividerle e quindi avevo quasi sempre il cervello come in ebollizione, mentre nell’aria si udivano le risate argentine, vaporose dei compagni superbi. In quell’esilio feroce, in quello stato di costrizione mi sentivo un sopravvissuto. Stranamente trovavo riparo solo nei ricordi, anche vaghi, anche dolorosi di casa mia. La sorte era stata crudele, non pensavo di meritare tanta solitudine. Alcune volte già dal sorgere del sole avrei voluto gettare la spugna, fuggire. Mi mettevo poi in testa che per una questione di principio dovevo rimanere. In un secondo momento avrei trovato la soluzione, in fondo non ero arrivato ancora al punto di rottura. Con un sorriso falso, intenso partecipavo ai ricevimenti importanti della scuola in occasione delle feste natalizie dove era presente l’alta società. Fra loro c’erano persone generose, simpatiche, ma anche uomini torbidi, con il turpe talento degli affari e le mani bucate, e il profumo ricercato e naturalmente donne provocanti, seminude che ostentavano orgogliose gioielli, anelli con piglio disinvolto e sguardo illuminato. Nessuno di loro aveva il volto contratto dalla fatica del vivere. Erano dei parassiti che in gran segreto rapidi, facevano maneggi di vario tipo. Gli uomini con sguardo glaciale, vacuo si maceravano fra le scommesse ippiche e le amanti, le donne, su di giri per il vino, maestose spettegolavano, parlavano di tensioni domestiche e vestiti, scarpe e preziosi. In un baleno provai odio profondo per questo mondo lugubre. In queste feste spettacolari, anche di beneficenza, avrei voluto assentarmi. Non potevo apparire ingrato agli occhi di mio padre. Il mio carattere spigoloso spesso mi spingeva a dileguarmi in punta di piedi, a rinchiudermi in bagno, ad accampare deboli scuse pur di allontanarmi. Avevo l’impressione di essere un incomodo, che tutti mi sfuggissero come fossi un insetto repellente. Spesso in certi istanti, facendo un respiro profondo, mettevo a tacere la mia rabbia avvelenata. Spesso con balzi frettolosi, in volata e sguardo ferito malinconico, avvilito raggiungevo la terrazza del collegio. Qui con il morale a terra, strappato ai miei pensieri, trovavo momentaneo riposo, ma alcune volte assistevo sbigottito a discorsi di bassa lega dei miei coetanei, che spesso raggiungevano la terrazza. Le loro facce truci, le loro esagerazioni, le loro frasi volgari avevano su di me un effetto spiacevole. Con sforzi sovrumani cercavo di apparire felice e pimpante, fingevo in modo spudorato. Mi sforzavo di essere comprensivo ma il mio volto sovente cambiava espressione. In fondo provavo ammirazione per quei ragazzi che si facevano obbedire con un semplice cenno del capo e che tornavano dalle avventure sempre sani e salvi. Quella gioventù, quella progenie infida era vivace, spensierata perfettamente selezionata per raggiungere le vette del potere e del piacere. Io riconoscevo affranto il mio smacco, la mia disfatta non mi trovavo a mio agio in quel mondo statico, stantio, dalle fondamenta fradicie. Avevo verso quel mondo uno sguardo malevolo. Il rispetto reverenziale, le belle maniere, le profusioni fatte con fervore, delle persone perbene gelidamente cortesi mi infastidivano, li avrei tutti volentieri buttati alle ortiche. Certa gente meno la vedevo e meglio stavo. Con l’acqua alla gola alcune volte tornava alla carica l’idea di tagliare la corda. Il mio disagio era palpabile, ma si dileguava fatalmente davanti al mio sogno incrollabile di studiare, di sapere. Alla luce spettrale della lampada da tavolo, con il cuore gonfio di tenerezza, seguivo gli studi con la massima attenzione, senza ritardi sui programmi. Non sentivo ragioni, non mi concedevo distrazioni. Leggevo, studiavo fino allo spasimo anche quando tornavo a casa per le vacanze di Natale o di Pasqua. Spesso la mia matrigna mi rovinava le vacanze con i suoi eloquenti pettegolezzi e le sue sconvolgenti rivelazioni. Io non le davo attenzione. Lei ormai si era installata in casa mia in pianta stabile con i suoi modi rispettabili, che a me apparivano orripilanti. Si teneva stretto il denaro facendo quasi la mantenuta, concentrandosi solo su di sé e sperperando il denaro in acquisti inutili. Con mio padre, a mio avviso, aveva solo una vaga intesa, ma lui premuroso, affabile, la lasciava fare fornendole notevoli mezzi di sostentamento. Mio padre non apriva gli occhi, continuava con puerile leggiadria, sprovveduto a crogiolarsi in quella situazione, fra incombenze e successi mietuti sul lavoro che lo ripagavano. Molti capi, molti dirigenti di aziende, frustati a casa si impongono sul lavoro e alcune volte assumono atteggiamenti persecutori nei confronti dei dipendenti, come se avessero il dente avvelenato. Cercano di compensare con la carriera il vuoto che hanno in casa, in famiglia. Con i dipendenti sfogano la loro rabbia repressa. Alcuni sono succubi della moglie, dei figli, delle amanti. Uscito dal collegio mi ritrovai davanti un mondo orribile, noioso, sconnesso, spietato, monotono dove tutto gravitava intorno al mito facile del sesso e del denaro che mi deprimeva. Non volevo fare la semplice comparsa nel mondo. Non volevo essere come tutte quelle persone disgustose e ricchissime che avevo incontrato. Avevo conosciuto nel bel mondo anche persone umili e sincere e volevo imitarle. Volevo in verità possedere sul serio almeno un titolo di studio. In fondo il verbo più amato nella mia famiglia era possedere, conquistare. Volevo fare carriera, impormi, mostrare le mie capacità, avere un ruolo, distinguermi. Ero disgustato dal mio mondo ma poi seguivo i suoi dettami. In fondo il potere mi seduceva come una donna bellissima. Attraverso lo studio avrei potuto trovare le chiavi del successo. Avevo ambizioni sfrenate che albergavano nel mio cuore solitario. In fondo volevo un riscatto, una rivincita, mostrare ai miei colleghi di studio che non ero un idiota. Da brillante conservatore decisi, come tutti i figli di papà, di iscrivermi a una facoltà universitaria della capitale. In estrema sintesi volevo anche io una reputazione, sfoggiare la mia memoria formidabile, la mia cultura, mostrarmi di classe, impeccabile. Ero un accanito, avido, acuto lettore, un virtuoso della penna, un appassionato di letteratura. Seguivo con accanimento gli ozi letterari, frequentavo assiduo mostre e teatri. Lo stemma della mia famiglia mi spingeva a perseverare composto sulla strada di una sistemazione eccezionale. I miei vestiti eleganti mi rendevano giustizia, mi facevano apparire una persona di classe. Lo studio era solo uno strumento per affermarmi. Istintivamente, in modo sorprendente una notte ebbi la rivelazione sconvolgente sulla facoltà da scegliere. Ammetto di essere rimasto sbigottito. Di solito la notte apporta consiglio. Avevo individuato la mia vocazione, colpito nel segno in modo incredibile. Le facoltà erano numerose, gli indirizzi disparati, c’era un grande assortimento di dipartimenti. Le ultime novità erano in campo economico. Mio padre esigeva un mio impegno proprio in questo campo. Io invece, con una pura espressione di ingenuità sul volto, gli comunicai la mia decisione di intraprendere gli studi letterari. Naturalmente lo irritai. La mia scelta mandava in frantumi i suoi propositi. La sua traboccante felicità per il proseguimento dei miei studi era finita in un vicolo cieco. Il suo mondo trito e vetusto, asfissiante, non ammetteva scelte di questo tipo, fatte con poco cervello. Solo qualche nobile decaduto si dedicava alle lettere, secondo mio padre, lui guardava infatti con sospetto filosofi, poeti dal cuore solitario, letterati senza spina dorsale. La poesia era un campo dedicato alle donne, solo le ragazze leggevano versi d’amore di antichi poeti. Mi rendevo conto di avergli spezzato il cuore. Invano mi richiamava all’ordine. Non osava insultarmi, strepitare, rivolgere domande. Afflitto con voce tremula e incolore, pronunciava parole incomprensibili. Con sconforto, a denti stretti mi chiese solo se ero convinto. Per i familiari sarei stato un parente scomodo, uno che aveva deviato dalla retta via per fare il pioniere in un mondo artificiale fatto di insulse poesie. Con un sorriso idiota non tentavo nemmeno una normale autodifesa. I primi esami superati brillantemente mi facevano avvampare di soddisfazione. Avevo preso una stanza in affitto, molto informale con altri studenti in prossimità della facoltà. Non volevo che sapessero della mia condizione di persona benestante. Non volevo apparire snob ai loro occhi arzilli e giovani. Nel mondo urbano, lontano dal mio pittoresco paese di provincia, cominciavo a conoscere un nuovo stile di vita, più selvaggio, più libero. Dopo i primi esami e aver scritto un poemetto letterario, cominciavo a frequentare locali pieni di gente dalla faccia truce, senza freni, che parlavano con tono alto di voce e bevevano senza controllo. Dopo gli studi e gli impegni dei primi esami avevo sentito la necessità di un periodo da trascorrere all’insegna del relax, della divagazione, dell’abbandono. Uno strano turbamento mi dava l’impressione di non riuscire a vedere chiaro dentro me stesso. La mia volontà di studiare era ancora sfolgorante, gagliarda. In modo spasmodico la sera leggevo con la luce accesa, imperterrito, irremovibile Ma era la forza dell’inerzia presto imprudente, di punta in bianco, mi sarei avventurato su una strada ignobile, fatta di compromessi e tremendi, vacillanti sbandamenti. Non ricordo alla perfezione gli accadimenti di quel periodo, ho solo vaghe reminiscenze. So per certo che iniziai una tresca con la padrona dell’appartamento, una donna più grande di me e molto smaliziata. All’inizio, ancorato al mio mondo avvilente, avevo sgranato gli occhi davanti al comportamento disinvolto dei miei amici di basso ceto. Capivo la differenza di classe. Dopo lo sconcerto inziale le differenze non le notavo più. Avevo infranto le barriere e ora nel mio girotondo mondano frequentavo anche persone non facoltose, ma non integre, in tutto e per tutto simili però ai corrotti del bel mondo. I vizi accomunano le diverse nature umane. Nella bolgia del divertimento c’erano derelitti e gran signori, accomunati dalle stesse passioni. Certe volte infatti incontravo anche persone di livello, non mi facevo scrupoli, inseguivo solo il piacere e il divertimento. Ero entrato in punta di piedi nel divertimento e poi ero stato preso al laccio. L’alcol, la musica assordante erano come una droga dolce. Capivo che il vizio veniva celebrato con ardore energico da tutti indistintamente.Le classi inferiori della scala sociale tentavano solo di imitare da cima a fondo il comportamento inquietante delle classi elevate. La frequentazione di gente di bassa lega mi avevo reso però meno esigente., meno smanioso del successo Non sentivo la mancanza delle donne di classe, mi piacevano di più quelle sguaiate, sode, prestanti che mi attiravano nelle balere. Quella nuova vita era troppo divertente, adorabile. Ogni giorno si abbelliva di nuove amicizie. Dopo notti da sballo, fatte di alcol il giorno lo passavo avvolto fra le coperte in un dolce sonno formidabile, senza studiare. La mattina mi svegliavo tardi con un piccolo sospiro, e sorridevo dolcemente al nuovo giorno che per altri era iniziato da un pezzo. Senza un minimo di rispetto verso me stesso ero caduto nel baratro ossessivo e inquieto del male. Ero un eroe negativo, un eroe del male e non lo sapevo. Il mondo corrotto che in passato mi aveva disgustato ora mi attirava con le sue lusinghe. In fondo ero figlio del mio tempo, di mio padre. Il piacere non costa fatica. Con un gesto semplice si può anche rubare, mentire. I giovani scelgono sempre il divertimento puro, non pensano ad andare in chiesa o al cimitero a trovare i propri cari. Certe cose le fanno solo i vecchi. Con sadismo mi accanivo su quella strada sperduta. La punta di diamante del problema la raggiunsi in modo poderoso quando arrivai una notte ad avere una sorta di delirio etilico che non avevo mai provato. Mi sentivo depresso, il caso mi sembrava unico. Blateravo parole senza senso, facevo discorsi contorti, come se non fossi sano di mente, la testa mi girava senza sosta, urlavo come un indemoniato, rivolgevo improperi alla gente, sventolavo fazzoletti bagnati di alcol, senza un minimo di decenza. Altezzoso vagavo per le strade buie della città lasciandomi irretire dal viscido serpente del male che si appostava in ogni anfratto per rovinarmi, per spingermi nel nulla, per abbindolarmi. Il male aveva fatto irruzione nella mia vita, mi aveva comprato l’anima, incombeva su di me con la sua aria putrida. Assimilavo ogni aspetto del male senza percepire il senso di un pericolo immediato. A mio padre fugavo ogni dubbio menzionando in modo untuoso per filo e per segno gli esami che sostenevo con abbondanza di particolari in una ritualità senza fine. I discorsi erano abbelliti con la discreta descrizione dei miei successi e dei miei piani di studio. I miei racconti non facevano una piega. Compilavo una lista dei miei prossimi esami. Ero preciso perché ascoltavo quello che facevano i ragazzi che vivevano con me. Non avrei detto nulla a mio padre nemmeno sotto tortura. Lui del resto faceva la sua vita non mi controllava più di tanto, non analizzava le parole che pronunciavo, il contenuto delle mie frasi. Eppure alcune parole spesso sono la spia del nostro disagio interiore. In quel periodo, vivendo lontani, andavamo quasi d’accordo. Era tipico di mio padre vivere in modo egoista. Invece in alcuni casi per la soluzione dei problemi, anche quelli futili, per smuovere le acque è necessario parlare con gli altri, confidarsi, racimolare il coraggio e parlare. Nei torridi pomeriggi estivi davo feste nelle terrazze dei locali, prese in affitto con i soldi della famiglia. Con affabilità e simpatia, senza immensa fatica, regalavo, galante, oggetti preziosi alle fanciulle più belle partecipanti alle feste e facevo lo spiritoso, sempre comunque alla spasmodica ricerca del piacere. Con soavità, sprizzante di gioventù trovavo sollievo fugace nei locali sordidi, fragile mi aggiravo nei ritrovi mondani che avevano su di me un effetto piacevole. Nel trambusto del mio mondo la mia vita mi sembrava di un certo livello, piena di cose interessanti, avvincente. Aveva l’aroma della panna. Non sapevo che potevo mettermi nei pasticci, che la panna poteva diventare acida. Svagato, fiacco come un lupo famelico mi aggiravo nei locali, scomparendo fra la folla affannata. Non esitavo, niente mi irritava, mi impressionava. Con la faccia pallida e languida sfoderavo il mio sorriso delicato, accattivante con fiera modestia. Taciturno, quasi muto con sguardo inespressivo, con una determinazione infelice bevevo drink dal sapore forte mentre ballerine succinte, con collane e bracciali sonanti ballavano seminude gioconde nei palchi dei locali. Nei baccanali oziosi ero ardito, parlavo in modo fluente e insensato, anche se con garbo retorico che tradiva la mia cultura. In certi ambienti recuperavo le belle maniere, i modi di dire del mio passato, mi atteggiavo a uomo di mondo. Come un robot, con aria glaciale, organizzavo la mia tabella di marcia ricca di incontri, di esperienze nuove. Nella mia vita sentivo una ventata di aria nuova. Nel silenzio cupo della mia vita invece ero come uno schiavo che frequentava solo posti miseri. Un giorno accade un grande avvenimento, che fece scalpore. Un giorno vidi in un locale, dove ero presente, fare irruzione la polizia e vidi il proprietario assediato dai giornalisti. Mi ero illuso di ricevere da quel mondo solo carezze invece ricevevo il primo schiaffo vero. Forse i bei tempi erano passati e dovevo cambiare aria, sistemarmi, smettere con tutte quelle meschinità, dovevo redimermi, abbandonare quella vita devastante e schifosa. Stavo rovinando tutto, ma potevo, se volevo, tornare in auge anche in modo solenne scrivendo le mie memorie. Con la scrittura me l’ero sempre cavata bene. Il mio genio aveva davanti un campo ancora libero. In fondo la mia scorza era buona, potevo farcela. Anche nelle condizioni più deplorevoli si può risalire dal fondo. Quando si tocca il fondo si può solo risalire. Era comunque una prova dolorosa. Corrucciato, mogio per quell’avvenimento mi mettevo sulla difensiva, seguendo il tutto con cenni del capo nervosi, di sottecchi. Impietrito, mi appostavo nel locale in un stanzino, in un pietoso buco della parete. Rimanevo fermo in una posa immutabile, serioso e respiravo quell’aria malevola. Non ero in vena, pronto per ricevere la furibonda ramanzina della polizia, per sentirmi ripetere le stesse parole terrificanti dei precettori accompagnate magari da occhiate penetranti. Non volevo essere sottoposto a interrogatorio. Era improbabile che mi scovassero anche se ero in ballo. Il mio spirito di avventura non mi faceva capire che avevo passato il limite. Nel mio mondo gretto e disgustoso mi ritenevo inoffensivo, inattaccabile, data anche la mia patina di bonarietà. La mia reputazione non era discutibile, ero un essere colto e sensibile nel mio piccolo. Avevo solo una personalità poliedrica. Nelle viscere sentivo, anche se ormai in modo sfumato, di appartenere a una razza diversa, originaria. Incuriosito, pieno di orgoglio, focoso avevo assaggiato la brezza fresca del successo fra gli amici, delle conquiste amorose, il luccichio dei locali alla moda e non volevo per principio restare a mani vuote. Mi ero orientato verso il divertimento puro, mi ero impegnato ad essere un fervente seguace di Bacco. La polizia intanto setacciava tutto il locale senza riguardo, accompagnando tutto con sonore imprecazioni, con spostamenti di mobilio. Ci sarebbe voluto molto per rimettere tutto a posto. Il proprietario, mio amico, sarebbe morto di fatica, sull’orlo di un esaurimento. Il quel gran fermento sentivo solo il fragore del mio cuore. Quello che era accaduto era un fatto senza precedenti che mi faceva scegliere di rimanere in disparte, come disperso in quello stanzino pervaso da un’aria stantia. In quel finimondo, tra il chiasso mi ero installato in quel luogo buio, incontaminato che aveva il fascino di essere un approdo all’apparenza sicuro. Alla fine quando mi trovarono mi sentivo osservato, avevo molti occhi addosso. Occhi che sentenziavano, che giudicavano. In tono piatto cercavo assurdamente di puntualizzare, di chiarire con una certa eleganza la mia posizione. Ero diventato pallido e solo con il tempo ripresi colore. L’impressione provata era che i poliziotti fingevano cordialità ma in fondo disapprovavano il mio bizzarro stile di vita. Erano sbigottiti, leggermente infastiditi dal mio atteggiamento. Credevano che ero uno dei tanti ubriachi che frequentavano il locale e che avevano perso il lume della ragione. Dovevo apparire un tipo eccentrico, uno spirito quantomeno originale che, invece di concentrarsi sugli