Capitolo quinto: La rinascita (Romanzo: La strada più breve – di Ester Eroli)

Capitolo quinto La rinascita (Romanzo La strada più breve  di Ester Eroli)Volevo vivere per avere la possibilità di cambiare vita, di dimostrare chi ero veramente, senza dovermi più nascondere dietro degli assurdi paraventi. Per anni ero stato un vagabondo ora volevo fare una buona impressione, essere semplicemente un uomo. Dietro la faccia di ogni uomo c’è sempre la pena del vivere, ma anche la gioia dei momenti felici. Per una questione di puntiglio la mia missione sarebbe stata quella di aiutare gli altri ad essere sereni, se non proprio felici, ad assaporare la vita come un liquore, senza disappunto. Sarei stato comprensivo, aperto alle esigenze altrui. La mia attenzione si sarebbe concentrata a far capire alla gente l’inutilità della ricchezza, l’inutilità della ricerca ossessiva del piacere e del denaro. La ricchezza, che solitamente non viene per un colpo di fortuna, può anche generare pensieri e ragionamenti tristi, può corrompere l’animo più puro. Si può dormire tranquilli anche se si passa il tempo della vita a risparmiare, ad accontentarsi, a gioire delle piccole cose. Si può vivere anche con poco. La povertà non intacca la reputazione. Bisogna accontentarsi e accomiatarsi dal mondo con l’animo sereno. La voglia di arricchirsi agita gli animi, spinge a fare del male. La vita dell’uomo ricco spesso si trasforma in una parabola discendete verso il basso. Ci sono è vero ricchi felici, sono quelli che aiutano gli altri e traggono vantaggio dalla loro posizione, che non considerano dominante, sono quelli che tentano ogni strada per salvare gli altri. Ero lontano anni luce dalla soluzione dei miei problemi. Uscito dall’ospedale mi chiedevo giustamente dove sarei andato, cosa avrei fatto di preciso? Con mio padre non andavo d’accordo, poi avevo saputo che aveva avuto un infarto, ed era assistito solo dal suo maggiordomo, con i parenti ormai era in rotta, come me del resto. Spesso però si risolve tutto senza che noi facciamo concretamente qualcosa. Il giorno che fui dimesso dalla casa di cura venne a prendermi una lontana zia. Non sapevo della sua esistenza, nessuno mi aveva parlato mai di lei. I miei beni erano pignorati, le terre messe sotto sequestro. Molti beni andavano nelle aste pubbliche. Seppi questo tempo dopo, ma non provavo rabbia verso mio padre, artefice della rovina. Durante il breve tragitto verso la casa della zia ero laconico, emozionato, avrei voluto ricambiare il suo affetto ma ero bloccato, stretto in una morsa. La sentivo parlare a getto continuo, mi parlava come se mi conoscesse da una vita. Invece noi tutti avevamo trascurato la sua generosa amicizia. Ora tutta elegante, tirata a lucido, come per una festa, mi rincuorava con parole fidate e accorte, sicure. Era una macchina umana, puntuale, comoda, benintenzionata. Lei non cercava tornaconti personali, faceva il suo dovere a testa bassa. In fondo era la festa della mia rinascita. Lentamente stavo tornando alla vita vera. L’apparizione improvvisa di mia zia mi aveva fatto capire che esisteva la provvidenza. Ero stato punito per il mio disordine giovanile ma potevo disseppellire il tesoro sepolto della vita nel mio cuore, che era lieto oltre misura. Avevo annaspato nell’inferno dannato della ricchezza e dell’ozio e ora potevo ritrovare, volendo, il gusto dei buoni sentimenti. Maledicevo come un forsennato lo sguardo indifferente della ricchezza. Volevo dignità e onore e non essere più un vile opportunista. Non ero sicuro della riuscita della mia vita. Ero taciturno e malfidato, avevo dubbi e sospetti. La debolezza del corpo, delle mani mi metteva in agitazione, mi trascinavo a forza ferito nello spirito come da un raggio laser. Non avrei potuto sopportare fatiche disumane, tristezze inquietanti. Non ero più esuberante come un tempo, pronto a sbraitare per un nonnulla. Avevo imparato la pazienza, la calma, il lato serio della vita. Avevo forse nel cuore l’illusione di cambiare vita e un giorno ci sarei riuscito. Avevo un filo di speranze, non ero solo. Mia zia fiduciosa, costante mi aveva soccorso e chiamandomi con lena, con affetto tesoro non mi faceva sprofondare nella desolazione. Lei, con i suoi occhi dai riflessi color ambra, mi apriva le porte della sua casa, dove pagava l’affitto, dove però aleggiava la pace, il silenzio carico di oblio e privo di tensione. Lei non era una donna facoltosa, si occupava di commercio e arrotondava lo stipendio facendo dei lavori di ricamo. Non era una dirigente, aveva semplicemente