studi,sprecava del tempo prezioso come un idiota in quel luogo sperduto che non splendeva certo in rettitudine. Ero indignato per gli sguardi che mi rivolgevano gli agenti. In fondo io facevo parte di una clientela selezionata, speciale, non comune. Ero sempre stato generoso, distribuivo in ogni occasione mondana il vile denaro ai camerieri del locale Mi ritrovavo nel bel mezzo di un ciclone e dovevo sudare sette camicie se non volevo essere menzionato sui giornali fra gli scellerati frequentatori di quella taverna. Temevo il peggio, rischiavo grosso ed ero in bilico sulla discesa, procedevo spedito, sicuro verso il baratro. Sui giornali forse sarebbe uscita la lista aggiornata di coloro che si erano fatti sedurre dal vino e dalla droga. Ero sulle spine anche se la mia anima si era fatta irrorare dal vino ma non era caduta nella tresca sordida della droga. Era meglio rimanere in silenzio, fra gli sghignazzi della folla per strada, senza inventarsi nulla. Non era il caso di replicare alle battute sarcastiche della polizia. Era giunto il momento di ristrutturarmi, di andare via dalla città, di traslocare, magari di tornare a casa per avere un’altra occasione. In quella strana atmosfera mi sentivo avvilito, logorato, calpestato capivo di aver combinato un disastro. Ero caduto dalla vetta. Eppure non avrei voluto interrompere quella vita, mi entusiasmava, volevo ogni volta strafare e avrei venduto mia madre pur di continuare a sguazzare in quel mondo viscido. Mi ero trattenuto in quella vita frenetica per dimenticare la sonnolenta, sbiadita provincia da cui provenivo e avevo fatto una misera fine. Ero costernato comunque e temevo lo sguardo di fuoco di mio padre. Mio padre avrebbe dubitato della mia sanità mentale. Ero in una situazione critica in cui si doveva procedere con prudenza e cautela. Con mio padre avrei dovuto usare toni garbati, argomenti convincenti. In verità mio padre si dette un gran daffare per salvarmi dimostrando di saperci fare. Fece qualcosa di decisivo, infatti intervenne con la sua voce melliflua e impostata presso i suoi amici influenti, meditando di rimproverarmi in separata sede. Ero scampato al pericolo ma in fondo anche per mio padre la principale occupazione era divertirsi. Era astuto, opportunista, aveva il senso degli affari. Gli amici lo aiutarono, in cambio potevano ottenere enormi profitti. Nessuno presenziò al nostro incontro che avvenne tempo dopo, incontro cordiale, civile. Pacato e tranquillo, era il ritratto della calma, in quel momento di intimità mio padre, come un automa, non mi insultava, non mi inondava di improperi, non si mostrava furente, offeso. Aveva investito su di me, gonfio di orgoglio, ed io l’avevo deluso con la mia vita inspiegabile e atroce. Mi fece fare della vaghe promesse, leggere suggerendomi di migliorare per il futuro la mia condotta. Non rigirava il coltello nella piaga, non faceva scatti di nervi, non era furioso. Intirizzito dalla paura, ansioso ero caduto come in catalessi. L’unico suo cruccio era forse quello che non avevo accumulato titoli importanti ma potevo sempre rimediare con l’aiuto di persone importanti. Mio padre era troppo orgoglioso, presuntuoso per permettersi il lusso di giudicare in modo negativo il suo sistema educativo. Poco dopo il nostro incontro presiedeva una cerimonia importante, una inaugurazione con abito formale dispensando sorrisi. Era un uomo scaltro, seduttivo. In fondo i figli somigliano ai padri. Io avvisavo dentro di me la mano possente del male che mi veniva dal sangue. Successivamente mio padre partiva per una nota stazione invernale con la sua compagna. Il suo gusto sopraffino lo induceva a non privarsi di nulla. Sulla neve si muoveva atletico, mostrando con entusiasmo la sua prestanza fisica, i suoi muscoli tonici, ben torniti, virili. Era una coppia in realtà male assortita. La sua donna si muoveva nel bel mondo graziosa e riservata, inebriante, con un sorriso incoraggiante dipinto sul volto, con il fruscio delle sue vesti scandalose, che mio padre non le impediva di indossare. La ricchezza, suo chiodo fisso, lo rendeva vivace, strepitoso in società ma incapace di reagire con la sua compagna di vita. Mio padre si tuffava nella mischia, nei discorsi nei locali, alcune volte, per trafiggere con la potenza della sua ricchezza i derelitti, i poveri quelli da eliminare, da scaricare, da far uscire dalla sua vita. I poveri potevano solo essere umiliati. Lui davanti a un povero amava ostentare. Eppure il concetto di ricchezza in se stesso è molto relativo. Un uomo di un ceto medio può essere giudicato ricco da un barbone e invece un morto di fame da un aristocratico. Con una voce trionfante, con una faccia sveglia, allegra descriveva le sue immense ricchezze agli altri. Quella vacanza sulla neve era stata pianificata nei dettagli, organizzata con precisione, senza confusione. Anche i loro amici più stretti erano presenti, tutti uguali e felici all’apparenza. L’uno ammirava la ricchezza dell’altro o la invidiava. L’erba del vicino è sempre più verde. Era un ristretto manipolo di persone lietamente felici. Un popolo variopinto che ammirava la vista magnifica delle montagne, respirava una atmosfera sontuosa, che passeggiava senza fretta fra i negozi rivolgendo intorno occhiate invitanti e sorrisi, in cerca di consensi, esplorava le piste innevate, le distese di neve con larghi sorrisi, ansimavano sugli sci nuovi fiammanti, si consolavano nei bar con gustose bevande, non si opponevano al vento impetuoso che sfibrava le ossa, parlava con voce sommessa negli alberghi decorati da molte stelle, fedeli alle regole della buona società. Il tempo nel divertimento trascorreva in un batter d’occhio e allora si assaporavano tutti i momenti. Leggermente incerti e dubbiosi erano solo gli imprenditori decrepiti che pateticamente tentavano ugualmente di sciare come gli altri. Loro rappresentavano comunque un pezzetto di storia della famiglia di origine ed erano sempre pronti all’azione come vecchi leoni. Erano sempre stimati dagli altri. Durante queste vacanze arrivò la rottura tra mio padre e la sua compagna. Un crollo inaudito del loro feeling per mio padre, per me una morte annunciata. Lei rispondeva seccamente alle richieste di riappacificazione di mio padre. Dava risposte insensate. Ignoro i motivi del loro scontro stridente. Non ho mai avuto modo di approfondire al riguardo. Nella vita ho sperimentato che è sempre meglio essere discreti, non intervenire per salvare gli altri nelle questioni troppo spinose, non arrogarsi il compito di salvatori, non darsi pena per gli altri nelle questioni importanti, non reagire. Nelle situazioni complicate è meglio non immischiarsi, per non peggiorare le cose. Tanto anche le persone per cui noi andiamo in visibilio, a cui riserviamo un trattamento speciale sono disposte a mandare in fumo la nostra amicizia, anche in modo ignobile se ci intromettiamo nella loro vita con il solo scopo di fare il bene. Questo per la tendenza estrema dell’uomo a salvare la propria pelle. Per salvarsi si getta alle ortiche una amicizia di anni. Gli amici troppo invadenti non si sopportano. Quindi dobbiamo spesso assistere impotenti al naufragio dei nostri amici, che non accettano il nostro intervento. Anche l’amicizia ha le sue regole, i suoi ritmi e non sempre ci fornisce gioie. Molti amici possono anche deluderci profondamente, rinnegarci. Inavvertitamente mio padre aveva avuto un comportamento negativo con lei, aveva fatto qualche mossa falsa. Mio padre così tornava a casa demoralizzato, malmesso, distrutto, sperduto avvolto da una tristezza soffocante, perché aveva accumulato sconfortanti e tortuose esperienze. Si era lasciato alle spalle una relazione calda, vitale. Per lui essenziale. Era stato liquidato in modo rude, senza proferire tante parole e questo lo aveva colpito. Non era stato uno scherzo divertente, ma una cosa orribile. Era impossibile sbloccare la situazione ormai statica. Eppure non c’erano stati segnali di rottura. Solo ai miei occhi lei appariva sempre ispida, sgraziata, troppo ghiotta di soldi, amante della vita comoda. Per lui invece era sempre benvenuta, la accoglieva a braccia aperte, ammirava il suo profumo delizioso, i suoi bisbigli amorosi. incurante del suo conto in banca che nel frattempo si prosciugava, si assottigliava. Nel cuore spoglio di mio padre si condensava l’angoscia, il dolore e non smetteva di lamentarsi tutto il giorno, non trovando pace in nessun posto nel mondo. Per me invece, grazie al caso, si era liberato dal giogo, dalle catene che lo asservivano a una donna micidiale, selvaggia, maleducata e perfida. Era entrato in una nuova fase. Mentre io ritornavo in città alla mia vita sovversiva, spensierata, sgangherata, indipendente, appassionante fatta di vodka, perlustrazioni e giri infiniti nei pub per fare il pieno di alcol, mio padre si chiudeva nella sua torre d’avorio nella speranza di trovare una formidabile pace e armonia nella sua casa al mare. Cercava di trovare la sua completa dimensione in un perfetto, mite angolo di pace. Invece trascinava la sua vita lugubre, con gli occhi spenti come un invasato, con la mente pullulante di pensieri sconnessi. In questo modo iniziava la sua squallida decadenza, la sua discesa che l’avrebbe portato a crollare esausto. Un intoppo, la fine di una storia sentimentale, per me un fatto banale, dato che io cambiavo compagna in continuazione, avevano acceso una pericolosa miccia. Plasmata dagli eventi la mente di mio padre aveva iniziato a divagare, a disseppellire strani cadaveri. Io mi introducevo sempre più nel mondo sordido dei locali alla moda, dove ero apprezzato, considerato ero sempre in bella vista e avevo finito per credere di essere un tipo in gamba. In verità mi allontanavo sempre più dalla strada maestra ed ero diventato un buono a nulla, improduttivo. Finanziavo solo sontuose e rumorose feste. I soldi mi venivano dalla famiglia senza bisogno di lavorare sodo e di guadagnarmi la vita con il sudore della fronte. Fantasticavo solo sul modo di rendere più vitale una festa. Mio padre, impegnato a bere e a giocare d’azzardo, non era seccato del mio vile comportamento, non si angustiava per la mia corruzione, non mostrava malumore, non trasaliva davanti alla dolorosa evidenza della mia condotta. Non aveva voci in capitolo, era fuori gioco, messo in ginocchio da una donna viziosa e perversa. Il suo amore di padre era come addormentato, quasi estinto, attutito dai bagliori dell’oro e dal rumore dei soldi. Nel mio esilio gironzolavo con l’aria del bamboccio viziato. Le mie abitudini erano rimaste inalterate e facevo tutto con un sogghigno di compiacimento sul volto. Nessuno intralciava la mia vita che ogni sera si concludeva fra i fumi dell’alcol nelle discoteche. Pur avendo frequentato in passato scuole eccezionali mi ritrovavo a disertare le aule universitarie e non provavo disappunto per questo. Mi escludevo dal mondo del sapere. Pensavo che tutto si sarebbe aggiustato con il tempo, che la mia vena decadente, i miei bollenti spiriti si sarebbero presto placati e esauriti. Con la maturità sarei cambiato. Cominciavo ad avvertire strani sintomi, avevo il sonno disturbato e alcune volte addirittura ero insonne. Ero caduto nel baratro della depressione. Ero uno scioperato che non aveva regole. Se continuavo così nessuno mi avrebbe più aiutato. Intanto i miei elevatissimi ideali stavano crollando a terra. Lottavo ogni giorno contro idee malsane e cattive che mi volevano indipendente e volubile. Tiravo avanti la mia vita depravata, bellicosa, frivola fatta di scenate tremende, di insulti spiacevoli e risse con gli amici, furiosi battibecchi, discussioni, bisticci con donne di facili costumi. Mi rovinavo intrattenendomi con donne di bassa lega, indecenti. Il mio mondo informe era popolato di facce truci con cui avevo litigi furibondi. Dalla mia parte mi sembrava che ci fosse la maggioranza schiacciante, dalla parte dei buoni solo qualche timido improvvisatore, un po’ ritardato e stupido. Ero un uomo debole, indolente, inetto, dal temperamento fragile, votato alla sconfitta. La mia anima abbacchiata, malconcia ambiva a una vita amabile, pervasa dalla pace, incruenta, fatta di picnic sull’erba profumata della felicità, fatta di calde lacrime di gioia. Osavo spendere una fortuna per le mie avventure galanti.. Dopo ogni party volgare, estenuante, scurrile tornavo a casa mansueto, stanco, come un relitto. La vita dissennata mi sciupava persino l’appetito. Avevo frequenti crisi di nervi che bloccavano il fluire dei pensieri. A un certo punto sentivo il bisogno di avere qualcuno al mio fianco, magari una donna. Volevo essere unito nella lotta contro il male o il bene, ormai non li distinguevo più. Sotto il sole cocente del male ignoravo che la mia proprietà si sarebbe potuta dissolvere presto, le mie tenute ipotecate che non avrei mai potuto fare un lavoro prestigioso, magari di concetto. Ero debilitato, affranto, ferito nell’intimità. Ero inattivo, privo di vigore, sofferente non sorridevo quasi mai. Per agguantare la felicità mi concedevo abbronzature in luoghi dal clima mite, pieni di piste sabbiose e mari brillanti. Anche in questi posti esotici facevo costosi bagordi, mi concedevo apertivi, infiammati incontri dove la mia mente usciva annebbiata. In questi posti mi portavo dietro lo stesso animo ferito, ed ero io la causa del mio malessere. Non serve viaggiare quando il nostro animo è depresso e la nostra mente offuscata. Nel viaggio ci portiamo dietro la stessa anima distrutta. Viaggiare è un’illusione, ci si illude di dimenticare, di allontanarsi. Il ruggito di entusiasmo iniziale nei viaggi si stemperava nel pandemonio allegro dei mie pensieri leggeri. Tornavo non rilassato, ma con un’aria stanca, come un derelitto. I viaggi mi stancavano il corpo, mi fiaccavano lo spirito. Non facevo viaggi di cultura, ma solo di piacere. Anche nel nostro tempo molti sono i turisti del sesso, che non girano per arricchirsi culturalmente. Alcuni si dimenticano persino di essere padri di famiglia. Con disinvoltura proseguivo senza lasciar perdere, con accanimento proprio come mio padre, pronto a rovinarmi. Non mi rendevo conto che spesso avevo il viso gonfio, la pelle priva di tono e elasticità, le occhiaie, lo sguardo assente privo di vivacità, che ero poco espansivo, poco socievole che affogavo nel male spaventoso da solo. Davo l’impressione di una persona malata, dal respiro debole. Ondeggiavo sulla nave del male fra il rumore raggelante, loquace del nulla. Inavvertitamente ero assalito dai flutti e mi rifornivo solo di tentazioni. Nel tempo non riuscivo a recuperare posizioni e per questo ovviamente ero nauseato. Presumevo che non sarei mai riemerso da quel pantano in cui mi ero introdotto per mia volontà. Ero inevitabilmente un essere pericoloso, che si affannava brioso, feroce sulla strada del male, rimettendoci l’anima. Muto e avvilito non conservavo più nemmeno un residuo di dignità, di lucidità. Una sera in un locale sentii una risatina nervosa provenire misteriosa da un angolo buio. La voce era squillante, raggiante. Dopo una cena luculliana avevo bisogno di divagarmi. Incuriosito, infervorato, con tatto e finezza senza fiatare mi diressi trionfale, rapido, verso il luogo dove proveniva la voce. Una voce che era come un richiamo rispettoso, misterioso, un idolo da adorare. Era una voce potente che mi sfidava a uscire allo scoperto. Avevo seguito i soliti metodi di seduzione che adottavo sempre e che funzionavano. La donna che mi si presentava davanti non era uno scrigno aperto come immaginavo. Era come una gemma rara, vetusta, era come un corallo prezioso ancorato a uno scoglio scosceso, una perla profumata, rara, preziosa e per questo da adorare. Le mie prime parole erano abbastanza formali. Per darmi un tono mi toccavo la cravatta di seta blu. Temevo che la fanciulla mi trattasse male. Il mio era e voleva essere un corteggiamento rapido e nello stesso tempo volevo concordare con lei un nuovo appuntamento. Non ero incline al sentimentalismo borghese, non ero un uomo romantico e a dare man forte a ciò aveva contribuito la mia vita dissipata. Il mio sguardo non era certo ossequioso, ma abbastanza irriverente. Gli occhi erano affamati di lei, di una sconosciuta. I miei modi però erano raffinati, non rozzi e plebei. Alle storie di sesso che avevo vissuto non avevo mai dato un valore sentimentale. Senza alcun rispetto avevo abusato spesso della buona fede di fanciulle perbene. Non avevo tradito la mia razza, ero come mio padre e mio nonno. Allo stuolo di donne ingenue, sciocche raccontavo un mare di banalità e bugie. Ero un cinico smidollato, scriteriato in cerca di piacere. I ritrovi perversi erano pane quotidiano, dove trovavo i miei simili. La mia capacità di amare era menomata a causa della pratica libertina. I sentimenti non facevano per me, li consideravo rognosi e inutili, non contavano nulla. I sentimenti non erano presenti nella bacheca dei miei giorni. Mi ero addentrato nei giardini selvatici del piacere, dove udivo solo lo schiamazzo dei gaudenti e mi ero adagiato sotto uno spesso strato di indifferenza. La luce naturale dell’amore non mi aveva mai colpito. L’amore per me era una parola vuota di significato, un sentimento fiacco che portava solo lacrime accecanti e delusioni cocenti. Avevo estirpato da buon combattente l’amore dal cuore, lo avevo mollato, appioppato ai perdenti. Gli innamorati mi facevano compassione, li compativo, li guardavo con aria snob. Nella mia intensa vita sociale, disumana l’amore non poteva sorgere. Seguivo contento, con passione, a passo di marcia i precetti di una vita sentimentale disordinata. Facevo parte della banda degli spensierati sempre a caccia di avventure. Non mi attaccavo alle persone, non permettevo alle donne di conoscermi nel profondo, non ammettevo la potenza dell’amore, di cui avevo una pessima opinione. L’amore era ai miei occhi pieno di demeriti, di incognite, di strane suggestioni. L’amore poteva portare fuori strada. Molte persone si sono perse per amore, hanno rovinato la loro vita. Per amore si può intraprendere una strada sbagliata. Molte sono le donne innamorate uccise dal proprio uomo. L’amore alcune volte decreta la nostra inesorabile condanna a morte. Non volevo morire per amore, non mi sentivo pronto o forse non lo sarei stato mai. Ero arrivato al classico punto di rottura. Il mio animo era una landa desolata, ero arrivato alla frutta, alla fine dei sentimenti. Nella mia mente l’amore veniva rappresentato come un ladro che ruba i cuori della gente. Nel mio lurido mondo c’era spazio solo per una vita sessuale insaziabile e frenetica. Non mi sarei aspettato dall’amore alcuno sgambetto, nessun sabotaggio. Alla donna graziosa conosciuta nel locale scrissi il mio indirizzo su un foglietto con una grafia ricercata. Per non essere banale la invitai il sabato successivo a un torneo di tennis. Con il suo volto fresco non mi guardava di traverso, anzi con aria frizzante, rimettendosi in sesto i capelli, mi incoraggiava con un’aria confidenziale. Lei era immensamente bella, di una bellezza particolare che mi faceva delirare. Volevo nutrirmi della sua bellezza. Davanti a lei i pensieri si azzeravano, ero come un vegetale davanti alla sua languida e rigogliosa bellezza. Non era la classica donna insulsa e un po’ provinciale, squallida che spesso mi ero portato a casa e che mi aveva fatto morire di noia. Lei non era sofisticata e sinuosa. Era pallida, pudica, i suoi gesti erano innocenti ma significativi. Lo sguardo era carezzevole ma mi fendeva l’anima trapassandola da parte a parte. Lei era come una fresca e limpida sorgente. Era un vero schianto. Il suo contegno regale era pieno di fascino. La guardavo pigramente, quasi sovrappensiero e non riuscivo a dire le solite frasi di circostanza, i soliti convenevoli. Ero perplesso, confuso, a bocca aperta con sguardo insistente ammiravo il suo comportamento decoroso, gradevole. Era di un’età indefinibile. Non sapevo quale poteva essere la sua età perché vestiva in modo classico, quasi fuori moda, ma era un modo di vestire ricercato, opulento. Con estrema cura mi rivolgevo a lei ma la mia voce già aveva tra le sue pieghe un tono possessivo. Non era la classica donna di ottima famiglia perfida, scaltra dallo sguardo di acciaio, che pensava solo a sistemarsi, ad arrivare e che coglieva al volo, con un sorriso cannibale, l’opportunità della sua vita di sposarsi con un uomo danaroso, di buona posizione anche se corrotto. Molte donne avevano tentato di accalappiarmi. A queste donne avevo sempre raccontato anche a denti stretti bugie vergognose, dato di me informazioni sbagliate senza un briciolo di decenza. Con diplomazia, ma raccapricciato ero riuscito a scappare a gambe levate dalla trappola del matrimonio. Per vie tortuose mi ero dileguato. Avevo sempre cancellato queste esperienze dalla mente animato dal desiderio di svicolarmi dai lacci dell’amore coniugale, che non aveva nulla a che vedere con l’amore vero. Davanti a lei ero stremato, sfiancato e un sentimento strano teneva banco nel mio cuore, inesorabile mettendomi in grave imbarazzo. Nella mente brulicavano pensieri gentili, non indecentemente erotici come avveniva in passato. La guardavo con un dolce languore compiaciuto. Siccome la mente farneticava a ruota libera ero furibondo con me stesso perché mi lasciavo irretire dal sorriso dolce e triste di una giovane donna. I primi appuntamenti li consumavo tutti in un club per famiglie, dotato di piscina e di ristorante. Al tavolo nostro non mancavano mai le orchidee. Lei, Angelica, mai nome era stato più appropriato, parlava di rado, mai con affettazione e non replicava mai alle mie battute divertenti. Una leggera abbronzatura faceva risaltare il suo incarnato e gli occhi brillavano di luce propria come se fossero sempre umidi di lacrime. Lo sguardo spesso però era mesto. Quando era imbronciata mi piaceva di più. Probabilmente apparteneva a una buona famiglia, come mostrava la sua educazione, ma io non avevo avuto mai modo di accertarlo. Il suo albero genealogico non mi interessava e nemmeno la sua dote. Durante la nostra frequentazione i miei discorsi erano quasi monologhi dove però trionfava per la prima volta la sincerità. Organizzavo gli incontri segreti di volta in volta e poi cercavo sempre un posto per appartarmi con lei in qualche sperduto angolo di un locale o di un gazebo o nelle panchine di un giardino pubblico sotto un frondoso albero. La riempivo di complimenti, di primizie. Da solo, in modo ragionevole, gestivo la faccenda ma davanti alla sua apparizione rimanevo folgorato. La mia era una lotta febbrile e terribile contro il sentimento. Lei appariva sempre semplice, luminosa non era mai bardata con gioielli, forse era un po’ statuaria. A lei non serviva la magnificenza scintillante dell’oro e dell’argento. Facendo un resoconto di quel periodo posso dire che passavo con lei molto tempo, un tempo superiore alle mie previsioni. La accoglievo con ampi gesti, le rivolgevo occhiate di intesa. Avevo gli occhi incredibilmente scintillanti, raggianti, era come tornare bambini, tornare ad avere lo stupore ingenuo dei bimbi. Io, un uomo dalle ampie vedute, ero caduto nella intricata tela spaventosa dell’amore idiota che si intrometteva, che manometteva in fretta e furia la mia vita, senza il mio parere. Ero eccitato e nello stesso tempo tremavo dalla paura. Obbedivo solo alle leggi del cuore con un sorriso esasperante. Lei mi sembrava uno specchio di virtù, tendevo a esaltarla. La osannavo davanti agli amici che non osavano immischiarsi, ficcare il naso nella mia vita privata. Non mi rimproveravano. Pensavano che avrei messo testa a posto. In fondo meritavo un po’ di pace, che invece trovavo solo quando da solo andavo a nuotare in piscina. Lei mi attirava come una calamita e nello stesso tempo però volevo fuggire da lei. Volevo fuggire per paura dei miei sentimenti. Sempre quando ci piace tanto una persona sentiamo l’esigenza di fuggire, perché ci spaventa l’abisso dell’amore. La persona che amiamo ci mette soggezione. Era difficile sopportare la nera disperazione in cui mi gettava l’amore. Non era una donna snob, altolocata, con la puzza sotto il naso, che si dava le arie, era beneducata, semplice, di una semplicità disarmante. Spesso sono poi le doti di una persona quelle che con il tempo ci annoiano di più, forse perché ci evolviamo e quello che ci piace in un periodo della nostra vita non ci piace in un’altra fase. Ero caduto fra i suoi artigli, e fra le sue grinfie soffrivo in silenzio. Lei infliggeva supplizi atroci alla mia anima. Ero tagliato fuori dai divertimenti veri e vivevo di surrogati. Lei non amava la brillante vita mondana, che a me mancava, anche se facevo finta di nulla. Una sera pieno di boria, dopo averla frequentata assiduamente, le feci con tono allegro la fulgida promessa che l’avrei amata per sempre. Lei felice rivolse gli occhi al cielo. Con lei non volevo comportarmi come un uomo ricco e volgare, come un impostore. Volevo comportarmi in modo nobile. La guardavo spogliandola con gli occhi, con passione veemente. Gli amici erano disorientati e stizziti. Alcuni mi facevano notare severamente che, dopo questo passo, mi si prospettava un futuro in carcere. Ottusamente intanto mi lasciavo prosciugare il conto in banca, che si assottigliava ogni giorno di più, specie dopo aver comprato un diamante. Lei sogghignava felice e si metteva in tiro per me. Forse anche lei seguiva il sogno dell’amore giovane e puro, come una qualsiasi ragazza di provincia. L’amore per le donne specialmente è una pietra angolare, necessaria, non può mancare l’amore nella vita di una donna. Ci sono donne che danno all’amore una importanza esagerata e spesso, indifese, cadono vittime di uomini incuranti e mediocri. A causa delle apparenze sociali alcune donne sopportano, anche con disagio, tutte le angherie, i dispetti di mariti annoiati. Nonostante la mia personalità insicura avevo deciso di convivere con questa donna eccezionale. Volevo trattarla come una persona non come un oggetto di piacere. Avevamo molte cose in comune, avevo attribuito a lei qualità che non aveva. Ormai avevo proclamato il mio amore ai quattro venti. Avevo fatto passi azzardati. Con il tempo mi resi conto della sua cultura inadeguata, del suo modo insipido di agire, delle sue insulse fantasie. L’amore mi aveva giocato un brutto scherzo e mi aveva propinato una donna scialba. Mio padre, come un gran signore, non esercitò nessuna pressione su di me, nessuna autorevolezza. In fondo lui stava dissipando al gioco di azzardo i residui di una sostanziosa somma di denaro liquido. Il patrimonio a mia insaputa si stava assottigliando. Angelica faceva una bella figura in società, quelle rare volte che riuscivo a portarla con me, si mostrava sostenuta e austera. Non indossava mai abiti aderenti, perle e coralli, si vestiva per me con eccessiva sobrietà. Io mi sentivo mortificato quando per puro caso vedevo altre donne vestite di seta, di velluto, con opali e zaffiri bene in vista. Provavo gran pena quando indossava più volte la medesima blusa incolore. Mi faceva dannare l’anima. Sembrava una donna della classe media che aveva comprato i vestiti al mercatino vicino casa. La mia vita si era ridimensionata se paragonata a quella di prima. Lei aveva uno stile di vita diverso dal mio. Io volevo una vita invidiabile, fatta di soldi e apparenze. Per me contavano ancora gli amici del gruppo in modo indiscusso, mentre lei ne voleva fare a meno. Volevo ancora in modo duro e freddo sbattere in faccia agli altri la mia ricchezza, che per me contava forse più di Angelica. Volevo ancora l’allegria disperata e chiassosa delle baraonde, delle feste in posti meravigliosi. Ero disgustato dalla vita meschina e ritirata che lei mi faceva condurre. Anche se mi ero lasciato stregare dall’amore, o da quello che io chiamavo amore, la voglia di godere la vita in mezzo a gente che aveva fatto i soldi, mi mordeva il cuore. Con il tempo aumentava. Non ero addomesticabile. Intanto non ero più affettuoso con lei, non la lodavo più in pubblico e in privato, la respingevo in un limbo remoto come il mare fragoroso spinge sulla spiaggia un relitto abbandonato. Non sprizzavo più entusiasmo. Ero caduto nella trappola letale, della rivoltante routine fatta solo di faccende, lavori domestici e scadenze di pagamenti da rispettare. Ero come crocefisso, trafitto dentro un quadro usuale: quello della famiglia perfetta, all’antica. Era una vita monotona, sobria, per me indecente. Quella via mi costringeva a fare i conti alla fine del mese, a imbarazzanti manovre finanziarie. Spesso chiedevo a mio padre degli anticipi. La mia anima nera voleva la inebriante vita di società fatta di rinfreschi, di conversazioni brillanti su vacanze, ristoranti, night club, teatri, stilisti, di abiti eleganti, di giornali di moda, di viaggi lontani, del sole accecante della bellezza di donne dalla pelle ambrata e vestite di pizzo, con fascinosi seni e diamanti, collane di perle al collo. Frequentando qualche sera da solo il bel mondo avevo conosciuto splendide creature molto giovani e avevo cominciato ad essere infedele. Agli uomini, specie maturi, piacciono molto le ragazzine. E’ un modo perverso per tornare giovani. Ad Angelica ormai mentivo spudoratamente Per lei c’era solo un minuscolo spazio nel mio cuore bollente di passioni. Il mio allegro cuore voleva storie roventi. La mia fervida fantasia erotica non aveva limiti. Gli uomini infatti prevalentemente tradiscono per sesso, di rado per amore. Ricercavo ogni volta, in ogni storia appena iniziata, l’ebbrezza del primo appuntamento. Forse si dovrebbe veramente vivere solo l’inizio inebriante di ogni storia d’amore. L’amore è fuoco e fiamme per un po’ e cenere per il resto dei giorni. Angelica mi sembrava una figura indistinta sulla sfondo, priva di un sorriso ammaliante. Lei era troppo graziosa, troppo scontata volevo una donna selvaggia, una pantera aggressiva, incantevole. Con stupore scoprivo che la convivenza non mi allettava, che il rapporto amoroso procedeva lento e fiacco, mesto. Io ero sempre più scontroso, torvo, ero in condizioni pietose, brancolavo nel buio con un sorriso pallido sul volto. Nei locali mi si schiudeva un mondo particolare quello delle belle donne, delle donne di razza, a modo, che mi rivolgevano parole sensuali appena sussurrate. Ogni giorno perdevo occasioni d’oro. Aspettavo la fine del mio legame che ormai mi andava stretto come un abito di una taglia più piccola. Con un tonfo sarebbe crollato a terra decrepito e viscido. Ero entrato in una nuova fase della mia vita. A ragion veduta meditavo di andarmene. Angelica era stata educata troppo rigidamente, era troppo composta ed io non sopportavo più la sua voce bassa, il suo accento, il suo spirito umano, la sua pudicizia. La vita è fatta di tappe e in ogni fase può anche cambiare tutto, anche i nostri gusti, la nostra anima. Quello in cui credevamo un attimo prima sparisce come un fulmine senza lasciare tracce evidenti e il risultato è solo uno straordinario cambiamento del nostro essere. Le nostre già malferme convinzioni vacillano. Frequentavo locali pieni di donne smaliziate, egocentriche, con occhi spiritati, vestite di satin, con generosi bicchieri di vino in mano, che si misuravano fra loro come pugili a colpi di vestiti. Rientravo all’alba spesso con aria disfatta, sfinito altre volte infuriato. Angelica si struggeva senza chiedere spiegazioni pur disapprovando il mio comportamento. Io mi sentivo invece virile, mi vantavo a cuor leggero delle mie prodezze e amavo quella che io definivo una brillante vita sociale. Ero un audace gaudente, traviato in cerca di emozioni. Ero il beniamino dei party. Scoprivo di avere un potere sulle donne che si mettevano in mostra per me nei luoghi intriganti dove andavo. Sotto la luce eterea delle discoteche ero sempre pronto a eccitanti, deliziose avventure e mi rivolgevo in tono confidenziale, con voce carezzevole alle ragazze sedute vicino a me nei salottini appartati del locale. Quando tornavo a casa maledicevo Angelica che con quell’aria scialba, riposante mi accoglieva ed ero subito pronto ad alzare le mani su di lei e a usare termini scurrili. La nostra storia aveva raggiunto allarmanti livelli di guardia, era a un punto morto. Non c’era più affiatamento, comprensione. Avevo deluso le aspettative di Angelica, che era sempre più preoccupata. Una difficoltà improvvisa si era intanto presentata. Angelica aspettava un bambino e me lo comunicò con aria vagamente depressa, con uno sguardo severo. Lei appariva, nonostante le sofferenze, pura, ringiovanita, forte. La mia vita distratta subiva una spaventosa trasformazione. Non volevo responsabilità e quindi non ero felice, compiaciuto, ma irritato, sconcertato e la guardavo con aria di disapprovazione. Volevo tirarmi indietro, allontanarmi velocemente. Avevo nostalgia dell’aria calda dei locali, delle riviste oziose che leggevo, delle donne calcolatrici che frequentavo. Ero euforico e felice solo all’interno della mia vita irrilevante, comoda. Ero un uomo materialista, egoista che considerava quella storia acqua passata. Dovevo trovare un espediente, un’idea brillante per sbarazzarmi di entrambi. Lei mi accusava con una espressione innocente di aver infanto le promesse che le avevo fatto. L’atmosfera accogliente della mia casa mi sembrava austera, mi sentivo soffocare. Ero al sicuro solo quando bevevo aperitivi e champagne con gli amici che consideravo essenziali. Mi attardavo, anche dopo la notizia della prossima paternità, nei locali incapace di un gesto umano, utile nei confronti di Angelica. L’alcol mi stordiva, mi forniva un sollievo momentaneo, mi distraeva, mi faceva nascondere la testa sotto la sabbia. Filtrando con le altre donne farfugliavo parole strane con voce quasi stridula. Amavo stare fuori, assiepato nei locali, nei ristoranti pieni fino a scoppiare, per fare come gli altri. Nel gruppo di amici mi sentivo euforico, speranzoso, esaltato, gli altri emulavano i miei atteggiamenti, ero il loro leader. Con gli amici parlavo alla grande. A casa mi sentivo stretto, assediato, fallito per me era un ambiente privo di stimoli, che non mi dava la scossa per andare avanti. Non volevo fare quello che facevano tutti gli adulti, non volevo condurre una vita frugale, normale per dare spazio a un figlio. Volevo una vita insolita, disinvolta, che alleviasse la monotonia dei giorni tutti uguali e per questo dirottavo i miei pensieri solo verso cose piacevoli. Pensavo che avrei avuto delle ricompense gradevoli dal destino. Mettere al mondo un figlio alla mia età mi sembrava una cosa ridicola, era una strada dura. Di getto pensavo che non valeva la pena far nascere qualcuno, anche se questo qualcuno era mio figlio, aveva il mio sangue. Non potevo accudire un figlio, quando ancora io dovevo essere accudito. La vita aveva delle spine e non volevo che un bambino provasse quelle spine nel suo cuore infantile. Angelica la sera mi accoglieva con un sorriso modesto, con il volto inespressivo nella speranza che esitassi, che accettassi la paternità. Alcune volte mi accoglieva perplessa, con il volto in fiamme, con un fievole sorriso, oppure bellicosa, nel silenzio scioccato della casa. Io abbassavo lo sguardo e taciturno pensavo al modo come retrocedere da quella situazione. Negli occhi di Angelica c’era sempre del rimprovero. Io volevo che lei effettuasse una interruzione di gravidanza. La incoraggiavo a intraprendere questa strada. Avevo trovato un ospedale preposto a questo genere di cose e un medico importante, dopo accurate indagini. Volevo andare fino in fondo a quella storia. Non volevo sentire ragioni e non volevo parlare della questione. A dileguarmi dalla situazioni difficili ero imbattibile. Uscivo dagli incubi con una espressione trionfante, con una disinvoltura pazzesca, tutto brioso come fossi appena uscito da un locale alla moda. In modo arcigno, subdolo ero pronto a svendere il mio amore a far morire mio figlio. In fondo quando la morte non ci tocca da vicino, riguarda gli altri è una cosa lontana, quasi priva di significato. In una vita esaltante, all’insegna del vizio la morte non è contemplata, rimane impalata fuori della porta, al freddo e al gelo, fino a quando il destino la innesta sul nostro prospero cammino. Con voce secca, naturale, priva di gentilezza comunicai la mia intenzione ad Angelica. Ero un figlio degno di suo padre. Era una specie di retaggio culturale: pianificare la giornata all’insegna del divertimento e del piacere. Forse era un fatto istintivo quello di programmare in anticipo le feste per sfuggire al tedio dei giorni invernali di pioggia, al rigore del freddo. Il puzzle della mia vita si componeva di pezzi unici, importanti: bolge in magnifici locali, in ambienti in, che servivano se non altro a uscire dagli schemi. In questo caos non c’erano pause. Le spese per questa vita mi sembravano trascurabili. Era una vita che mi lusingava, infatti la sera facevo sempre un resoconto eccitante e compiaciuto del giorno trascorso. Intanto però le mie casse tendevano a ridursi. Io ero ormai abituato al denaro e lo usavo a mio piacimento. Era la mia una inclinazione naturale, amavo spendere anche per futilità. Non potevo spendere per un figlio, lui avrebbe rappresentato per me un peso enorme. Intraprendere la strada di padre mi sembrava un ostacolo alla mia libertà, non era solo una questione economica. Inoltre come padre sarei stato un disastro assoluto, avrei fallito comunque la mia missione. Ci tenevo poi all’opinione degli altri e quindi fare un figlio fuori dal matrimonio