trasformato il suo passatempo, il suo hobby in una fonte di guadagno. Lavorava sodo e considerava il lavoro come importante e prezioso, una cosa seria. Il lavoro era il suo maggior impegno. Stupefatto, sbigottito mi rendevo conto che avere una persona al mio fianco nelle battaglie della vita, era confortante. Non mi sentivo solo. La cosa più importante della vita non erano i soldi ma darsi da fare con coraggio e frenesia accanto a persone amiche, in gamba, disposte, in caso di necessità, a dare persino la vita per noi, a difenderci anche in punto di morte. Mia zia mi insegnava la capacità di sacrificio, l’arte di arrangiarsi, tutti i sani principi del buon vivere. Mia zia agli occhi della mia famiglia era solo una scheggia impazzita che non meritava attenzione. Nei ricordi di famiglia lei appariva sfumata, quasi inesistente. Il fatto più sconcertante, più assurdo era che la mai famiglia non la considerava perché lei lavorava e non era ricca. Era altruista, generosa era come se avesse commesso un misfatto agli occhi dei miei. La mia famiglia era piena di pregiudizi nei suoi riguardi. Nessuno aveva mai pensato di cercarla, di invitarla, di viaggiare insieme con lei. Lei era come un pellegrino sulle strade del mondo, come un eroe dimenticato nella massa, come un reperto nascosto sotto la sabbia, come un eremita solitario. In questa fase delicata piena di sentieri disagevoli, di strane ombre il fatto più inquietante era che non avevo più l’uso di un braccio. Il danno era irreparabile. Ero sdegnosamente respinto senza pietà nel mondo degli handicappati, nonostante la mia resistenza. Se mi lasciavo guidare dalla rabbia avrei commesso una sciocchezza. I sentimenti forti spesso ci portano verso errori fatali. I dubbi sul futuro erano come sospesi nel tempo. La mia era sicuramente una esperienza dolorosa, bruciante e lacrime silenziose mi rigavano il volto. Non accettavo il sabotaggio del destino. Nelle veglie notturne riaffioravano i ricordi e ora invidiavo i giovanissimi, che se anche poveri di risorse, erano pieni di entusiasmo e di valori, pieni di salute. Il linguaggio segreto del mio cuore mi diceva che non dovevo rassegnarmi a morire. Volevo suicidarmi senza indugi ma una voce interiore mi diceva che avrei potuto ancora fare qualcosa di positivo, di magico. In fondo stavo sotto il manto protettivo di mia zia, che non mi perdeva d’occhio e che in segreto pregava per me con umiltà, con una sensibilità particolare. Non avrei corso grandi rischi, ma non avrei dovuto commettere altri errori. Invece nella mia vita gli errori si erano ripetuti. Avrei dovuto cercare un lavoro anche umile per contribuire al bilancio familiare, un lavoro senza pretese. Tanti miei coetanei lavoravano tutto il giorno e vivevano soli. Ero titubante sulla strada da intraprendere. Volevo con forza realizzarmi, anche se il successo dell’impresa mi appariva lontano. Il mio sogno era occuparmi di una rivista, magari di fatti di cronaca, che non lasciano tracce nella memoria della gente ma che colpiscono come proiettili vaganti. Nel mio cuore c’era albergato anche il desiderio di scrivere un’opera che avrebbe riflettuto le mie esperienze, il mio carattere. Un’opera di impatto emotivo, piena di sensibilità, quella sensibilità che viene dall’umiltà. Mi sarebbe piaciuto fare dello scrivere un mestiere come tanti altri. Scrivere per raccontare la mia storia, per inviare messaggi autentici. Mi sarebbe piaciuto distinguermi dalla massa con scritti sinceri. La mia opera non avrebbe avuto dialoghi, sarebbe stata un lungo e affascinante, misterioso monologo, come un monologo fatto in dignitoso silenzio davanti allo specchio. Le mie parole quasi avvolte nel mistero, con il loro fondo tenebroso avrebbero colpito, insegnato, stimolato la curiosità, avrebbero sorpreso e imbarazzato, deluso e confuso. I dialoghi sarebbero stati assenti perché nella mia vita non c’era mai stata una parola amica, un colloquio sincero. Anche chi mi aveva parlato l’aveva fatto in modo freddo, aveva finto di volermi parlare, di volermi bene. Solo mia madre con il suo volto sorridente e la sua espressione innocente mi aveva difeso, parlato. Il dialogo nella mia vita era sempre stato assente, privo di significato come una razza in via di estinzione. Le ciniche parole della gente spesso erano diventate, con il tempo, muti rimproveri, commenti audaci fatti con occhi fissi e severi a causa della mia condotta. Ricevevo aspre critiche per la mia vita dissipata. Con aria indifferente spesso avevo accolto le parole fiere di gente ricca e