era uno scandalo, che volevo evitare a tutti i costi. Il bel mondo con discrezione, ma anche con forza faceva pressione nella mia vita, mi costringeva a mostrarmi riservato. Dovevo sempre apparire impeccabile come un dottore professionista, nel chiuso del mio mondo potevo avere anche torride relazioni. Angelica sconsolata, stupita, scioccata, indignata rimase come colpita da un fulmine mentre pensieri negativi le passavano per la testa. Sembrava sull’orlo di un collasso. Senza parlare, nel momento cruciale, mi guardava senza interesse, come fossi un criminale. Una barriera si era creata tra me e lei. Le donne per natura sentono l’istinto materno e lei vedeva allontanarsi il miraggio, il sogno di essere madre. Con il tempo aveva imparato a non contraddirmi, per evitare scenate. Sul volto comparve un ghigno amaro. Non mi fece una lavata di capo. Scontenta, sprezzante, abbattuta, titubante con un sospiro accettava la mia soluzione,a denti stretti, senza convinzione. Io rimanevo sulla difensiva, parlavo con cautela, evasivo ma la mia strategia era vincente, sicura. Solo gli occhi rivelavano il mio nervosismo, guizzavano concitati perché gli occhi sono lo specchio dell’anima. Sapevo di avere un vuoto dentro, ma non ascoltavo le ragioni degli altri, e nel mio desiderio di autoaffermazione facevo quadrato contro gli ostacoli che si presentavano anche se questi erano dei figli. Avevo confabulato con degli amici, con dei professionisti e grazie alle mie conoscenze avrei rimosso in breve l’ostacolo. Nella mia vita baldanzosa, sfarzosa, piena di distrazioni c’era posto solo per un elenco interminabile di desideri da soddisfare. Nei miei piani non c’era posto neanche per un figlio maschio. Eppure tutti i padri hanno una propensione per i figli maschi e sono gelosi delle figlie femmine. Alla fine con le figlie si crea un rapporto morboso, autentico, unico. In verità per una donna l’amore più grande resta quello del padre. Nessuno ama una donna più del padre. Il padre vuole sempre salvare, proteggere la figlia che rimane sempre la sua piccolina. Era prematuro per me essere padre, deprimente in quel momento. Difendevo la mia liberà e guardavo curioso al futuro. Avevo ovviamente piani di carriera. Avvampavo dal desiderio di fare professionalmente il grande salto, anche se, sgomento, riconoscevo, che pur essendo uno spirito creativo, non avevo combinato nulla di interessante fino allora. Pensavo, con un sospiro impaziente, che tutto si sarebbe risolto. Ero soddisfatto della mia creatività, del mio estro, della mia efficienza, del mio controllo sulla situazione. Niente mi avrebbe distratto dall’ascesa. Non sarei mai caduto con un tonfo secco dalla giostra della fortuna con me così disponibile, così giusta. Con aria di sufficienza, quasi innocente, con sguardo trionfante, con un sorriso noncurante mi sentivo fortunato. La vita mi aveva dato i soldi e lo consideravo un trattamento generoso. Avevo un fantastico, entusiasmante rapporto con il mondo. La vita era una occasione irripetibili dove avrei dimostrato il mio valore. Non volevo mai essere umiliato, cadere nel ridicolo. Gli altri studenti invece sovente mi mostravano un leggero compatimento che mi lasciava impietrito dallo stupore, ma poi scrollavo le spalle. Avevo imparato a stringermi nelle spalle, a far scivolare tutto addosso con uno sguardo dolce e al tempo stesso minaccioso, anche con il cuore stretto. Quando vedevo i miei colleghi sostenere brillantemente gli esami provavo ogni tanto una piccola fitta di invidia che svaniva subito affogata in un bicchiere. Angelica era rimasta paralizzata, era indecisa. Con affetto, con espressione premurosa, innocente si toccava il ventre. Mi guardava e trasaliva come fosse stata colta in fallo. Reclamava la mia attenzione. Pazientemente aspettava un mio cambiamento di opinione con uno sguardo implorante. Cercavo sempre di farle capire che tenere il bambino non era una scelta oculata, pratica per entrambi. Con un sorriso baldanzoso, quasi deliziato con grande sollievo appresi che l’interruzione di gravidanza era avvenuta e quindi la mia vita non era stata rovinata. Non c’era stato nemmeno bisogno di accompagnarla. Mi ero sbarazzato di mio figlio, di lui ne facevo volentieri a meno. Era stata un’impresa che aveva dato i suoi frutti: la libertà. Angelica con un filo di voce, intristita, con riluttanza mi comunicò che sarebbe andata via di casa, non poteva trattenersi. il suo sguardo era velatamente sarcastico. Era un regalo che mi faceva. Finalmente venivo lasciato in pace, senza più problemi. Potevo continuare a recitare sul palcoscenico del successo. Un fremito di eccitazione mi pervadeva il corpo. La mia vita non sarebbe stata banale come quella degli altri che si sposavano e facevano figli. Apprezzavo il modo con cui era uscita di scena Angelica. Per congratularmi con me stesso mi regalai una vacanza, una crociera nel mediterraneo. Non potevo certo piangermi addosso. Con espressione divertita partivo con valigie di vitello, rigorosamente firmate e con un baule su cui erano incise le mie iniziali. Il mare mi strizzava l’occhio con un sorriso complice, stuzzicava la mia immaginazione. Come nei film mi muovevo sulla nave agile, senza imbarazzo, intrigante indossando capi coordinati, curati, decorosi. Con un sorriso di soddisfazione guardavo le donne che mi rivolgevano occhiate perplesse piene di domande. Mi lasciavo investire dall’orgia della vacanza, che per me era anche un’opportunità per conoscere nuova gente, anche straniera che parlava lingue sconosciute. Parlavo in modo fluente, con tono convinto talvolta improvvisando un passato mai avuto. Mi sapevo vendere bene. Solo un leggero fremito, che nessuno notava, tradiva il tono normale della voce. Telefonavo agli amici per far sapere che ero in vacanza. In quel mondo irreale giravano persone che vestivano abiti di Dior e di Armani e si mostravano spietati e efficienti e non avevano la minima idea di cosa significa lavorare sotto il sole, di come sia frustrante pulire i bagni di una stazione. Tutti erano ben attrezzati per la sera, avevano abiti insoliti, eleganti, adatti. Le donne volevano assurdamente apparire, mostrare il loro abbigliamento ricercato e per questo erano tese e rivolgevano intorno occhiate nervose. La loro vista si annebbiava se vedevano una donna più bella e elegante di loro. L’importante era farsi vedere. In quella nuvola di beatitudine la coincidenza era che nessuno aveva un sorriso modesto, fugace, nessuno abbassava lo sguardo. Infatti per essere presi sul serio bisogna guardare sempre in faccia gli altri e sostenere lo sguardo anche se si è degli sprovveduti. Per uno strano motivo tutti erano cordiali tra loro e avevano un tono gentile e parlavano in fretta. Con i camerieri che non contavano niente per loro, le persone presenti si trattenevano dando a questi ultimi una sensazione di gelo. Spesso ridacchiavano fra loro guardando una cameriera, che stanca e depressa, si sentiva inadeguata, delusa dalla vita e che rispondeva alle chiamate con voce esitante, riluttante. Una cameriera in certi luoghi si sente sbagliata e non comprende il trattamento che le viene riservato. Di solito le donne le lanciano stilettate con voce soave e tagliente, occhiate piene di significato. La cameriera sa che la sua divisa non si uniforma a quella delle altre, che la guardano con una espressione trionfante come a dire: noi siamo migliori di te. Sotto lo sguardo gelante delle donne ricche rimane paralizzata e imbarazzata e cerca così di non attirare l’attenzione, parlando con voce strozzata, quasi senza convinzione. La cameriera così escogita con tatto il modo per sgattaiolare, non vede l’ora di allontanarsi, è impaziente di fuggire, cerca materialmente una via di fuga. Vorrebbe essere elegante, avere anche lei un abito nuovo, magari preso a prestito, copiato da una grande firma. Comprare abiti nuovi scaccia la depressione, è una forma di gratificazione personale. Preferisce servire gruppi di amici uomini, ignorando inesperta un’altra insidia, come un insetto in trappola. L’insidia di venire corteggiata con frasi dense di allusioni, con sorrisi baldanzosi. Mentre gli uomini brindano per un terribile istante si sente una donna poco seria, poco pudica. Con lo stomaco contratto, in preda quasi al panico, dopo un attimo di esitazione, risponde con tono amabile, con un sorriso spiritoso. Si mostra all’apparenza calma mentre dentro muore di rabbia per la mancanza di rispetto. Passa in rassegna mentalmente, con discrezione tutte le possibilità che ha per riscattarsi. La fantasia la porta a pensare a riviste patinate, a sogni milionari dove i soldi scorrono a fiumi. Incredula si accorge che la sua vita ha saltato una fermata e che per lei tutto è andato diversamente. Troppo tardi si accorge dell’aria di sufficienza delle donne ricche. Si pente amaramente di aver sognato una vita diversa. Scopre anche che non è colpa sua se è nata in una famiglia povera. Finita la crociera a grandi passi tornavo, con il morale sollevato, alla vita di sempre, avvolto in una parvenza di dignità. Tornavo a parlare di golf con gli amici con voce squillante, a parlare con gente di potere, con gente sbandata delle sordide strade della movida notturna. Avevo voltato le spalle a una fase della mia vita senza un attimo di esitazione. Solo la notte insopportabili pensieri turbavano i miei sogni inquieti. In fondo avrei potuto avere un figlio più tardi verso i quaranta anni. Al figlio voluto, desiderato avrei riservato ovviamente un trattamento speciale. Con gesti affettuosi l’avrei abbracciato, con voce tremante gli avrei cantato le ninna nanne. Gli avrei comprato tutto. In fondo si compra in continuazione per consolarsi, per riempire il vuoto della vita, per rilassarsi dopo una giornata di stress. C’è sempre una grande eccitazione nel comprare, peccato che è un piacere breve che dura un attimo, poi si torna a desiderare di nuovo. Spesso ci si avvicina ai negozi con un sorriso imbarazzato, azzardiamo comunque un sorriso anche se dentro ci sentiamo in colpa, nel panico. Sappiamo di non sapere gestire al meglio le nostre finanze. Alcune volte evitiamo gli sguardi sospettosi o inespressivi dei venditori. I bisogni non hanno nulla a che vedere con i desideri. Si desidera sempre l’impossibile, le cose inutili, che poi vengono gettate via come manciate di sabbia, come mele marce. Il desiderio disperato di comprare ci assedia come un dolore pulsante. Ci sono cose, oggetti con non lasciano traccia alcuna, sono come fantasmi invisibili che si sforzano di essere vivi ma che non meritano di esistere. Tuttavia amiamo i negozi pieni di gente, il brusio dei mercatini di Natale, gli stabilimenti balneari affollati nel sole d’agosto, la voce squillante degli altoparlanti degli scali aerei, l’aria frizzante dei locali da ballo. Ci distraiamo dai mali della vita riempiendoci gli occhi di oggetti da possedere e comprare. Ogni acquisto ci sembra una opportunità, addirittura un investimento. I nostri pensieri in alcuni casi girano solo intorno all’oggetto da comprare e non si spostano. Mentre le nostre risorse precipitano verso il disastro noi non torniamo indietro. Non abbiamo la minima idea del valore del denaro. Lo trattiamo senza delicatezza. Pensiamo solo a come sarebbe potuta essere la nostra vita con quell’acquisto che prima o poi facciamo. I negozi diventano il nostro habit naturale. Le compere ci sembrano dense di significato, sono il sostegno della nostra vita vuota, aiutano a svuotare la mente, sono un caldo rifugio per sfuggire alla monotonia. Gli acquisti ci fanno sentire importanti e spesso li facciamo con aria solenne. Le cose ci fanno sentire al sicuro come nell’angolo preferito della nostra casa. Chi è vissuto nella bambagia trova seccante avere il conto in rosso, ma qualche volta accade. E’ triste guardare con aria sgomenta le vetrine senza poter comprare nulla. Risentiti guardiamo i prezzi e invidiamo con aria cupa chi compra senza complicazioni. Talvolta svagati pretendiamo troppo e vorremmo comprare tutto e se lo facciamo cadiamo sempre più in basso. Nei recessi della nostra mente sappiamo di aver sbagliato e mostriamo agli altri una forzata allegria. Vogliamo apparire ricchi e felici, vogliamo che gli altri non si accorgano del nostro disagio economico. Nei momenti in cui guadagniamo tanto compriamo in modo incontrollato, senza riflettere con calma, senza un attimo di incertezza. Ondate di sollievo ci invadono. Mostriamo un tono colpevole, di rimprovero solo la sera davanti allo specchio del bagno, quando sospettiamo che il nostro conto si sia assottigliato. Accettiamo la impeccabile cortesia delle commesse, il saluto gelido e formale degli stilisti di moda, la voce stridula dei padroni delle botteghe, con fatalismo. In fondo nella società dei consumi dobbiamo essere all’altezza della situazione, dobbiamo sostenere lo sguardo dei ricchi. Per le donne le cose sono più facili, tutto si aggiusta in modo rapido, qualche volta basta rivolgere un sorriso caloroso, accattivante, una occhiata implorante a qualche corteggiatore, magari attempato, e il gioco è fatto: l’uomo non esita a soddisfare le voglie della fanciulla. Una donna adorabile, spiritosa, ossessionata in modo frenetico dal lusso, può trovare sempre la protezione di un uomo benestante, e naturalmente si sente appagata solo quando viene ammirata dalle altre. Molte sognano di essere le fidanzate di un uomo ricco e potente, e negli ultimi tempi lo sognano anche i genitori. La morale si può mettere sotto i piedi. Un uomo ricco ha sempre molte pretese, può arrivare a sposare e divorziare più volte. Le giovani donne hanno obiettivi comuni: diventare modelle, attrici, anche senza talento. Con gli occhi lucidi sognano un matrimonio ricco. La vita semplice condotta nel monastero della propria anima non attira. Non si può solo tirare avanti, per vivere ci vuole spazio, lusso, concretezza. Nel silenzio imbarazzato, pensieroso, di una chiesa, addobbata per le nozze, le donne, con gli occhi appannati, con la schiena pervasa da un brivido, vogliono dire di sì ai soldi. Ci sono donne che svengono all’idea di possedere un oggetto di lusso come una borsa firmata o altro, sono come bambine capricciose e per averlo sono disposte a tutto. Rapite, con una strana calma, pensano solo all’aspetto esteriore, ai profumi di marca, ai tacchi alti. Spesso infuriate con sguardo preoccupato guardano l’armadio, perché per una festa, non sanno cosa indossare, eppure hanno un armadio colmo di capi di abbigliamento. Alcune donne, che si reputano migliori delle altre, pensano solo a stupefacenti gioielli, a tubini neri tempestati di brillantini. Invidiano le donne benestanti che possono permettersi degli acquisti favolosi. Le donne pratiche, e nello stesso tempo fanatiche, sanno che la vita è breve e vogliono arricchirsi per condurre una vita agiata, a costo di andare avanti con bugie e sotterfugi. Le donne non amano mangiare per non ingrassare, ma amano il lusso. Spesso considerano le altre donne delle potenziali rivali sulla breccia del successo e per questo di loro dicono male. Le altre devono solo mangiarsi il fegato per l’invidia. La carità non è una parola ben accetta. Alcune donne amano i ristoranti, i night club, i club privati, l’atmosfera di festa dove ci sono camerieri altezzosi. Bisognerebbe avere autocontrollo, agire con più fermezza per evitare di innamorarsi del proprio vizio. I padri sono orgogliosi, gioiosi di dare soldi ai figli, di comprare alla figlia un abito da sposa di un grande stilista. Tutti hanno la stessa passione per lo shopping, comprano senza fare tanti complimenti, rappresenta uno stile di vita. La vita ha un sorriso fascinoso solo quando si gettano soldi in aria. Comprare non è solo una abitudine, ma una emozione che fa respirare un’aria rilassata. Ipnotizzate dalle grandi firme alcune donne considerano un obbligo quasi sentirsi attratte da un uomo ricco e gongolano solo quando lo incontrano. Passano ore nei centri estetici per poter attirare l’attenzione su di sé. Alcune donne non si trattengono, con disinvoltura, noncuranti, con atteggiamento convincente, rivolgono i loro occhi adoranti, pieni di baldanza ad uomini potenti e famosi. Gli uomini impegnati, con un sorriso stampato sul viso abbronzato, con naturalezza, senza dubbi, fissano con intensità queste donne fatali e le desiderano. Uomini anziani ricchi considerano normale corteggiare giovani donne. Non resistono davanti a un petto rifatto. Con fermezza si mostrano interessati solo alla bellezza di donne agguerrite. Un uomo potente, abituato a vedere stampato il proprio nome sulle riviste di moda, si sente importante, ringiovanito. Molti anziani imprenditori sposano persino queste giovani donne, mostrando di fare sul serio. Solo quando vedono le spese della moglie sovente un lampo fugace di delusione passa nei loro occhi viziosi. Generalmente questi mariti appassionati si mostrano condiscendenti. Aspettano impazienti di essere risvegliati la mattina tardi dalla mano sudata della loro giovane donna. La vita degli operai appare mediocre. Eppure c’è un proverbio che dice non ti tocca fortuna se non sei mattutino. La vita normale ha il suo fascino, anche le scadenza da pagare. In fondo addormentarsi con la coscienza a posto nel silenzio stupefatto della propria camera è una immagine rasserenante. In verità la ruota della fortuna gira e spesso per una meschina vendetta del destino si può tornare ad essere poveri come un tempo o diventare poveri all’improvviso. La povertà è uno status che genera tensione, che uccide come un veleno. I poveri mentre camminano sembrano chiedere scusa, hanno lo sguardo fisso a terra, vivono appartati nel loro mondo fatto di niente, vengono derisi, qualche volta persino giudicati. Sembrano non meritare gentilezza, rispetto. Vengono maltrattati ogni tanto da gente snob. Il povero in certi casi particolari si sente fallito, vulnerabile, incapace di concentrarsi sulla vita vera. Alcuni poveri preferiscono vedere la realtà senza guardare, vedere le vetrine senza comprare. I ricchi,ricoperti di abiti costosi,li scrutano con sguardo sorpreso quasi di leggero rimprovero. I poveri, che lo sono solo per fato, per un terribile accidente, si sentono persi nelle loro vicende umane. I poveri ricevono sguardi di sufficienza, suscitano in alcuni compassione. Spesso per loro ci sono i sguardi raggelanti di donne superbe. I poveri frequentando mostre di cultura spesso si imbattono nello sguardo altero di donne smorfiose e ricche, che si sentono superiori. Allora per questo tutti indistintamente fanno carte false per avere più denaro. La vita che conducevo intanto mi spingeva sempre più in basso. Un giorno in modo brusco avrei fatto i conti con la realtà. Vivevo svagato, vagando nei caffè e nei bar mentre la situazione progressivamente mi sfuggiva di mano. Mentivo a mio padre, gli raccontavo di esami mai sostenuti con voce strozzata. Non ero al corrente di quello che accadeva in casa mia, non mi aggiornavo sulla situazione patrimoniale, mi sfuggivano dei dettagli. La mia mente non era vigile, non stavo allerta. Eppure c’erano state delle avvisaglie che io ingenuamente avevo ignorato. Mio padre si lasciava rovinare dall’alcol e dal gioco. Aveva affidato cospicue somme a una fasulla società finanziaria che era andata rovinosamente fallita. Ignoravo completamente le disavventure finanziarie di mio padre. Lui ovviamente non me ne faceva parola. Nel silenzio della mia stanza mi sentivo perfettamente al sicuro, padrone della situazione, leggero come una bolla di sapone. Con sorriso deliziato, con sguardo sognante, con gesti eleganti mi recavo al teatro, al cinema. Davo per scontato il denaro che circolava abbondantemente nelle mie tasche. Nel mio egocentrismo sembrava naturale vivere nell’agio. Davanti alla povertà mi stringevo nelle spalle. Nel silenzio invernale, nel gelo i mendicanti per strada mi suscitavano solo un sorriso idiota. Non ero nemmeno costernato. Eppure era incredibile vivere come loro. Avrei dovuto mettermi nei loro panni, provare il misterioso brivido dell’indigenza. I mendicanti non mi commuovevano, non avevano una capacità forte di persuasione. Mi rivolgevo a loro in tono burbero, non davo nemmeno un centesimo. La vita facile mi blandiva, mi accarezzava con le sue mani ricoperte da guanti di velluto. La bomba esplose all’improvviso. I debiti di gioco di mio padre andavano in qualche modo saldati. Un giorno, con la musica di sottofondo nella stanza, entrò da me un maggiordomo. Diceva di volermi parlare di una questione strettamente personale. Non potevo replicare. Nel silenzio carico di una certa tensione mi limitai a scusarmi per il disordine. Ero totalmente incapace di gestirmi. La mia incompetenza riguardava molti aspetti del vivere. Avevo la casa tutta in aria, il mio alito puzzava di alcol e non sapevo la strada per tornare indietro. La mia vita andava rivista, ma non era quello il momento. Il servo di mio padre mostrava un nervosismo impaziente. Alla fine mi parlò della situazione con voce roca, con riluttanza. In modo esperto, con modestia mi illustrò la disastrosa situazione finanziaria. Lui se l’era cavata egregiamente. Solo il suo racconto finì in un bisbiglio tremante. Cercava comunque di difendere il suo padrone, promuovere la sua causa. Io con il cervello appannato, intontito avevo la mente attraversata da fitte di una negativa eccitazione. Volevo strisciare fuori da quella orribile realtà come un serpente. Mi invadeva una orrenda sensazione di gelo. Il mio regno ozioso era vulnerabile, esposto alle intemperie. Dovevo pensare in fretta evitando lo sguardo di Giacomo. Facevo respiri profondi per mantenere la calma e abbassavo la voce. Avrei voluto sgattaiolare. In alcuni punti del racconto fingevo di non capire. Giacomo mi parlava in tono amichevole, ma con fermezza. Le sue sagge parole mi facevano capire la realtà. Lui mi palava di agenzie furbe che stavano addosso a mio padre come ragni, di una vita sregolata, di una specie di crac finanziario. Giacomo si mostrava partecipe del mio dolore. Sembrava come se il problema fosse comune, invece era solo mio. Mio padre con la sua personalità doppia, con il suo sorriso grintoso, mi aveva gabbato. Per combattere la noia aveva bevuto e giocato d’azzardo come niente fosse, dimenticando i suoi doveri di padre. Io, nel mio lucido mondo, avevo dimenticato da tempo i doveri di figlio. In quel momento critico avevo un’aria afflitta. La felicità era svanita in un attimo. La mia vita forse stava per cambiare radicalmente. Intanto la notizia della crisi finanziaria della mia famiglia, tramite alcuni domestici, si era diffusa. Pettegolezzi gustosi correvano di bocca in bocca. Alcune persone mi guardavano con un sorriso compiaciuto, erano contenti di vedermi prostrato, nella polvere. Molti mostravano un sorriso controllato venato di ironia. Altri facevano commenti maligni e esprimevano opinioni al riguardo. A denti stretti abbandonavo il mio sorriso spavaldo. Dovevo mostrarmi lucido, non codardo. Con espressione contrita, con voce stanca, sull’orlo delle lacrime cercai di mettere ordine ai pensieri. Ero in apprensione per quella situazione spaventosa. Sulla difensiva promisi che avrei parlato con mio padre. Come una folgorazione mi giunse l’idea di incontrarlo. Quando lo vidi in casa accampò arroganti giustificazioni e scuse valide, con un certo sussiego. Non era per nulla mortificato. Io invece avevo una espressione furibonda. In modo semplice mi disse che aveva solo diversificato gli investimenti che erano andati male, ma il suo comportamento era impeccabile. Difendeva con forza le sue opinioni avvolto nella sua vestaglia di seta blu notte che gli serviva per le sue molteplici conquiste amorose. In fondo aveva investito le sue risorse seguendo il disastroso consiglio di un amico d’infanzia. Molti soldi erano stati dati a fanciulle disinibite e sexy. Con il viso accaldato cercavo di tenere a bada il panico. Lui mi guardava con occhio critico con gli occhi pieni di un guizzo divertito. Il suo atteggiamento era solenne, tracotante come la prima volta che lo misi a fuoco a dovere. La semplicità sobria del mio abito contrastava con lo sfarzo della sua vestaglia. Nella accesa discussione che ne seguì i toni si fecero roventi, minacciosi, la voce di lui gelida. Le sue parole erano pugnalate. I miei pensieri erano neri come la notte, non più felici. Con aria solenne mi invitava ad uscire di casa, ad andarmene. In poco tempo la mia vita era cambiata, era diversa. Senza soldi avrei dovuto cambiare stile di vita. In quel contesto tutto si sarebbe aggiustato, potevo chiedere consiglio e aiuto ad amici fidati. Intanto per ristabilire un equilibrio nei miei pensieri pensavo al suicidio. La mia mente, che non era mai stata saggia e lungimirante, vedeva nel suicidio una alternativa a una vita di stenti. Con circospezione mi guardavo intorno e vedevo il lusso e poi mi immaginavo solo in qualche casa diroccata senza arte né parte. Il mondo del lusso mi aveva espulso. Il suicidio sembrava l’unica strada praticabile, perfetta. Un’alternativa poteva essere quella di smettere quella vita sconsiderata e iniziare ad avere un comportamento maturo e responsabile. Con le mie conoscenze avrei trovato un lavoro facilmente. Avrei lottato anche io come la maggior parte dei mortali per un posto misero, per un tozzo di pane, avrei lottato per la prima volta in modo pulito, senza barare. La ruota della fortuna era girata e mi aveva colto alla sprovvista e mi respingeva nella zona d’ombra dei perdenti, delle persone abbandonate. Non volevo finire in quel modo. Per l’apprensione avevo le mani contratte, il volto arrossato, il corpo pervaso da scosse elettriche. Avevo perduto la sicurezza economica ed era un vero disastro. Trattavo con mio padre alla pari e lo maltrattavo. Lui nella sua autorevolezza mi respingeva con gli occhi colmi di una forza magnetica, indescrivibile. Concretamente capivo che la fortuna mi aveva voltato le spalle in via definitiva. Rivolgendo una occhiata perplessa a mio padre con un sorriso tirato, con una espressione indecifrabile sul volto mi allontanai. Lo salutai con una voce ovattata. Avevo la testa leggera per la paura. Lui mi rispose in tono blando, come se io fossi un estraneo. Non mostravo la delusione, ma rimasto solo con i miei pensieri, capii che era necessario fuggire. Forse la fuga avrebbe peggiorato la situazione già complicata, non lo sapevo. Intanto il futuro non era più un luogo carico di attese gioiose. Ero inchiodato in una realtà sgradevole, nuova per me. Avrei dovuto affrontare il problema di petto, smettere di spendere soldi per cose superflue. Con il tempo avrei dovuto essere meno frivolo e presuntuoso e dare priorità a questioni diverse. Dovevo smettere di comprare vini eccellenti, oggetti di pregio artistico. In modo pratico avrei dovuto trovare un lavoro. Forse sarebbe uscita finalmente fuori la mia vocazione, avrei scoperto per quale cosa ero portato. La scrittura era stata sempre la mia passione, scrivevo pensieri su un vecchio diario sgualcito dal tempo. Avrei scritto per qualche giornale e mi sarei guadagnato da vivere onestamente. Sarei divenuto, malgrado tutto, un serio, noioso ma anche divertente intellettuale. Avrei avuto amici giornalisti importanti. Avrei conosciuto persone colte da vicino, anche se sapevo che spesso non è tutto oro quello che riluce. Spesso più le persone sono colte più sono maleducate e finte. Forse avrei imparato a non giudicare le persone dal look. Avrei alzato lo sguardo anche su persone di ceto medio guardando oltre le apparenze. Avrei organizzato il mio lavoro in modo pratico e competente. Nel mondo del lavoro mi sarei distinto per il mio modo di operare autorevole, efficiente e disponibile. I colleghi mi avrebbero guardato con occhio critico, invidioso, avrebbero insinuato delle cattiverie costringendomi a difendermi, mi avrebbero messo in difficoltà, i superiori non avrebbero avuto comprensione, non mi avrebbero forse capito. Tuttavia sarei apparso integro, serio, perspicace, sereno, puntuale sempre allegro almeno in apparenza, non avrei mai mostrato le mie ferite nascoste. Il successo mi avrebbe reso combattivo. Con espressione grave, con un sorriso soddisfatto avrei goduto delle vittorie dei miei articoli come un bambino. I miei scritti avrebbero colto nel segno. Senza espormi troppo avrei detto tutta la verità su come va il mondo. Seduto alla scrivania, con il volto caldo e rilassato, avrei scritto sulla mia visione particolare del mondo. Incapace di respirare avrei accolto gli elogi del direttore. Avrei resistito alla tentazione di fare acquisti. La perdita della ricchezza non l’avrei più considerata un grosso danno. Ero uscito solo lievemente danneggiato. Anzi il male si era trasformato in bene: avevo trovato, grazie alla perdita della ricchezza, la mia strada. Con mani tremanti e agitate avrei preso fra le mani il modulo del mio primo stipendio di uomo indipendente. Con il tempo avrei compreso che non serve amare la carriera. Nel mondo spietato del lavoro sarei stato costretto a fare dietro front. Avrebbe fatto carriera solo il più protetto e raccomandato, non serviva il talento, la bravura. I sogni di successo sarebbero forse presto svaniti. Io che ero stato sempre vincente sarei stato spodestato nel lavoro da gente mediocre. Mi sarei visto braccato, avrei cercato protezioni nelle alte sfere. Gli amici, davanti alle mie vicende familiari, si sarebbero dileguati, non mi avrebbero aiutato. La mia famiglia perdendo la ricchezza, aveva perduto smalto, prestigio. Quello che aveva costruito in tanti anni in un attimo sarebbe andato distrutto. Le mie ambizioni letterarie sarebbero state molto ridimensionate. Il colpo di grazia sarebbe stato quello di morire come semplice impiegato, senza alcun avanzamento di carriera. Con il tempo mi sarei reso conto che tutto il mondo del lavoro è inquinato alle radici e che per la gente preparata, corretta, onesta non ci sono speranze. Avrei compreso il fallimento della mia volontà di scrittura. I miei messaggi non sarebbero stati recepiti, in fondo ero solo un uomo corrotto, che per forza maggiore, era stato costretto a tornare su i suoi passi. In caso contrario sarei stato come gli altri. Tra la scrittura e me a un certo punto sarebbe finito il feeling, sarebbe stata distante anni luce. L’ispirazione sarebbe finita. Interessi diversi avrebbero animato i miei ultimi giorni. La mia educazione soltanto sarebbe rimasta, ma non tutti l’avrebbero apprezzata. La mia vita di uomo ricco si sarebbe stemperata in un grigio tramonto. Sempre capriccioso e irrequieto, sarei diventato un attempato uomo insignificante, privo di soldi. Io che non avevo mai conosciuto sacrifici avrei vissuto una vecchiaia di austerità. Un tempo invece ero superbo, fiero della mia ricchezza. Nei miei occhi spesso c’era stata una visibile ironia nei confronti dei poveri. Il giornale per cui lavoravo avrebbe fatto a meno di di me, di me che pensavo di essere indispensabile. Gli amici altolocati avrebbero continuato ad andare al teatro con gioielli di valore per una serata di gala senza di me. Per me da vecchio non ci sarebbero stati più abiti firmati, cappelli di classe, ma solo miseria. Non si può pretendere di avere sempre il mondo ai propri piedi. Quando si è ricchi bisognerebbe essere generosi, ma lui lo era stato? Lui era stato ricco per destino, per fortuna, non per merito, avrebbe dovuto essere disponibile verso gli altri. Le persone in difficoltà invece lui le reputava indegne e meschine. Faceva il fanatico facendo pesare agli altri la sua condizione. Ostentava la sua ricchezza in modo disgustoso. I suoi non erano mai stati in passato discorsi ma solo elogi della sua famiglia e descrizioni dettagliate del suo immenso patrimonio. Si sentiva superiore, voleva sempre averla vinta. Non si rendeva conto che così facendo erigeva solo una barriera con il resto del mondo, rimanendo da solo specie in vecchiaia. Ci sono persone ricche e intelligenti che fanno buon uso della loro ricchezza ma sono rare. Generalmente il denaro è un veleno corrosivo, malefico e chi lo possiede ne vuole avere sempre di più. La vita diventa una lotta per la supremazia, per il denaro e in questa lotta non si guarda in faccia a nessuno. Intorno a me la gente avrebbe fatto carriera non per una soddisfazione personale ma solo per il vile denaro. Gli scopi più nobili sono solo pretesti per accumulare denaro. Si uccidono gli ideali più puri per soldi. Ci si sposa persino per soldi. Il denaro corrode l’anima, è come un vizio maledetto. Il denaro serve spesso solo per comprare il superfluo, di cui si farebbe volentieri a meno. E’ proprio necessario avere tre ville e cinquanta paia di scarpe? Il denaro non porta alla felicità, alcune volte ostacola lo svolgimento di una vita normale, senza pretese ma autentica. I soldi non comprano l’amore, quel sentimento vero che non finisce mai nemmeno davanti alla morte. L’amore è strettamente legato alla morte. Chi ama non teme di morire, di sacrificarsi per l’oggetto del proprio amore. Non si può smettere di amare di punta in bianco. In fondo al cuore l’amore resta, lascia una traccia profonda. L’amore è una fiamma che avvolge, un fuoco che non si può domare, che prende il cuore mentre la mente è lontana. Dopo la notizia della riduzione del mio patrimonio dovevo liberarmi di quel peso sullo stomaco, di quel macigno, di quel dolore per la perdita del denaro che mi attanagliava, mio malgrado. Come sperduto fuggii da mio padre, apatico, incapace di organizzarmi. Io ero attaccato alla mia vita beata. Non potevo sopportare l’assenza dei soldi. Avevo bisogno di essere risollevato, di consolazione. Uscito dalla casa di mio padre avevo vagato nel buio, senza speranza. Poi allucinato, con gli occhi opachi, lo sguardo assente mi ero presentato in un pub reclamando la mia dose di veleno. Avrei voluto abbracciare mio padre dirgli che ero pronto a combattere al suo fianco, che lo perdonavo ma non una parola uscì dalla mia bocca. Perdonare è un percorso faticoso, per perdonare bisognerebbe dimenticare ma io non volevo scordare la mia vita di ozi. Mi imposi, mentre bevevo sodo nel pub, di non pensare e di non parlare. Dovevo per forza proiettarmi verso il futuro, volevo una vita normale. Invece mi trovavo stretto in quella situazione difficile e non potevo dirlo a nessuno, doveva essere un segreto. Forse alle prime luci del mattino l’incubo si sarebbe trasformato in un dolce risveglio. Mi ribellavo a quel destino crudele. La perdita dei soldi mi aveva lasciato un grande vuoto dentro, mi ero aggrappato a loro come un naufrago su una scialuppa di salvataggio. I soldi erano ancora la mia ancora di salvezza. Non provavo sentimenti per nessuno. Non conoscevo pietà e rimorso. Per mio padre non provavo nulla. I soldi erano stati in fondo il mio primo amore e forse anche l’ultimo, avevano lasciato solchi profondi nell’animo. l’amore per una donna lo sentivo diverso, meno intenso. L’amore per i soldi era consapevole, maturo, unico. I soldi mi ricordavano la mia adolescenza spensierata, il periodo più bello della mia vita, denso di promesse. L’amore per il denaro era una fiamma ardente, passionale, aveva uno slancio perverso, vitale che non si esauriva, che continuava negli anni. Avevo bisogno di quel fuoco per vivere in pace. Anzi più andavo avanti con gli anni e più desideravo con tutto me stesso quel fuoco per riscaldarmi. La vecchiaia in fondo ha bisogno di denaro, se non altro per curarsi. Volevo con la ragione liberarmi della schiavitù del denaro ma il cuore batteva davanti a oggetti desiderati. Nel pub continuavo a bere, era come se il tempo si fosse fermato per effetto di uno strano incantesimo. Vivevo come in un sogno cupo. Avevo perso anni dietro al denaro e adesso lui mi tradiva. Avrei dovuto combattere per averlo in futuro. Mi ero lasciato conquistare dal mito del denaro senza opporre nessuna resistenza. Non capivo che la vita è prevalentemente di sentimenti non di beni materiali. La serenità dell’anima è il massimo della felicità e non si compra come l’oro. La felicità vera parte da dentro di noi, dalla nostra interiorità. Gli oggetti non possono darci la felicità. Se siamo delusi, afflitti nessun oggetto può aiutarci, solo l’amore può salvare. Bisogna sperimentare tutti i tipi d’amore, non ci sono solo amori a senso unico. L’amore è universale, è una forza misteriosa che trascina, che dilaga. Ci sono mille amori: amore per la natura, per gli animali, per lo studio, per le stelle, per gli altri. Se noi fossimo più umani non ci sarebbero tanti problemi nel mondo. In fondo siamo solo di passaggio e dopo di noi il mondo continua comunque la sua corsa come niente fosse. Nessuno è indispensabile. Per ognuno di noi si trova un sostituto. Anche i presidenti, i direttori una volta usciti di scena nella vita hanno i loro sostituti. Spesso il sostituto è meglio del titolare. Non tutti i mali vengono per nuocere. Siamo sulla terra per imparare a vivere per aiutarci, le barriere, specie quelle invisibili, non portano da nessuna parte. Le nostre scelte invece non sono sempre libere, spesso sono condizionate dal contesto in cui avvengono. Dovremo avere comportamenti più leggeri. Non serve prendere le situazioni complicate di petto con la speranza di poterle risolvere in tempi brevi. Ci ostiniamo ad affrontare i problemi con la smania e la rabbia di uomini in gabbia. Le cose non si risolvono completamente con un tocco di bacchetta magica e non si può avere tutto e subito come pretendiamo. A complicarci la vita si aggiunge quel modo tutto nostro di costruirci