elegante, orgogliosa dei successi. Avevo fatto con il tempo una deludente scoperta: i dialoghi fra persone erano tutti vuoti, tetri, di un vuoto che dava le vertigini, pieni di orgoglio e disprezzo, di invidia e di rabbia. Molti nei dialoghi mentivano da perfetti manipolatori, per vari motivi, per esaltarsi o per distruggere gli altri. Anche i dialoghi fra giovani erano inquinati alle radici, erano pieni di superbia. I dialoghi d’affari, pieni di sicurezza ostentata fra gente navigata erano quelli che mi facevano più pena. Non si potevano paragonare ai dialoghi comuni. Erano ricchi di finezza, di eleganza ma riservavano, ai più attenti, il sapore della vanità. In certi dialoghi si assisteva al fenomeno della sottolineatura della propria competenza. In certi dialoghi allibito trovavo competizione, spietatezza, piacevole insulto. Con riso bonario molti scardinavano, demolivano con le parole taglienti le mie convinzioni, il mio essere. Con cautela infinita accoglievo le parole villane di sedicenti amici che velatamente mi insultavano, mi lanciavano strali e frecciatine. Spesso dialoghi interminabili mi portavano il sole malinconico della solitudine che tutto polverizza. Nella valle solitaria della vita non c’erano dialoghi aperti, pieni di amicizia, di riconoscenza, solo dialoghi pieni di lamenti malinconici, di provocazioni, di bugie, di insulti. Con occhi sbarrati spesso conducevo dialoghi pesanti come una ripida salita, dove le persone tendevano a umiliarmi, a ridurmi in polvere, ed io, cocciuto, li lasciavo fare senza ribellarmi. I dialoghi con gli amici erano sempre gli stessi, segnati dal tempo, privi di forza, monotoni. Allora per evitare strazianti dialoghi e ospiti sgraditi mi rifugiavo nella mia mitica stanza, che diventava un rifugio, una tana, un appiglio. Spesso per ovvi motivi preferivo parlare con gli occhi, incapace di difendermi dagli assalti delle parole nemiche. Ci vorrebbe qualcuno che a scuola insegni le regole di un dialogo pacifico, senza massacri. I dialoghi mi trasmettevano un vuoto infinito. La volontà di scrivere c’era ma mancavano gli agganci o un colpo di fortuna improvviso, provvidenziale L’arte annullava i miei pensieri di morte, di quella morte che ci lascia completamente soli davanti al passo finale e mi produceva nel petto una specie di batticuore. Il mio cuore indurito, sofferente avrebbe visto il suo dignitoso riscatto, non era ancora tardi. Con la scrittura non sarei vissuto di rendita. La mia strada era un itinerario accidentato pieno di pulviscolo dove io avrei dovuto camminare a testa bassa e a mani vuote. Forse con la scrittura avrei tramandato un solo concetto, ripetuto all’infinito: soli si muore. Non avrei avuto eredi, data la mia malattia invalidante, ma i miei figli sarebbero stati gli scritti. Loro non mi avrebbero fatto perdere la faccia e mi avrebbero accompagnato nel tratto finale della mia vita, prima di sparire nel vuoto avrei sorpreso tutti con un colpo di mano. I miei scritti avrebbero parlato della minuziosa ricerca della felicità, della stanchezza dei sentimenti, dell’assenza di dialogo, delle fastidiose scoperte, delle lunghe riflessioni, dell’assoluto isolamento, della situazione precaria, della feroce delusione, dei rovesci della fortuna, degli strappi violenti e delle perdite, del panico generato dalla morte, del silenzio immutato del tempo, del sole pallido degli amori finiti, dei propositi e delle incognite del futuro, delle apparenze, della voglia di mollare, delle persecuzioni e degli inganni, della infinita lontananza, della insopportabile tristezza, degli oscuri pericoli, dell’intolleranza, delle soluzioni pericolose e della saggezza dell’uomo. Avrei però cercato di far capire che anche le sconfitte si possono trasformare in trionfi durante la strada della vita, trionfi che danno soddisfazione. Molte cose con il tempo cambiano. La mia ispirazione inaspettata sarebbe giunta a calmare il mio spirito inquieto, avrei dato retta solo a lei. Lei mi avrebbe aiutato a non farmi sentire perduto. Avrei scritto seguendo lo strano, smisurato ragionamento della mia mente errabonda e sprezzante del pericolo sarei andato fino in fondo. Avidamente mi sarei pasciuto solo di parole ragionevoli senza mai passare il limite. Sarei stato entusiasta, baldanzoso, ardito, come un adolescente incosciente che gusta la vita a grandi sorsate. Con il corpo flessuoso, con l’aria seria e pensosa, con movimenti lenti e sicuri avrei scritto alla scrivania di mia zia, magari con la luce accesa. Con paterna dolcezza avrei accettato il suo sguardo curioso e indagatore. Prima di sparire inghiottito nel buco nero della morte avrei descritto la realtà, fatta anche di male, ma anche di gioie e continue lotte, e forse qualcuno un giorno si sarebbe ricordato di me leggendomi per caso. Cercavo l’abbraccio del mondo dopo che non avevo avuto quello della mia gente. Quanti parenti mi avevano deriso, allontanato, offeso, lasciato solo? La conseguenza dello scrivere sarebbe stata quella di perpetuare il mio ricordo, dato che non ero riuscito a combinare nulla di buono. In fondo la scrittura non portava verso gravi conseguenze, non era totalmente dannosa. La parola poteva ferire, avvilire, regalare il gelo della solitudine, il veleno della sconfitta cocente, ma poteva anche suggerire, insegnare a superare le faticose difficoltà, difendere i principi, dare lezioni di umiltà, di entusiasmo, di determinazione, convincere ad assecondare la gioia di vivere, l’amore, ad abbattere la debolezza, a reagire, a trovare soluzioni, vivo coraggio. La scrittura, nella morsa della desolazione della mia vuota vita era una presenza viva, come quella di una sorella che ci difende e appoggia, mi portava senza indugio l’alba di un nuovo giorno. Nella pagina bianca potevo scrivere quello che per orgoglio, per rabbia, per stizza non avevo mai detto, mai espresso pienamente. Non avevo mai scritto per paura del giudizio altrui, per non farmi guardare con gli occhi ironici, gonfi di superbia della gente comune che forse non avrebbe capito. Sarei stato sempre riconoscente alla scrittura che mi avrebbe permesso di rendere pubblico il mio pensiero. Il rischio mortale, reale ero quello di scrivere opere intrise di poesia, di suggestioni, quella poesia che sentivo nascere dentro e che forse prima non avevo considerato. La poesia forse faceva parte della mia natura, del mio animo e avevo sottovalutato. La poesia era in germe nel mio sangue, nelle mie vene. La vita frenetica non mi aveva fatto vedere la bellezza della poesia dentro di me. Ognuno ha la sua poesia, solo che non riesce a tirala fuori, è troppo impegnato a vivere. Le sconfitte mi avevano temprato, spinto verso amare riflessioni che dovevo scrivere. Spesso sono proprio le vite impegnative, piene di dolore quelle che spingono sulla strada dell’arte. Avrei scritto senza orgoglio, con autoironia, avrei raccontato candidamente le mie sconfitte, le mie umane sconfitte. Sarei apparso a tutti gli effetti un essere umano. Chi avesse consultato, letto, assimilato i miei scritti ci si sarebbe ritrovato, si sarebbe immedesimato. Negli scritti ero solo un uomo in cerca della tranquillità, di una identità vera, non fittizia, un uomo desideroso di lasciare una visibile traccia, di esprimere semplici concetti. Negli scritti avrei ripercorso a ritroso non tanto i fatti della mia vita quanto le idee, le impressioni, i sogni impossibili, le allucinanti perdite, le tappe salienti dell’anima, la sua via crucis on attesa del riscatto. La scrittura sarebbe stata un viaggio dentro l’anima e non un arido resoconto simile a un diario. Le pagine non avrebbero conservato solo la memoria del passato, colmo di false promesse, ma con stile leggero, educato e gentile avrebbero trasmesso emozioni intense piene di dolcezza, di terribile tristezza, di struggente nostalgia, di sottile angoscia, di paura indefinibile. Con umiltà, senza titubanze, avrei confessato le mie mancanze di sensibilità, le mie acute malinconie, le mie rinunce, quelle che mi avevano pesato, confuso, schiacciato come una minaccia oscura che aleggia nell’aria, le mie bugie, le mie feroci ritrosie, le depressioni disarmanti, gli smacchi incredibili, le salite solitarie, i miei traguardi mai raggiunti, il malcelato orgoglio, i fallimenti mai accettati, le difficoltà senza rimedio, la paura della derisione, i colpi bassi del destino che a un certo punto mi aveva presentato il conto. Avrei descritto la mia determinazione, la voglia di raggiungere un alto livello, la forza psicologica dimostrata per tenermi a galla nonostante gli ostacoli, senza ritrosie, il processo di salvamento messo in atto che mi avrebbe portato a salvare per lo meno la faccia. I fallimenti impietosi mi avevano fatto capire che in fondo è umano perdere. Quando si perde ci si può sentire una nullità ma ci sono sempre delle possibilità di rimediare. Spesso il dubbio si insinua nella nostra testa ma non dobbiamo dare retta a noi stessi, dobbiamo tirare fuori la grinta e affidarci anche all’aiuto degli altri. Noi per orgoglio non chiediamo mai niente a nessuno, non condividiamo