trasparenti e invisibili barrire. Barriere evanescenti, inconsistenti, ma pur sempre barriere. Sono per lo più barriere mentali che ci impediscono ogni giorno di avere una visuale completa, un rapporto concreto con gli altri. Barriere capaci di sgretolarsi al primo soffio di vento ma che noi teniamo in alta considerazione al punto di agire in funzione di loro. I pregiudizi influenzano in modo massiccio i nostri pensieri. Ognuno passa il tempo a erigere mura per difendersi dall’assalto degli altri. Si costruiscono mura difensive, bastioni per combattere a viso aperto l’assalto degli altri, considerati intrusi, odiosi ficcanaso. Spesso esasperati ci chiudiamo nel nostro fortino, ben armati, e da esso spariamo a vista a chi osa avvicinarsi. Siamo così prevenuti nei confronti di particolari categorie di persone che ci chiudiamo a riccio evitando volutamente qualsiasi tipo di contatto, anche il più semplice, il più banale. Milioni di scrupoli ronzano nel nostro cervello e quindi sfioriamo le cose positive per noi ma non le raggiungiamo, non cogliamo al volo l’occasione giusta. La vita ci scorre tra le dita come sabbia di una clessidra, senza nemmeno un piccolo intervento risolutivo da parte nostra. Continuiamo imperterriti a procedere con i paraocchi e ci vantiamo pure di essere perfetti, intuitivi, sicuri. Così ci capita di perdere una ragazza speciale per il solo fatto che l’abbiamo conosciuta in un contesto particolare, magari in uno strano locale, quindi non la consideriamo. Respingiamo la persona malvestita che ci importuna per strada, scambiandola per un barbone. Ci allontaniamo dall’insolito, dal particolare per muoverci solo in acque tranquille, possibilmente nel nostro ambiente dove navighiamo sicuri. Solo nel nostro ambiente ci sentiamo protetti, anche se è un ambiente inquinato, malsano, attraversato da sottili fili trasparenti che non vediamo per quanto siamo cechi, ma che esistono. Questi fili ci dividono dagli altri ambienti, dalle altre classi sociali, dalle altre nazioni, ma soprattutto ci separano dagli altri. Gli altri possono essere dei nemici temibili ma possono anche fornirci utili spunti per vivere bene. L’amore è una forza che muove le stelle e che io non conoscevo pienamente. Nessuno può sottrarsi all’amore. Tutti possono e devono conoscerlo. L’egoismo distrugge l’amore ma non totalmente. Ci sono uomini che fanno carte false per avere una donna, la braccano, la perseguitano, la inseguono e quando la donna cede lusingata alla loro corte, dopo qualche tempo, la abbandonano attratti da altre prede più giovani. Possono anche rimanere legati a lei, ma continuano a tradire come niente fosse. Un simile comportamento non può certo definirsi amore. In questo caso si fa agli altri quello che non vorremmo per noi. Se si uccide l’amore nel cuore si diventa persone vuote. Io ero un guscio vuoto. I moderni uomini soffocano i sentimenti in nome del progresso e della civiltà. I sentimenti possono convivere con altre passioni, vanno coltivati non repressi. Amare è anche sacrificio, perdono, sottomissione, disponibilità e questo dovevo ancora impararlo. Bisogna saper amare ma io non ero capace nessuno me lo aveva insegnato. Si impara ad amare anche con il tempo, senza bisogno di insegnanti, basta la buona volontà. Bisogna sempre agire spinti dall’amore non dall’odio. L’amore porta verso le buone azioni. L’amore fa anche miracoli meravigliosi fa piangere cuori aridi che non conoscono le lacrime. Io invece nel pub piangevo di rabbia. Nella mia totale solitudine percepivo solo un gelo nel cuore. La ricchezza ormai era sfumata, i debiti di mio padre enormi, ma riflettevo sul fatto che mi aveva portato solo dolori. Numerose persone si allontanavano da me perché non si ritenevano all’altezza della situazione, si sentivano sminuiti e quindi preferivano evitarmi. Persone straordinarie non accettavano la mia amicizia perché mi vedevano come un nemico da abbattere. I miei soldi in un certo senso facevano paura, scatenavano un istintivo timore reverenziale. La gente scappava per non essere schiacciata dalla mia superiorità economica. Dovevo fare amicizia solo fra quelli del mio ceto, ma nel mio ceto serpeggiava una stupida invidia, una ridicola competizione. Non avevo letto i segnali, gli scricchiolii del mio castello di cartapesta. Avevo creduto ciecamente nella solidità del mio patrimonio. Mi ero adagiato con piacere nella stabilità e nella routine, perdendo i contatti con la realtà, con mio padre. Ero uno spirito libero che aveva pianificato la sua vita in modo egoistico. Non avevo pensato in continuazione a mio padre, avevo perduto i contatti con lui, avevo evitato i conflitti con il mondo della finanza. Con mio padre avevo avuto solo un rapporto forzato, piccoli contatti. In alcune fasi della mia vita avevo persino smesso di vederlo. Lui non si era nemmeno arrabbiato per questo. Capivo che la mia famiglia era male assortita e che per questo era colata a picco. La mia famiglia mi aveva solo permesso di far sbocciare il mio amor proprio. Nella vita extra lusso che conducevo nascondevo a me stesso la possibilità di una disfatta. Avevo avuto solo verso me stesso un atteggiamento protettivo non verso gli altri. In quel pub, dove ero entrato per bere e dimenticare, mi sentivo solo, ero in apprensione per il futuro. Con il corpo traballante per l’alcol e una espressione di disgusto sul volto, gli occhi spalancati, uscivo all’aria aperta. Qualcosa non funzionava più nella mia testa, non ero più lo specchio della salute. Il sorriso svanito svelava il dolore. Nell’oscurità, a bocca aperta per lo stupore di quanto mi era accaduto, aspettavo che fosse il cuore stesso a dissolvere la paura del domani. Un capitolo significativo della mia vita si era appena concluso. Una leggera paura aveva invaso le mie membra. La stessa paura che prende i disonesti. In fondo anche io ero un uomo perduto. Mi ero perduto fra avventure sessuali galanti e strane spese folli. In futuro invece avrei dovuto combattere per prendere sonno, per guadagnarmi da vivere. Dolore e confusione si erano impossessati tristemente di me, si erano insinuati sotto la pelle. Con un lieve sussurro, con voce roca avevo salutato il proprietario del pub, non avevo forza nella voce. Dovevo metabolizzare la rivelazione, accettare con sicurezza e determinazione, senza riluttanza, anzi con aria incurante la sfortuna. Capivo con perfetta chiarezza che a lei nulla è impossibile. A denti stretti comprendevo che mi aveva colpito. Intorno a me scendeva il silenzio della notte. Capivo che dovevo per forza, senza titubanze, confidare con calma nel futuro, il futuro poteva avere ancora per me delle possibilità. Forse avrei dovuto aiutare di più la gente, provare dei sentimenti per loro. Comunque i miei problemi avrei dovuto risolverli con urgenza. All’uscita dal pub recuperai la mia moto. Mi avvicinai a lei con aria bellicosa. Con occhi socchiusi scrutavo la notte e l’orizzonte lontano mentre una mano mi afferrava il cuore e lo strizzava. Ero troppo coinvolto. La mossa successiva forse sarebbe stata quella del suicidio. La situazione mi era sfuggita di mano. Non c’erano più i soldi a rendermi la vita piacevole e a guarire vecchie ferite d’infanzia. Pensavo che la soluzione migliore era quella di farla finita. Ero incapace di affrontare direttamente i problemi della vita che invece valeva la pena risolvere. Ignoravo le regole elementari della sopravvivenza. Certe regole non solo non le avevo comprese, ma non le avevo nemmeno messe in pratica. Non avevo mai riflettuto sul valore della vita. Alcune lezioni di vita le avrei imparate molto tempo dopo. Davanti al male, alla malattia, alla morte, alla perdita, alla vecchiaia che avanza, alla disperazione, alla povertà, al rimpianto, perdevo la testa, diventavo rabbioso, collerico, incapace di ragionare. Ero solo una mina pronta a esplodere, dimenticavo totalmente la pazienza degli umili. Davanti al male soccombevo, dimenticavo di combattere. In altre parole non ero risoluto. A occhi chiusi, lentamente, con cuore indurito, senza preamboli, precipitavo nel baratro. Davanti alle cose negative ero come una furia. Raggelato stentavo a riprendere fiato. Per me era sempre stato importante apparire. Avevo sempre messo gli altri sull’attenti. Con sguardo stanco e determinato pensavo al suicidio che avrebbe messo fine a tutto. Se mi fossi suicidato non avrei visto tutto il resto che mi attendeva. Un gesto estremo non risolve mai i problemi. Certo la morte mi attirava con la sua andatura delicata. Non avevo compassione nemmeno di me stesso. Con un ombra di tristezza negli occhi volevo mettere in pratica il mio proposito suicida. Ero attratto dalla morte come una persona vile. Tutto questo solo perché la ricchezza si era allontanata da me, impedendomi di realizzare i mei desideri materiali. Lacrime di dolore scorrevano sul mio volto, dovevo accettare la rovina senza tentennamenti. Le parole fredde ma garbate di mio padre mi risuonavano nelle orecchie. Non era il caso di discutere, il cerchio si chiudeva. Con fare calmo e deciso mi appresi a salire in moto. Non c’era più traccia di sorrisi sul mio volto, nemmeno accennati, solo rughe profonde. La vivacità era sparita, come la speranza. Mi guardavo intorno in preda al panico. Ero un animale selvatico braccato dai cacciatori. Non vedevo la bellezza della natura, dei luoghi intatti, del mare, del profumo del pane, del caffè appena tostato, del gelato alla vaniglia, del cocco, non sentivo il sapore del cioccolato, delle mandorle, non vedevo la bellezza di una giovane donna sorridente, slanciata, la bellezza di un’opera d’arte, dei versi poetici, la bellezza della vita. Tornato a casa con la moto avrei temporeggiato per qualche tempo, magari per una settimana. Poi con fare teatrale avrei allestito la scena e avrei sistemato per sempre la mia vita. Nella densa oscurità della notte ero disgustato dalla vita. Sbalordito mi rendevo conto che per me la vita senza soldi non aveva valore. Piangevo mentre le luci della città sfocavano sullo sfondo. Le luci apparivano soffuse, ovattate. I rumori giungevano attutiti. Non mi facevo domande sul futuro, tanto sarei morto presto. La mia scomparsa nessuno l’avrebbe notata. Le donne che avevo amato fugacemente potevano benissimo fare a meno di me, alcune si erano sposate, erano orgogliose di aver costituito una famiglia rispettabile. Puntando i riflettori sulla mia vita non vedevo persone riconoscenti, disposte a piangere per me, a perdonarmi. In breve tempo, preoccupato, quasi d’impeto, in fretta, comprendevo che ero solo una macchia indistinta nell’universo, un granello di polvere destinato a confondersi con gli altri. Arrossivo di vergogna: non avevo realizzato niente. Non avevo offerto amore, non avevo ricevuto amore, nessuno era disposto a seguirmi, ad obbedirmi per amore. La gente anzi si allontanava da me come fossi un appestato. La gente tiene lontano i ricchi come i poveri, anche i poveri spesso sono oggetto di scherno. Il ceto medio non è certo un privilegiato, deve subire le occhiate altezzose dei ricchi e lo sguardo carico di invidia dei poveri. La distinzioni in classi e ceti e quanto di più terribile possa esistere sulla faccia della terra. Eppure siamo nati tutti allo stesso modo. Nel mistero della vita mi ero immaginato di essere una persona ammirata, amata invece le persone che mi stavano vicine mi rivolgevano solo sorrisi tirati. Ai loro occhi ero un uomo presuntuoso, ribelle, gaudente mentre io dentro mi sentivo completamente diverso. Non avevo mai chiesto aiuto, non avevo mai steso una mano. L’unica spiegazione era che non ero riuscito a volare sulle ali dell’amore, non mi ero unito agli altri, non avevo concesso nulla, non avevo festeggiato l’amore con gli altri, non avevo condiviso, compreso, non ero stato partecipe della vita attiva. Non avevo seminato al momento giusto e il mio orto non dava frutti succosi, solo piante desolate. La gente mi sopportava, ma si zittiva al mio arrivo, nel silenzio fastidioso sibilava di rabbia per la mia boria. Io addobbato nei miei abiti firmati li guardavo dall’alto in basso con commiserazione. In disparte in un angolo assistevano al mio pavoneggiarsi, alla mia esibizione. Mi ero accorto troppo tardi di aver fatto la fine di Rusputin,dagli oneri alla misera fine. Mi ero prefisso una scadenza precisa: mi sarei tolto la vita con il gas dopo una settimana. Sulle modalità del suicidio ero ancora incerto. In quell’arco di tempo preciso, prima di passare a miglior vita, avrei effettuato un cambiamento drastico delle mie abitudini. Avrei sistemato molte cose durante quel periodo, molte cose sarebbero accadute. dovevo solo trovare la spinta necessaria per agire. Avevo un compito da svolgere. Mi sarei svegliato senza più rabbia e scontento, con il cuore in tumulto per la gioia. Con gli occhi chiusi, in estasi, avrei canticchiato mentre mi facevo la barba. Mentre in passato mi svegliavo già annoiato, con il mal di testa per i bagordi. Con un sorriso contagioso avrei invitato la servitù alla mia mensa. Avrei ballato in salone con le ginocchia piegate davanti alle occhiate confuse delle serve di casa, divertendomi come un matto e ridendo fino alle lacrime, fino a scoppiare. Avrei coinvolti tutti nel mio ballo continuo. Avrei smorzato le discussioni a voce alta e le conversazioni pettegole fra i domestici, avrei tagliato corto su certi argomenti. Avrei parlato loro in modo educato senza spazientirmi, senza dare indicazioni e ordini precisi. Avrei parlato liberamente anche di me, mentre di solito ero sempre molto abbottonato e non davo mai informazioni su di me, sul mio privato. Non sarei rimasto insensibile, di ghiaccio davanti alle loro richieste di soldi e sarei stato generoso, pronto a pagare anche con gli ultimi spiccioli rimasti, sentendomi orgoglioso. Avrei creato intorno a me, nella stessa casa di mio padre, dove sarei tornato, una atmosfera festosa fatta di conversazioni allegre, come ai vecchi tempi con mia madre. Mi sarei goduto serate spensierate piene di successo con la partecipazione anche della servitù. Sarei stato l’incarnazione del bene. Nella mia mente si faceva largo l’ipotesi che tutto poteva avverarsi bastava volerlo. Con umiltà e semplicità potevo far avverare ogni mio desiderio e fare quello che non avevo mai pensato di fare, ma che mi piaceva. Sarei andato anche contro i miei principi ma non sarei più sfiorito, non sarei stato più nascosto. Insensatamente mi sarei sentito leggero anche nella mia inutilità, travolto dalla gioia. Sarei arrivato tardi agli appuntamenti con i compagni di bagordi senza malumore e avrei rinunciato alla loro compagnia con un brivido di eccitazione. Per la strada avrei abbandonato il modo strano di camminare, quasi sospettoso, e avrei scambiato sorrisi con i passanti. Il paese aveva bisogno di essere ravvivato. In fondo era bello camminare fra la folla del corso cercando lo sguardo degli altri, senza squadrare tutti con aria triste, senza mai spostare lo sguardo altrove cercando anzi di dare confidenza, di dire ad alta voce sciocchi pensieri. Sarei stato invaso da pensieri positivi pieni di fiducia, di voglia di vivere Sarei andato in posti nuovi, verso mete sconosciute piene di vento tiepido dove era mia intenzione andare, posti che mi attiravano come calamita, anche da solo e avrei goduto del panorama mozzafiato.Sarei arrivato a destinazione riempiendomi la testa di buoni propositi e avrei imparato dalle fortunate esperienze fatte. Avrei fatto nuove esperienze con il cuore come se tutto fosse un gioco, una favola per adulti. Avrei preso a calci la monotonia, non avrei avuto paura del nuovo. A cena ogni sera avrei accolto a braccia aperte le persone bisognose del luogo, per convincerli che la vita non era solo delusione e frustrazione. Soprattutto per convincerli che il loro sogno si sarebbe avverato anche senza troppi sacrifici. Bastava non perdere la fede. Avrei seguito lentamente il loro avvicinarsi alla tavola imbandita e da lontano avrei osservato la scena con una fitta al torace. Una tenerezza avrebbe riempito il mio essere davanti al desiderio e alla limpida speranza dei lori occhi. La cena avrebbe destato in loro piacevoli sensazioni. Gli indigenti si sarebbero avvicinati come un gatto innocente, come un bambino normale si avvicina cauto e spaurito a un focolare acceso nella speranza di essere riscaldato da una fiamma illimitata. Il fuoco della mia mensa li avrebbe confortati. Spaventati dalle emozioni i poveri avrebbero voluto prolungare quei momenti, rallentare lo scorrere del tempo per assaporare la pura felicità. Momenti che avrebbero rivissuto dopo nella mente La felicità non è una strada tortuosa difficile da raggiungere, piena solo di aspettative. La felicità può anche essere un pasto caldo che si è tanto desiderato, ottenuto con entusiasmo. Si può essere storditi di felicità quando ci si accontenta, quando si ottiene il minimo indispensabile per vivere o si ottiene quello che ci attira di più, anche se non vale niente. La felicità può essere anche un’idea confortevole che ci ravviva l’anima, che la stupisce. L’idea del potere può uccidere come ha ucciso Rusputin e tanti assetati di potere, che si sono lasciati trascinare dall’euforia della conquista del mondo e si sono arrampicati sugli specchi. Il loro declino, pieno di disappunto, spesso è stato rapido. I loro errori madornali sono stati puniti dalla forza impressionante del naturale destino che non regala diamanti alla gente priva di cuore. L’importante è non pensare agli altri, non pensare a quello che fanno, a quello che pensano di noi, a quello che posseggono. L’importante è non fare paragoni, non mettersi in competizione, in antagonismo con gli altri. Bisogna non pensare alla ricchezza degli altri, se no ci viene voglia di imitarli. Tanto ci sarà sempre qualcuno più ricco e qualcuno più povero di noi, questo insegna il buon senso. L’importante è stare nel mezzo, cavarsela, concentrarsi solo sul nostro piccolo orticello. Ai poveri solitari, onesti, chiusi nel loro mondo diverso, ossessionati, intontiti dalla mancanza di cibo, affannati sarebbe bastato un pasto semplice che avrebbe riportato a galla piacevoli sensazioni. Con occhio vigile avrei catturato il desiderio del sguardo eccitato, speranzoso, curioso dei poveri affamati. Avrei dissolto, disperso dolcemente la loro apprensione, il loro disagio, la loro agitazione e alla fine la loro gioia sarebbe esplosa. La notte non avrebbero più avuto sonni agitati, io ero al loro fianco per combattere l’imprevedibilità della vita. L’importante era non sentirsi soli, restare uniti davanti al fluttuare delle onde gigantesche del male del vivere. A nessuno piace stare solo, specie di fronte alle disgrazie della vita. Con sguardo fisso, privo di cattiveria, avrei dimostrato a loro di fare fermamente