le nostre sofferenze, le nostre paure. Con gli altri siamo sempre sul chi vive, perché temiamo di essere traditi, di essere messi a nudo, di essere criticati, messi in ridicolo. Spesso gli altri ci hanno veramente deluso e abbiamo portato scritto negli occhi il senso della disfatta. I parenti stessi ci sono apparsi spesso come sibilanti serpenti pieni di invidia mediocre nei nostri confronti. Con il morale sotto i piedi, nel vuoto vertiginoso, abbiamo provato risentimento. Invece nel crollo totale, nel cedimento, nel silenzio impenetrabile della dolorosa solitudine, nella finzione, dobbiamo sempre avere pensieri positivi, privi di ansia. Dobbiamo pensare sempre candidamente alla risoluzione delle questioni. Il nostro pensiero si deve arricchire di frasi gentili, di pensieri audaci, di ricordi lieti indelebili. Con il pensiero positivo dovremo toccare con mano il punto di equilibrio della vita. Il nostro parlare con gli altri dovrebbe essere schivo e modesto. Nella vittoria non dovremo mostrarci presuntuosi, in cerca di ammirazione e nella sconfitta non dovremo bloccarci nella paura e avvilirci. Abbiamo la pessima abitudine nello sconforto di parlare a stento, di nasconderci come un uccellino con le ali spezzate. Invece dovremo sempre avere la leggerezza di un cardellino. Il trucco per sopravvivere, per non farsi scardinare e per risolvere i problemi, sta proprio nell’andare avanti con eleganza e silenzio nutrendo pensieri lieti, pensieri normali. Anche nell’immenso vuoto nella nebbia vaga, dobbiamo guadare oltre, ai lontani orizzonti che ci attendono. Agli altri dobbiamo mostrarci sempre lieti. Non dobbiamo permettere agli altri di godere delle nostre perdite. Il sarcasmo degli altri si combatte con la dolcezza di un umile sorriso, anche indifferente, ma pur sempre sorriso. se non possiamo ridere, dobbiamo sorridere, anche delle manchevolezze degli altri. Dobbiamo imparare a perdonare. Dobbiamo guadagnare tempo mentre affondiamo perché spesso dietro l’angolo c’è per noi un tiepido e dolce sole pronto ad avvertirci del ritorno affettuoso della fortuna. Nelle anomalie della vita, nei suoi alti e bassi, nelle trappole ingegnose del destino dobbiamo fare sempre buon viso. Il colpo di grazia dello smacco non deve farci trasecolare, non deve sbalordirci, tormentarci. Non dobbiamo sentire un senso di sconforto, un senso di fallimento. Non dobbiamo invidiare collerici chi sta meglio di noi o è semplicemente più bravo. Molti per invidia sono pronti persino a danneggiare gli altri con la maldicenza, con la malvagità. Ci sono dolori per tutti, imprevisti e per tutti momenti magici. Ognuno ha i suoi doni particolari da mostrare, le sue passioni da coltivare anche sotto voce, senza tante parole, ognuno deve mettere il suo dono al sevizio degli altri. Ci sa suonare deve farlo anche per gli altri. Ognuno si deve impegnare senza cinismo, senza scomporsi, con mitezza, con entusiasmo, con curiosità, con modestia evitando la disonestà, la furberia. Tutto si aggiusta con il tempo, basta attraversare incolumi le braci ardenti del male, i suoi imbrogli. Alcune volte è vero dobbiamo arrangiarci, formare il nostro carattere, lottare senza disdegnare l’uso delle armi. Ovviamente la fortuna, il caso, il fato come vogliamo chiamarlo, si rivela magnanimo solo con le persone coerenti e positive. Fare il male potrebbe essere una lama a doppio taglio e aumentare la paura quotidiana di esistere. Il nostro narcisismo ci porta a pensare solo alla nostra sopravvivenza. Il nostro egoismo ci porta a pensare di raggiungere traguardi ambiziosi, altezze vertiginose, dense di promesse, che si rivelano veri sogni di fumo. Nessuno può dissuaderci dal nostro insano proposito di raggiungere le vette anche a costo di mancare di rispetto agli altri, di calpestarli. Spesso otteniamo il potere, che alla fine però ci appare in tutta la sua luce gelida, cruda pieno di tristezza indicibile, di acuta malinconia, della minaccia oscura della solitudine. L’uomo di potere si ritrova quasi sempre solo. Quando il potere crolla restano solo macerie. Nel crollo la solitudine rimane l’unica compagna. Ci sono uomini di potere che al momento cruciale della sconfitta si sono ritrovati completamente soli, magari esiliati su un’isola deserta. Con troppa leggerezza non percepiamo i pericoli del potere, non intuiamo la fatalità che aleggia nell’aria, intorno al trono del potere. Nel successo, nel potere pensiamo che tutto ci sia dovuto, che è tutto merito nostro e non mostriamo gratitudine per nessuno. Non ascoltiamo neppure il messaggio misterioso e inquietante della nostra coscienza. Non ascoltiamo la voce interiore, protettiva che vorrebbe salvarci dal naufragio. Non siamo di parola, non ascoltiamo i segnali dell’anima. Solo molto lentamente ci rendiamo conto che la nostra vocina interiore, che magari ci invitava a rinunciare a una impresa, aveva ragione. Spesso la voce si insinua nei nostri stessi pensieri ma noi senza titubanze non la ascoltiamo. Continuiamo a scalare senza pausa la vetta del successo con gli occhi pieni di visioni incantate. Pensiamo che il nostro successo dipenda dalla nostra esperienza, dalle nostre doti non dalla fortuna. Candidamente pensiamo di essere dio, ci mettiamo al posto di dio e giudichiamo senza averne le capacità e quindi non rispettiamo neppure le leggi divine che pure sono perfette. Frastornati dal successo pensiamo solo al nostro equilibrio psico-fisico e non al senso di vuoto che imprimiamo agli altri. il potere ci rende tracotanti e superbi. Gli altri sono intimoriti dal nostro comportamento superbo. La pace e la fulgida serenità si possono trovare anche nella natura, nell’ombra della sera, nella tranquillità interiore. In fondo ad agnello tosato Dio misura il vento e se siamo in buona fede il destino tesse bene la sua tela e alla fine ci salva. La fortuna ci accompagna nelle nostre buone azioni, che leniscono il senso di solitudine. Nel bene, con l’entusiasmo di un bambino dagli occhi luminosi, viviamo una vita pulita e graziosa anche senza sfarzi. Nel bene ascoltiamo la voce affettuosa del cuore e viviamo i doni della vita come il dono dell’amicizia, dell’amore, del talento. Dobbiamo assecondare il nostro talento, esaudire i nostri sani desideri, far conoscere agli altri il nostro dono. Non dobbiamo essere maldestri con i doni che ci sono stati dati. Chi ha il dono del canto deve concedersi agli altri, cantare per gli altri. Dobbiamo dissetarci alla sorgente del nostro talento senza brame e imprecazioni, senza fretta. Il dono che abbiamo dobbiamo valorizzarlo, se no sembrerebbe mal riposto. Chi fa il male si trova in una situazione imbarazzante e immancabilmente viene colto dall’occhio rapace della sfortuna, viene colpito in pieno petto. Per la gente malvagia finita male possiamo solo provare pena e pietà. Ci piange il cuore quando vediamo punite persone dagli occhi di acciaio, il destino spesso colpisce duramente i superbi. Ormai avevo capito quale era il mio dono: la luce vivida della scrittura. La mia voce interna, anche se fioca, appena avvertita, mi spingeva a sperimentare questa nuova strada. Dovevo scansare gli ostacoli come un lupo solitario e cimentarmi senza scompormi nella nuova impresa, nella nuova avventura anche a costo di sostenere delle privazioni. Non dovevo offrire la possibilità alla cattiveria di avere il sopravvento. Con le gambe piegate per l’emozione scrissi a una rivista alcuni articoli avanzando la richiesta di collaborare con loro. Non volevo l’intercessione di nessun politico o dirigente amico. Avevo fatto il primo passo e aspettavo impaziente una risposta. Il dono che avevo me lo ritrovavo fra le mani come un filo pronto a dipanarsi. Dovevo solo sciogliere i nodi con rispetto e senso del dovere. Dovevo fare della scrittura un mestiere e riconoscermi però limitato. Non dovevo essere superbo. Dovevo partire dall’umiltà, dal riconoscimento della mia pochezza. Iniziai quasi come volontario a lavorare per una rivista. Lavoravo fino all’imbrunire nella redazione sotto l’occhio rapace del capo redattore. Nel buio aumentava il coraggio di scrivere e la scrittura esplorava da sola nuovi mondi. Scrivevo con un autocontrollo assoluto e solo scrivendo mi sentivo vivo e scendeva in me una grande pace. La scrittura lasciava in me un solco profondo e misterioso nel tormentato viaggio dell’esistenza. Imperterrito proseguivo per la mia strada senza mai cedere, una mano ignota sembrava guidarmi. La scrittura, come soffio potente, mi completava, mi arricchiva, mi emozionava come se il tempo si fosse fermato per sempre. I miei racconti tradizionali pieni di paure, di descrizioni, i miei articoli erano apprezzati. Eppure i miei superiori mostravano una scarsa comprensione. La redazione era quasi sempre polverosa, lasciata nell’incuria. Dopo essere giunto ai ferri corti con la vita avevo la sfortuna di entrare in conflitto con l’ambiente di lavoro dove mi guadagnavo da vivere. Nella redazione vi facevo una umile figura, ero un pallido raggio. Il capo redattore per cause ignote non mi parlava neppure. Era un uomo scriteriato, legato alla