sul serio, di volerli aiutare, di considerarli ospiti di riguardo, non indesiderati. Con sollievo, non più abbacchiati, non si sarebbero più sentiti invisibili. Li avrei ricevuto senza orpelli, indossando una semplice tuta, con i capelli scomposti dal vento in un atteggiamento rispettoso, tanto nessuno delle persone che contano mi avrebbe visto. Avrei ignorato le leggi della buona società, non avrei tenuto conto dei loro giudizi. Nessuno mi avrebbe frainteso. La mia casa si sarebbe trasformata in un posto divertente, nuovo, senza solitudini, ombre sinistre. Le persone povere sarebbero venute con regolarità per i pasti anche senza preavviso, a sorpresa, considerandosi molto fortunate. Per risparmiare tempo non avrei dovuto inviare biglietti da visita in grande stile. La mia vecchia rete di amicizie sarebbe andata in frantumi, per lasciare spazio a nuovi rapporti di amicizia, a nuovi incontri. Avrei raccontato a loro i segreti preziosi del mio cuore imparando a conoscere come sono fatti gli uomini comuni, quelli della strada, che vivono con i piedi per terra, che non hanno molte risorse e potenzialità, ma che sono comprensivi. Con gli indigenti avrei condiviso anche l’ultimo centesimo. Le mie vecchie fortificazioni sarebbero crollate nell’immediato e non si sarebbero più ricomposte. Avrei affrontato i cambiamenti in modo diverso, non come li affrontavo sempre. Avrei sistemato la faccenda riducendo al minimo il mio budget, senza brontolare, senza essere contrariato, senza tradire i miei principi, senza sguardi esasperati e atteggiamenti rudi e preoccupati. Non avrei avuto un atteggiamento compiaciuto, in cerca di conferme. Non avrei avuto il cattivo gusto di ostentare la mia benevolenza verso i poveri come fanno molti, che sembrano galvanizzati quando fanno l’elemosina sorridendo a denti stretti con il volto duro, inespressivo che talvolta esprime solitudine. Molti si compiacciono di fare l’elemosina. La mia vittoria sarebbe stata totale, sarei stato ricordato per il mio stato d’animo amoroso, puro per il mio atteggiamento sincero, attendibile. Avrei fatto parlare di me, mi avrebbero giudicato un uomo buono. Qualcuno avrebbe provato ammirazione. Si sarebbe morso la lingua prima di dire male di me. In fondo potevo andare fiero in quella sola settimana avevo costruito con intuito, in modo inatteso, più che in tutta la mia vita. Avrei potuto sostenere lo sguardo di chiunque. Il mio occhio sarebbe stato lo specchio dell’anima. Sarei andato a cercare, con animo pensieroso, le donne che mi avevano in qualche modo coinvolto con la loro perfezione fisica, avrei incrociato il loro sguardo pieno di brividi e avrei chiesto loro perdono per il mio silenzio, per la mia vita selvaggia e spensierata, per i miei falsi sospiri, per i miei discorsi infantili senza senso, per il tono forzato delle mie parole, per la mia aggressività piena di rabbia e povera di sogni. Alcune corrucciate per la storia finita male, che si erano chiuse per proteggersi, per non innamorarsi di me, le avrei risollevate e costrette ad accordarmi fiducia sia pure per poche ore. Le avrei rassicurate come si fa con bambino prima di una visita medica. Avrei detto loro che la bellezza non conta, che si può essere attraenti anche con i capelli spettinati senza un filo di trucco. Con la faccia arrossata, senza guardarle negli occhi, le avrei riempite di vivaci complimenti. La cosa più importante è infatti avere fiducia. Io non mi ero fidato dell’amore, gli interessi avevano soffocato questo sentimento. Se si ha fiducia tutto può accadere, anche le cose più impensate. Io mi ero fidato del destino, ma avevo sbagliato, avevo riposto male la mia fiducia. Il destino ci può schiaffeggiare, offendere, deturpare specie se siamo stati maligni. Tuttavia i nostri piani possono benissimo venire scombussolati dal destino, che ci fa sobbalzare per la paura. E’ impossibile progettare a lungo termine. Solo i bambini piccoli, che hanno assaggiato i raggi del sole e assaporato pienamente le stelle cadenti, sono più acuti, forse capiscono prima degli uomini quando il gioco è finito e bisogna fare retromarcia, tornare indietro frettolosamente. Gli adulti rendono tutto molto più complicato. Avevo scacciato i pensieri negativi, non ero più tremante e disorientato, cupo, pieno di rabbia, preoccupato, con il cuore dolorante, ma allegro e affascinante e pensavo così di cavarmela a buon mercato, pensavo di rimediare mentre le lacrime mi sgorgavano dagli occhi copiose. L’atmosfera si era alleggerita grazie ai miei propositi. Il cuore non era più stretto in un pugno, avevo trovato la soluzione. Con piglio determinato, come un artista creativo, avrei trattenuto il fiato per non spaventare il destino e avrei riparato al male fatto. Sarei stato in gamba, con passo veloce avrei recuperato. Senza bronci avrei ascoltato la voce misteriosa del cuore, senza commettere più stupidaggini. Il futuro era una visione indistinta, un mondo alla rinfusa che mi metteva un po’ paura, ma avrei superato il guado, con l’aiuto anche degli amici di sempre: la pazienza e la fiducia. Non sarei apparso più disgustato, irritato, accigliato, irrequieto, confuso e stanco della vita, frustrato, esausto. Nel riassetto della mia vita avrei tolto la polvere del male, sovrastato, anche se in ritardo, la paura del domani. Avrei creato intorno a me un clima cordiale, senza finzioni, in cui nessuno si sarebbe sentito a disagio. Sarei entrato nella vita degli altri senza invadenza, educatamente, ma mi sarei fatto sentire, mi sarei imposto seriamente, avrei dato una mano a risolvere i loro problemi, senza sbuffare. Nel risolvere con loro gli enigmi della vita sarei stato stravagante e geniale, come un eccentrico professionista. Sarei stato un amico sincero, divertente e con molte persone avrei cercato di stemperare il clima di imbarazzo. Avrei accolto gli altri con occhi danzanti e voce limpida. Frastornato avrei accolto fra le braccia anche i nemici, quelli con il volto contratto per l’invidia e la voce piatta. Avrei ripudiato bruscamente la gelosia in tutte le sue forme. Avrei seguito solo i principi del cuore, senza mostrarmi presuntuoso e saccente. Avrei pensato solo a due cose fondamentali e di prim’ordine: la salute e il lavoro, anche umile, senza pensare al profitto. Avrei lavorato senza perdere tempo, in modo brillante, e avrei messo da parte i soldi guadagnati per i periodi bui, per i giorni successivi e avrei compreso il senso del risparmio. Con voce gentile e amichevole e sguardo ipnotico, con carattere giocoso mi sarei rivolto ai parenti e a tutte le persone che non si possono eliminare dalla vita, perché davvero importanti. Avrei ricercato i miei parenti. Con amore avvolgente li avrei soffocati in una stretta, in un abbraccio, senza ferire più con parole volgari e mancanze di rispetto, facendoli sentire a pelle a proprio agio. Non avrei più macinato pensieri negativi nei loro confronti. Avrei preso sulle mie spalle i loro crucci, mi sarei preoccupato per loro. Sarei stato persino indiscreto andando a trovare tutti gli zii che si erano trasferiti, anche nei villaggi più tetri e sperduti, nelle città fantasma di periferia. Avrei stanato anche quelli che si erano allontanati per nascondersi alla vita, ormai divenuta un peso disgustoso a causa della vecchiezza. Come un allucinato avrei bussato alla loro porta, li avrei affrontati. Li avrei confortati, specie quelli che non avevano nessuno cui appoggiarsi, sarei stato come il tepore di una coperta, li avrei spinti a piangere di gioia, li avrei fatti uscire dal tunnel della tristezza, o per lo meno, ci avrei provato con tono garbato. Mi avrebbero guardato con espressioni attonite e sorprese. Mi sarei preso il merito, orgoglioso, della loro rinascita. La loro vita sarebbe stata di nuovo una tela vuota da riscrivere daccapo dove non c’era ancora posto per la parola fine, per le memorie del passato, dove era ancora possibile desiderare, avere fiducia in sé. La vita è un dono fatto anche di emozioni fuori dal comune. Con giusti atteggiamenti, senza sconvolgere nulla, avrei stretto nuove amicizie, senza più ombra di sospetto e di cinismo. Con il cinismo non si progredisce, non si conquista nessuno, si intimidisce, si creano solo sottomissioni, false amicizie. Certo so, a memoria, lo tengo a mente, perché è già accaduto nella mia vita, che i cinici, gli impertinenti, gli impegnati che non distolgono mai lo sguardo borioso, altero, arrogante sono quelli che riscuotono maggiormente il successo personale. Gli altri amano identificarsi in loro, vorrebbero essere come loro. Vorrebbero affrontare le perenni battaglie della vita senza particolari emozioni. Infatti si arriccia il naso solo davanti a una persona umile, che viene giudicata come una perfetta idiota. Gli arroganti non danno spiegazioni del loro comportamento, invitano gli altri a tacere, entrano a forza nella vita degli altri, fanno considerare gli altri degli ospiti in casa propria, non cedono mai il passo. Gli altri devono solo sopportarli e sorbirsi le loro chiacchiere insulse. Di solito se ne vanno fieri nelle tenebre come gatti nella brezza leggera della notte. Per loro la felicità è un piacere che dura quanto la consumazione di un gelato e per questo vanno alla ricerca di nuove sensazioni che li facciano uscire da se stessi. Le loro idee sono solo pensieri mondani che volano da una parta all’altra nella luce ambrata del giorno. Le loro posizioni oscillano come dondoli, non dicono mai quello che pensano in modo leale. Non amano le mezze misure, i compromessi. Sono austeri come il ritratto dei papi delle pitture a olio del seicento. Per loro la vita non è come un dipinto che poi piano piano prende forma, grazie anche ai suggerimenti degli altri. Sono amici solo in certi momenti specifici, di emergenza, ma non sono gli amici del cuore quelli che ti accolgono, pazienti e premurosi a braccia aperte con un nodo alla gola e ti parlano con voce delicata. Sono adulti che hanno dimenticato di essere stati bambini innocenti, che non arrossiscono mai, che hanno usato il cervello solo per seguire le loro regole di vita, non scritte da nessun parte se non nel loro raziocinio. Con le loro false regole e etichette hanno solo creato sconcerto negli altri. In modo scoraggiante spesso si limitano a imitare i genitori senza capire da soli il senso della vita. Avrei cominciato con calma a sistemare tutto nell’arco di poco tempo. In fondo c’è un tempo per ogni cosa: un tempo per amare, per sognare, per lavorare, per morire. Era la mia unica opportunità e non potevo più mettermi nei guai, dovevo lasciare un segno, anche labile, del mio passaggio. Avrei fornito contributi, appoggi, non sono materiali, a enti assistenziali, ospizi e servizi sociali per bambini. I bambini comprendono più dei grandi, hanno la mente aperta, apprendono subito e non serbano rancore. I bimbi, specie vivaci, di buon umore, vispi aiutano a mantenersi giovani. I bambini, con le loro risate infantili, eccitate hanno sempre gli occhi aperti, sfruttano i momenti migliori, gli attimi non si fanno prendere dal panico, si librano fiduciosi nell’aria della vita, non si perdono nel mare doloroso dei ricordi, nella stupida farsa della memoria, non hanno mai una sensazione di caduta. I bambini anche se chiedono soldi, se vogliono convincere lo fanno in tono gentile, mai scortese, con la voce sommessa, solo ogni tanto si lasciano andare a singhiozzi silenziosi o a lacrime di rabbia. Davanti alla bellezza dell’universo i bambini restano senza fiato, hanno un tuffo al cuore. Si rendono conto di aver sbagliato solo quando vengono puniti. Ma un attimo dopo si ricompongono pronti per nuove avventure. Nervosi e eccitati ballano di piacere nella gioiosa aspettativa del domani, nell’attesa infinita di qualcosa di grandioso, anche se hanno poche certezze, poche parole preziose da dire. La loro mente divaga senza fermarsi mai, immutabile. Assaporano tutti gli istanti con buon umore e pensieri equilibrati. Con le persone hanno un rapporto costante, non tormentano gli altri all’infinito, anche se questi sono diversi da loro. Non danno giudizi sugli altri. Certo vogliono avere per proprio conto un ruolo preciso nella vita degli amici del cuore. Solo in particolari circostanze sono pronti a protestare. I bambini sono di parola più degli uomini adulti. Mentre salivo sulla moto ero perso nei miei pensieri, sapevo di aver fatto nella mia vita un pessimo lavoro, di aver toccato il fondo. Avrei dovuto stare per conto mio e rimettere ordine senza nessuno intorno. Dovevo tentare un nuovo inizio. Nella pace e nella chiarezza del silenzio della notte i pensieri alla rinfusa tornavano equilibrati. Per istinto avevo imparato cosa non dovevo fare. Riflettendo sapevo anche ciò che dovevo fare senza chiedere consiglio a nessuno, senza seguire l’esempio di nessuno, senza pormi domande, senza recitare, senza ricadere nelle stesse solitudini. Dovevo chiedere scusa alle persone che avevo offeso e maltrattato. Questo sarebbe stato un segno di coraggio, di maturità. Incoraggiato da tali propositi misi in moto e partii, benchè brillo. La moto sull’asfalto strideva, sospirava come un essere umano con la sua voce noiosa nell’aria fresca. Conoscevo alla perfezione il suo rombo. Mentre canticchiavo un motivetto in voga sentii come un’incursione, una strattonata, uno strappo lacerante dietro. Su di me era piombata, quasi senza accorgermene, un’auto di grossa cilindrata. In un sol colpo cadevano in terra tutti i buoni propositi. Eppure mi sembrava di non aver infranto le regole della strada, ero solo un po’ stordito e ubriaco, con gli occhi lucidi. Il mio corpo pulito ora era caduto a terra, si era sporcato di polvere e forse di sangue rosso. La forza di attrazione mi spingeva a terra, era una forza magnetica. Ero pieno di stupore, mentre mia baldanza cedeva davanti all’imprevedibile. I colori mi apparivano sbiaditi, facevo gesti incoerenti. Eppure con la moto avevo anni di esperienza, di addestramenti, di corse alle spalle. Avevo guidato sempre in modo piacevole, alcune volte audace e selvaggio come il dio del vino. Il mio diario era pieno di mappe e cartine di luoghi dove avevo fatto le corse con la moto. Mappe che avevo studiato personalmente, a fondo, in modo pignolo, mappe fatte di strade che avevo percorso con sicurezza. Strade che conoscevo a memoria, che la mia mente distingueva subito. Mi ero sempre divertito con malizia e creatività, avevo sempre ripreso impassibile, con fare disinvolto il controllo del mezzo dopo le impennate. Avevo riso di gusto e fatto commenti con voce squillante quando qualcuno nei raduni sbagliava e carambolava. Guidare una moto per me era sempre stato confortevole e rilassante, una cosa facile. Per rilassarmi, dopo uno stress, andavo a fare delle corse in moto. Nel campo delle corse ero conosciuto per le mie capacità, per la mia personalità. Avevo un mio stile personale di guida. Mi sembrava impossibile che avessi sbagliato, probabilmente la colpa era dell’auto che mi era caduta addosso. Con disappunto, turbato precipitavo e vedevo i pantaloni arrossarsi sempre di più. In uno stato di trance ricadevo nel grembo vellutato della terra. I jeans si laceravano al contatto con il suolo duro. Una folla di ricordi mi scorreva davanti. Frammenti del film della mia vita mi scorrevano davanti agli occhi ma io non riuscivo a capire il senso. La vita fino a un certo punto era stata indulgente, magica ma ora prendeva una strana piega. Non capivo dove voleva arrivare il destino con i suoi giochi. Sentivo intorno a me delle voci, delle conversazioni, del chiasso vedevo una donna con aria assente vestita con un severo tailleur, correre all’impazzata e gridare con voce rotta, con il tono basso per lo spavento, mentre lanciava intorno occhiate strane. Fino allora avevo condotto una esistenza libera, brillante sempre in giro con gli amici, sempre estraneo ai problemi della vita, in cui avevo avuto più del necessario. Non avevo badato a spese, in fondo ero ricco e dovevo dimostrare il buon nome della famiglia da cui provenivo. Ora la mente amareggiata mi suggeriva strani pensieri: ero stato punito per la mia vita dissipata, condotta senza controllo. Il destino mi maltrattava, mi toglieva il denaro, che avevo avuto sempre paura di perdere, e mi dava una scossa facendomi precipitare in fretta nel baratro. L’idillio era finito e il cuore mi si spezzava in modo definitivo. La madre natura mi aveva stritolato nel suo abbraccio morboso e mi guardava con aria compassionevole mentre proseguivo a stento l’avventuroso viaggio. Avevo tradito ripetutamente la buona sorte, mi ero comportato da sciocco, avevo vissuto indisturbato senza emozioni, con il cuore addormentato, e ora tutto precipitava in un tonfo sonoro. Ora era tempo di svegliarsi, di smettere di vagare, di abbandonare le vecchie abitudini, di uscire allo scoperto senza nascondermi. Dovevo lottare per proseguire la marcia, accettare a muso duro, a occhi chiusi, il rifiuto del destino. Era difficile liberarmi da quella situazione tragica. Ormai avevo poco da offrire agli altri e a me stesso. Potevo continuare a vivere solo in un mondo illusorio fatto solo di storie inventate Non potevo più salire in cattedra, ridere degli altri, giudicarli in modo frettoloso, invadere il loro territorio. Dovevo avere la volontà di cambiare, dovevo ragionare in modo lucido. Era assurdo quanto mi era accaduto. Forse la natura si era scocciata della mia vita meschina, simile a una farsa teatrale. Ora parlavo a malapena riverso in terra, sembravo un sonnambulo. Nella mia testa pesante riecheggiavano solo le voci acute degli uomini del soccorso stradale. Luci accecanti mi ferivano gli occhi nell’oscurità della mia anima. A un certo punto non so come venni collocato su una barella traballante e messo su una ambulanza che partì a sirene spiegate. Con orrore capivo che non potevo condividere con nessuno quell’esperienza. Non avevo una fidanzata da avvertire, amici, gli amici ormai erano lontani come invisibili, non mi davano sicurezze né abbracci. La mia bocca non aveva emesso un suono, non urlavo, ero cosciente, cercavo di mantenere la calma. In realtà ero sul punto di piangere e cominciavo a farlo piano. Il mio volto pallido e perplesso sapeva di essere nei guai. Non sapevo, non prevedevo come sarebbe andata a finire. Con occhi sgranati come un bambino guardavo intorno smarrito. Il mio unico desiderio era quello di arginare il battito interiore del cuore. Nonostante la paura e la preoccupazione dovevo tenere duro, stare il più possibile calmo. Ero giovane e credevo ancora che per me ci fosse un posto nel mondo. Avrei atteso la resurrezione, il momento del riscatto senza prendermela con il destino. Forse il tempo dell’attesa sarebbe stato lungo e faticoso. Nell’attesa avrei curato di più i