politica, asservito, mediocre che per troppo tempo era stato sulla cresta dell’onda ed era caduto nell’abisso del senso di superiorità. Era stremato per lo sforzo di apparire quello che non era, per ottenere la fama. Invece lasciava solo deboli tracce in luoghi ormai scomparsi ma non lo sapeva. Lasciava una scia inutile, flebile come la bava di una lumaca. Lui, Antonio, non mi voleva bene, non mi guardava con tenerezza, anzi mi faceva dei dispetti come fanno le anime dannate e perdute. Fingeva di non stimare le mie storie, mi accusava si avere una fantasia morta, di non avere coraggio, di avere uno stile troppo concitato, di avere una scrittura selvaggia, di essere uno scaltro opportunista, di non saper vincere le mie paure, di descrivere solo scene dolorose e inconsolabili, piene di patimento. Mi accusava di essere uno sfortunato pessimista. Lui viveva una vita dissipata, spavaldo, accumulando debiti di gioco a causa delle donne, senza rimorsi. Pagava i debiti facendo dei squallidi raggiri. Quando soffocava per la paura dei creditori fuggiva per un po’. Prendeva soldi dalla madre quando si trovava male. La madre paziente lo aiutava. Sulla madre aveva un forte ascendente. Ogni tanto aveva diverbi con i creditori che degeneravano in risse. In realtà io lo ascoltavo incredulo, quando mi stuzzicava e insultava, senza batter ciglio. Le sue battute sarcastiche, le sue cattiverie gratuite mi scivolavano addosso. Lui in fondo era solo un compagno scomodo del viaggio della vita, uno dei tanti, che sarebbe finito fuori gara. Non dovevo prendermela più di tanto. Io dovevo essere giudizioso più di lui, chi ha più prudenza l’adopera. La mia scrittura era piena di confessioni importanti, di rettitudine. Nel lavoro ero laborioso, irreprensibile, intransigente, infaticabile. Sgobbavo ogni giorno. Non mi sarei fatto intimidire da inesistenti paure, da squallide critiche. Dovevo vedere da che pulpito veniva la predica. In tutte le questioni avrei dovuto metterci più cuore, dimenticare gli affronti subiti. Non dovevo elemosinare affetto. Nel mio mondo fiero e solitario avrei fatto amicizia con chi veramente la meritava. Nella magica radura del mio mondo non piangevo, guardavo lontano senza adombrarmi per le offese personali riservatemi. Facevo investimento sulla mia pazienza. Tra me e Antonio vi era una profondità abissale, lui era scattoso, arrogante, spaccone, nervoso, ansioso. Con me si comportava da nemico, astioso e invidioso. Non avevo trovato sul lavoro un ambiente accogliente, contatti umani. Eppure tutta quella rivalità non portava da nessuna parte, anzi era controproducente. Capivo che in tutti gli ambienti di lavoro era possibile trovare quell’intreccio incredibile di sospetti e viltà, di astuzie e gelosie, di sfide e ricatti, di appigli e dolori Molti imperterriti scalpitavano per raggiungere l’obiettivo, spesso miraggio lontano, del successo e dei soldi, portavano avanti il loro gioco pericoloso privo di generosità. Lottavano affannati, inesperti, scatenati nella impossibile scalata in una difficile progressione verso altezze vertiginose. Solo la vecchiaia e la malattia mettevano fine a questi complicati percorsi. Solo da anziani le persone tornavano ad essere meno prepotenti e impertinenti, meno indifferenti. Alcuni anziani mi facevano pena specie quando piangevano forse ripensando ai loro peccati e all’incapacità di rimediare al male fatto. Solo con la morte in tasca, nell’ultimo istante, lungo quanto una eternità, tentavano di pareggiare i conti, di diventare saggi, di mettersi l’anima in pace, di tenere duro. Cercavano di combattere la paura della morte con i ricordi, cercando nella memoria momenti di stupefatta umanità, di loro comprensione, di affetto sincero. Con scaltrezza attenta si cerca di schivare la malattia, ma quando questa piomba come un falco sulla preda, l’anziano si sente impotente, nervoso, abbattuto, plasmato dagli eventi. La malattia ferisce gravemente, fa passare secondi di terrore. Gli anziani brontolano, cercano di reggere alla paura, ma quando sono prossimi alla morte cambiano tono, diventano meno loquaci e più buoni nella folle speranza di salvarsi. La morte dà senza dubbio lezioni di vita, fornisce messaggi precisi, ha il suo potere. La morte protegge gli ingenui che vi si abbandonano come fra le braccia del sonno. C’era fra me e Antonio, mio caporedattore, un notevole dislivello. La sua inquietudine, come la mia, dipendeva dai traumi vissuti nell’infanzia, avara di dolcezze, di luci amiche. Io però avevo capito gli errori e mi avviavo,con una