sentimenti, avrei seguito di più il cuore tremante, avrei sognato. Fino allora avevo solo riposato senza mai abbandonarmi al sogno di un mondo migliore. Ora dovevo contribuire a rendere tutto migliore. La spinta sarebbe partita da dentro me stesso, senza farmi prendere la mano dalla ridicola, aggressiva, scontrosa paura dei cambiamenti. Non potevo andare in rovina. Nella storia del mondo potevo ancora avere voci in capitolo. Il destino mi aveva inviato con intenzione un messaggio preciso: non dovevo morire. Il mio compito sarebbe stato quello di aiutare gli altri e di accettare l’aiuto altrui, senza orgoglio interessato. Avrei fatto personalmente del bene. Nella mia nuova vita solitaria avrei lavorato per gli altri, sentendomi utile. Gli altri mi avrebbero ricordato, menzionato come un uomo dabbene. Avrei potuto aiutare gli sbandati, gli emarginati, quelli da cui in passato avevo preso le distanze sentendomi superiore. Mi sarei sporcato le mani nella vita vera e avrei cercato di essere amico degli umili. Il mio tenore di vita sarebbe cambiato. Potevo cambiare, voltare le spalle al passato che mi aveva dato solo l’illusione della libertà. Mi sarei concentrato su ciò che avevo e non su quello che non possedevo. Mi sarei accontentato, senza pretendere di raggiungere la perfezione. Il mondo era pieno di possibilità. Il mio spirito libero sarebbe stato attratto dal bene in modo irremovibile. Non avrei più avuto appetiti, alzato la voce contro gli altri, considerati nel mio intimo dei nemici. La notte scorreva leggera mentre fissavo il vuoto deluso. Le mie idee bastavano a riempire il silenzio. Nella semioscurità dell’ambulanza ero circondato dal silenzio. La gente intorno a me si affaccendava, si dava da fare, riordinava con maniaca precisione, alcune infermiere giovani davano ordini con fare impacciato. Intorno a me si parlava poco, nell’immenso silenzio, nei minuti che scorrevano come fosse una eternità si lavorava con una lena senza precedenti. Dal mio angolo sentivo solo parole di tipo professionale, informative. Tutti tenevano d’occhio i monitor. Senza rendermene conto venni risucchiato, avvolto dal mondo dei sogni. Mi avevano iniettato un potente anestetico che forse sapeva d’amaro. Mi svegliai bendato in una camera di ospedale, non ricordavo bene gli avvenimenti precedenti. Intorno non vi erano membri della mia famiglia pronti a consolarmi. Scioccamente non mi ero costruito una famiglia, come invece era normale fare. Per orgoglio e amore solo di me stesso non avevo voluto figli. Non c’erano persone che mi parlavano, che passeggiavano su è giù per il corridoio dell’ospedale con uno sguardo sconsolato e stanco. Gli amici si erano dileguati, erano scomparsi in fretta dal mio firmamento. Con un occhio spento avevo paura di guardarmi intorno, di non ricevere cure amorevoli. Le mie aspettative erano deluse: non c’erano amici del cuore con gli occhi scintillanti di lacrime a causa del mio incidente. Non sentivo voci amiche e tristi per l’accaduto. Avevo dimenticato la sensazione piacevole del focolare domestico, delle voci melodiose dei bambini che fanno splendere la casa. Dovevo confidare solo nel potere della fantasia che mi avrebbe creato un amico immaginario. Troppi avvenimenti mi avevano sconvolto e in quello stato avevo come delle allucinazioni. La mia mente vacillava e il sonno era agitato, tormentato. La mia memoria quasi inesistente, avevo perduto, forse in via definitiva, la concentrazione. La situazione non era incoraggiante. Ero entrato in un processo in cui nessuno poteva veramente proteggermi, in cui non potevo tornare indietro. Il mio orgoglio fazioso si era disintegrato. Ora avevo una sola e ultima possibilità: implorare, supplicare la clemenza di qualche divinità. Non ero mai stato fermamente cattolico. La mia vita laica, all’apparenza perfetta, però mi aveva dato una quantità generosa di mali. Avevo percorso la strada del male e si era rivelata imprevedibile, piena di buche e ostacoli che in breve avevano rovinato tutto, mi avevano lasciato senza parole, senza fiato. Il male pesava sulle mie spalle. Facendo un respiro profondo spalcavo definitivamente gli occhi su una stanza imbiancata con colori tenui, morbidi che liberavano la mia mente stanca. Con un tuffo al cuore mi resi conto di essere bendato dalla testa ai piedi. Gli infermieri si erano per un attimo allontanati. Con un filo debole di voce cercavo di attirare la loro attenzione. Esauriti tutti gli stratagemmi senza ottenere risposta mi sentii abbandonato. Dopo accorse una infermiera. A bocca aperta ascoltavo nervoso la sua voce formale, quasi severa. Vedevo la freddezza del suo comportamento, in fondo ero solo un paziente come tanti. Non ero nessuno, non avevo amici. Per il mio equilibrio mentale avrei dovuto tenere sotto controllo la mia interiorità. Il disordine del mondo, la sua accidia, la sua indifferenza non dovevano permanere nel mio ricordo. Nella mente dovevano avere accesso solo pensieri quieti. Come una persona che si rintana nella sua casa per sfuggire al caos del mondo, io dovevo ripiegarmi in me stesso dimenticando il male. Tutto ormai mi era venuto a noia, non avevo più interessi, non mi attirava più nemmeno il cibo. Desideravo ovviamente maggiore attenzione ma ero stanco di aspettare, di essere escluso. Ero costretto ad allontanarmi dalla vita gaudente e prendere una oscura strada senza tempo, priva di attrattive. Ero stizzito perché sapevo che la mia vita non sarebbe stata più indipendente e libera, selvaggia come un tempo. Avevo pagato caro l’assenza di regole nella mia vita. Fedele alla mia stirpe, con il carattere simile a mio padre, mi ero abbandonato tra le braccia di una vita sociale inutile. Mio padre probabilmente aveva rivisto se stesso in me. Certe predisposizioni si ereditano. Avevo perso il controllo di me stesso e non avevo nemmeno proseguito gli studi, non avevo sgobbato sui libri, non mi ero applicato. Ero vissuto sulle nuvole e ora ero caduto con un tonfo sordo e crudele. Ora facevo sogni nostalgici pieni di speranze illusorie, desideravo la laurea, l’amore straordinario per una fanciulla, quello che stordisce per la gioia, esplorare posti nuovi respirando l’aria fresca dello spettacolo della natura, un lavoro carico di stimoli, ore spensierate in compagnia di amici artisti, notti serene piene di eccitazione e speranza e di stelle luminose. Volevo essere libero ma con ogni cosa al suo posto, come avviene probabilmente nel paradiso. Invece avevo fatto finta che tutto fosse a posto e come un piccolo demonio mi ero perso, confuso nel mondo. Mio padre era stato un padre silenzioso negli ultimi tempi, non mi aveva mai parlato con voce troppo autoritaria, forse l’educazione ricevuta era sbagliata. Certi miei vizi li aveva tollerati in quanto simili ai suoi. Ero insolente, codardo e nei pub, pieni di allegri schiamazzi e di musica, trascorrevo notti insonni. Ero lusingato solo quando rincasavo sonnolento, con il corpo esausto. Mi attendevano anni tragici in cui avrei dovuto addomesticarmi, ammansirmi. L’umiltà e la tenacia mi avrebbero aperto le porte della speranza, della stima degli altri, stima autentica non calcolata. Per mettermi sulla buona strada avevo bisogno di incoraggiamento, di uno stimolo affettuoso, di una iniezione di fiducia, di un entusiasmo contagioso, di un segnale cauto ma positivo, senza tanti preamboli dovevo tentare di calmarmi e provare ad attuare, senza menare il can per l’aia, i miei sogni favolosi dell’infanzia come quello di laurearmi. Come una statua di legno avevo ignorato il trascorrere del tempo, senza nessuna giustificazione non avevo finito gli studi. Crescendo mi ero sempre più guastato seguendo cattivi esempi. Una voce misteriosa, disperata dentro di me mi diceva di pensare anche a trovare un lavoro reale. Lavorando avrei avuto interessi nuovi, la mia vita sarebbe stata meno leggera ma più ricca di risorse, quasi perfetta. Avrei forse scoperto l’amore vero, segreto assoluto della felicità. Nel tumulto dei pensieri ero esasperato. Stranito, con aria strana mi guardavo intorno innervosito, con sguardo sconvolto. Anche il mio volto era avvolto da bende, forse non avevo neppure più i capelli. Studiavo gli infermieri che mi passavano vicino, li guardavo sospettoso, con aria interrogativa, ma nessuno faceva caso a me, parlavo una lingua diversa. Come una furia, come un serpente impazzito mordevo le lenzuola. Detestavo quella malcelata indifferenza degli infermieri, i loro gesti. Avevo problemi a comunicare con loro. Mi spaventava il vuoto dentro e fuori di me e per questo spesso piagnucolavo. Incredibilmente avrei dovuto preparami al peggio. Cambiavo posizione nel letto ma sentivo lo stesso dolore ovunque, un po’ come quelle persone che viaggiano per sfuggire alla proprie radici, alle proprie misteriose angosce. In ogni luogo ci portiamo dietro la stessa tristezza, lo stesso malcontento. Quando si è tristi non si ha la forza di affrontare le difficoltà, che ci sembrano montagne insormontabili. Le delusioni accumulate con gli anni non si sopportano più e per salvarci l’unica risorsa è affidarsi alla natura, all’arte, le uniche che ci comprendono, che ci ascoltano. Mio padre era stato avvisato in casa propria dell’accaduto, ma lui era quasi sempre ubriaco o a giocare in bische clandestine dove avvenivano spesso risse. Affogava le angosce affidandosi al vino dolce e benevolo che,già con il suo profumo intenso, faceva girare la testa e lo induceva in tentazione. Non era vero quindi che gli anziani sono più saggi. Mio padre era un gaudente e lo sarebbe stato fino alla fine dei suoi giorni. Mi venne a trovare con una faccia stanca e spaventata. Non era lucido, con ogni probabilità, quindi proferiva poche parole piene di stupore. Parlava a disagio, a testa bassa. Io non ero stato un figlio buono e capace, e tra noi c’erano ancora incomprensioni e attriti. Avrei pagato una cifra incredibile pur di avere con lui un rapporto fraterno. L’impatto con la sofferenza gli diede il colpo di grazia. Era finita la sua epoca, era giunto, malgrado tutto, al capolinea. L’incantesimo si era rotto e lui si avviava, con apatia, sulla strada del disincanto. Nel dettaglio la sua intelligenza purtroppo era stata guidata solo dall’arroganza. Io ero giù di morale e buttavo l’occhio spesso sulla mia cartella clinica che teneva in mano il primario, un uomo preciso e metodico. Non trapelava l’origine del mio male oscuro. In quell’avventura non sapevo con esattezza cosa avessi. Il destino sapeva a cosa andavo incontro, solo io ero all’oscuro di tutto. Solo il destino sa che c’è una ragione per ogni cosa. La mia vita si consumava in un letto di ospedale senza più poter tornare indietro. Non sarei rinverdito come le piante, non sarei tornato indietro con l’età in modo naturale. Nella malinconia mi facevo prendere la mano dalla nostalgia anche se sapevo che una persona saggia non deve mai cadere in depressione. Piangevo e a tratti singhiozzavo. Ormai non piangevo solo per me stesso. Ci sono certi uomini che non piangono mai tanto il loro cuore è duro. Nell’aria c’era per me un’altra musica, era cambiato il vento. Piangevo per tutta l’umanità sofferente, che con il suo carico di pura cattiveria, andava incontro alla morte senza mai provare pietà per nessuno. Io invece provavo pietà per quegli esseri ciechi, quegli umani, che poi tanto umani non erano, che si dannavano l’anima a lavorare ogni giorno come formiche impazzite per un tozzo di pane. Provavo pietà per quelli che rubavano, invidiavano, che accumulavano soldi, uccidevano, lottavano come bestie, sgomitavano pieni di ambizione, senza rimorso tradivano gli amici, invece l’amicizia è armonia, stima reciproca. Ci sono persone che per raggiungere traguardi ambiziosi perdono giorni in vagabondaggi meschini, scavalcano gli altri senza nessun sentimento, senza ascoltare i saggi consigli di gente esperta, perbene. Soprattutto provavo una infinita pietà per quelli che puntualmente venivano puniti dal destino, che non è amico delle persone malvagie. Infatti spesso la vita di giovani corrotti veniva spazzata via dalla falce della morte, senza lasciare traccia se non nel cuore straziato della madre del giovane di turno. Non potevo pensare alle tribolazioni delle anime dannate e alla fine che tocca a tutto il genere umano e in particolare ai disonesti. Dovevo essere medico di me stesso, guarirmi magari nella natura, che forse non mi avrebbe tradito come gli umani. Dovevo essere tenace, resistere come il volto di una donna tenta di resistere alle ingiurie del tempo. Dovevo avere la pazienza degli umili e la tenacia degli artisti. Il mio istinto naturale, ingenuo come una forza misteriosa, anche se frustrata, mi spingeva verso la vita. La mia routine aveva subito uno scossone che mi aveva svegliato. In certi momenti di disperazione avrei voluto scendere dal carrozzone della vita, che sentivo però preziosa, non si ottiene a buon mercato la vita, il respiro. La vita mi provocava apposta con la sua beffarda indifferenza. In un attimo mi era stata impartita una lezione interessante di vita: la vita non è un bene proprio, ci viene data in prestito per una ristretta cerchia di anni. Noi portiamo il peso immenso della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Davanti allo spettacolo del mondo non si può stare a guardare. Ogni persona può commettere errori, ma deve essere in grado di rimettersi in carreggiata rapidamente. Con delicatezza dobbiamo respirare la vita in piena libertà. Vincendo la timidezza dobbiamo lottare per noi stessi e per gli altri. Il nostro dovere è quello di salvare e di salvarci, resistendo ai colpi del destino. Dobbiamo diventare degli specialisti del vivere bene. Fare il bene può essere gratificante, entusiasmante, la notte ci addormentiamo sereni, e se non vi riusciamo per lo meno dobbiamo evitare di fare il male. Va bene anche un comportamento accidioso. Sicuramente l’anima nostra torna felice alla sua dimora di origine solo dopo aver conosciuto il bene, se non proprio l’amore. L’amore certo è linfa vitale, è essenziale anche per non cadere in continue crisi esistenziali. L’esperienza dell’amore ci sorprende ogni giorno, ci fa scoprire noi stessi, ci dà un senso di immortalità, ci culla con il suo stretto abbraccio. L’anima prigioniera del male può anche, a un certo punto, essere stanca di cercare il bene e l’amore e alla fine accontentarsi di surrogati. Molte donne fingono di amare, molti uomini comprano con il denaro donne procaci. La vita senza amore può anche essere pulita e onesta, se è frutto di una scelta personale. Il cuore tuttavia è sempre in lutto quando scompare, si perde l’amore nel proprio cielo. E’ una perdita dolorosa, specie se fatta con coscienza. Io invece in modo spigliato avevo spiccato il volo lontano dall’amore vero e mi ero lasciato sedurre dall’aspetto giovane e accattivante della passione carnale, mia sola, simpatica, languida compagna di viaggio. Ero stato iniziato solo ai piaceri della carne e i miei occhi apprezzavano solo donne belle fisicamente, non interiormente. I miei giorni passati, nella suggestione del ricordo, mi apparivano allietati solo da corpi caldi e sfiniti nell’amplesso amoroso. Avevo seguito solo l’istinto animalesco. Ero stato un giovane spavaldo che non voleva cadere nei faticosi lacci dell’amore. Non avevo pensato al matrimonio come fonte di pace e di speranza. Ora al mio fianco non c’era nessuna donna innamorata, nessun angelo custode in preghiera. In modo impulsivo avevo respinto l’amore per paura della sua potenza, delle sue vibrazioni vorticose, per paura di veder limitata la mia vita. Amareggiato, con la pelle d’oca, constatavo invece che in un momento di disattenzione la morte mi era passata accanto in modo abietto, scrollandomi di dosso ogni certezza. Dovevo ringraziare anche la mia presenza di spirito se mi ero salvato. Non ero in realtà completamente salvo, il destino agevolava la mia caduta. Per salvarmi ci voleva uno sforzo immane e un miracolo. La mia vita era pericolosamente tutta in salita, le conseguenze di alcuni comportamenti potevano essere ancora letali. La fortuna non era stata benevola. Il mio stato d’animo, via via che riprendevo conoscenza, oscillava tra la paura e la speranza. Speravo ardentemente di aver avuto pochi danni dall’incidente per poter continuare a godere della vita. Se in passato avevo pensato al suicidio, ora, che avevo toccato il fondo, sentivo crescere la forza della vita. I medici mi informarono pazientemente del mio stato di salute. La mia era una difesa tenace contro la morte, con rabbia avrei accettato anche una vita scialba, ridotta al lumicino. La realtà aveva troncato, divelto le mie speranze. Ero come un vecchietto rimasto solo, colpito ferocemente dalla perdita degli affetti, che tenta con impegno mentale di condurre una vita tranquilla anche se con l’animo indurito dalla fatica di vivere. Ero anche io sensibile, avevo reazioni di sconforto nel silenzio irreale della stanza. Con sgomento mi accorgevo di non avere sensibilità in un braccio. Durante le visite dei professori cercavo di capire il mio stato di salute fisica, sollecitavo una loro risposta. Ero ritroso, inesperto ma ai loro occhi volevo apparire come Ercole, senza paura. Ancora c’erano tracce dei vecchi atteggiamenti. Ero caduto in un girone infernale ma volevo riscattarmi, risalire. Il responso degli specialisti mi fece cadere le braccia: avevo perso l’uso totale di un braccio e forse anche la capacità di procreare. Vedevo i medici responsabili, professionali confabulare fra loro. Ogni giorno il primario veniva a sincerarsi personalmente del mio stato di salute. Per me sprecava solo tempo. Inutilmente resistevo e invocavo aiuto. Era pura follia tornare alla vita, che pure mi richiamava al rapporto come un insegnante zelante. Brividi veloci mi passavano per la schiena. Capivo a un certo punto che la sfortuna non andava combattuta ma assecondata con una buona dose di coraggio. Nello strappo dalla vita precedente il cuore si era fermato. Dovevo ripartire da zero e mettere in pratica i miei propositi. Lentamente dovevo disfarmi del vecchio involucro. Dovevo concentrarmi più sugli altri, essere più altruista. Se volevo essere aiutato, dovevo aiutare. Dovevo aiutare in punta di piedi, in modo invisibile, non sbandierando la mia opera benefica. Dovevo ricucire con delicatezza il rapporto con gli altri e perdonare l’affronto del destino, che aveva infierito e perdonare gli altri, perdonare me stesso. Un peso colossale si metteva sul mio cuore e la domanda era sempre la stessa: cosa avrei fatto, cosa ne sarebbe stato di me? Davo l’impressione di un impacciato agnellino portato al macello, che bela in continuazione senza sosta. Il mio unico pensiero era trovare una soluzione.

 

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