marcia sostenuta, sul lungo percorso del recupero, dove si sarebbero dissolte tutte le presenze inquietanti. Avevo cercato per lo meno di dare un senso alla mia vita. I pensieri positivi mi incitavano a non ritirarmi, a sognare a occhi aperti e a non impedire agli altri di farlo. In un attimo il mio inconscio si era liberato da vecchi pesi, dentro di me non si agitavano più strani folletti. Antonio in realtà sul lavoro era protetto dall’alto e mi dava scacco matto su tutta la linea. Nella competizione rimanevo indietro, spiazzato, in alcuni casi liquidato. Lui aspirava in alto, come fosse un gioco e c’era chi lo proteggeva in modo palese. In modo inspiegabile mi accorgevo che la fortuna proteggeva i folli, i disonesti, gli audaci e gli sprovveduti. La mia memoria ferrea, la mia esperienza, il mio modo raffinato di comportarmi, con cautela, la mia educazione non meritavano attenzione. Era giocoforza che io lavorassi fra incredibili difficoltà. Ero vulnerabile, esposto a tutti i venti leggeri che si agitavano. Le mie illusioni erano prigioniere del tempo. Il mio entusiasmo diventava sempre più tenue come brezza mattutina, come nebbia al sole. Forse non ero dotato di carisma, di fiuto e per questo arrancavo lontano anni luce dalla riuscita. Era mia la colpa se non sapevo impormi, se tutti si allontanavano da me come fossi un lebbroso. Non mi compromettevo più di tanto, ma vivevo in una nebbia densa fatta di una soffice malinconia che lasciava un tracciato, un solco profondo nel cuore. Seccato vedevo trascorrere il tempo senza cambiamenti sostanziali per me, senza una piccola mutazione, senza rispetto per la mia persona. Mi sarebbe bastato, a un certo punto, il rispetto, la comprensione. Ovviamente lavorare sodo non mi dava soddisfazioni. Spesso mi lasciavo andare e facevo lo stretto necessario senza enfasi, senza slancio. Il paesaggio che vedevo fuori di me, il sentiero tracciato era sempre lo stesso. Era una vita monotona fatta di incomprensioni e improperi. Spesso quando ero di malumore, quando ero maltrattato pesantemente dai superiori pensavo che sarei stato licenziato. Allora confuso mi gettavo fra le braccia del silenzio, del sonno profondo in cerca di un beato refrigerio. Avrei voluto dormire per giorni di seguito senza alzarmi. Il risveglio era doloroso, mi riportava alla mente situazioni non risolte, rimproveri, angustie. Ero una zattera alla deriva in balia dei flutti. L’unica cosa che succedeva di rilievo al lavoro erano i continui traslochi, mi facevano andare da un ufficio a un altro, senza sosta. Mi trasferivano con la velocità della luce, non facevo in tempo ad affezionarmi a una stanza, a dei colleghi, che subito dovevo andare via, senza indugio. Cambiavo continuamente indirizzo e numero di telefono. La mia vita lavorativa era un continuo trasloco, la morte sarebbe stata l’ultima tappa, l’ultimo e definitivo trasloco. Non c’era pietà e rispetto, ero come una pedina di una scacchiera che i superiori muovevano a loro piacimento. Ogni volta dovevo fare i bagagli per una nuova e ignota destinazione. Non potevo ribellarmi alle decisioni prese dall’alto. Non avevo nessuno che mi proteggeva le spalle, non avevo amici fidati. Ribellarsi era controproducente, significava andare incontro a ritorsioni, a scatti di ira, a tormenti. In questi cambiamenti non mostravo entusiasmo, la mia riconoscenza si scioglieva come neve al sole. In fondo mutavo di ufficio non di livello. Ogni volta, ad un annuncio di cambiamento, cadevo dalle nuvole. Fingevo calma, ero rassegnato, dentro certamente ogni tanto ribollivo inquieto. Qualche notte, a causa dei problemi quotidiani, la passavo insonne e il giorno dopo ero privo di concentrazione, stanco, apatico, privo di forze. La ricerca del successo nel campo lavorativo per me era una strada impossibile, impraticabile, tutta in salita. In fondo avevo ancora nel sangue quell’ansia, quella smania di arrivare che era stata tipica dei miei antenati. Nella incertezza totale coglievo i segnali che mi venivano dall’alto, obbedivo fiducioso come un cane al padrone. Alla resa dei conti erano i più furbi, i più scaltri a fare carriera. Il mio passaggio non lasciava traccia, i miei passi erano attutiti. Le mie parole di protesta si smorzavano in un sussurro. In realtà non ero ambizioso fino al midollo. Mi accontentavo a modo mio di quello che avevo, ma non sopportavo le ingiustizie sociali, il sovvertimento delle regole, delle norme. Volevo un riscatto, una rivincita. Gente entrata dopo di me in automatico, faceva avanzamenti di carriera, era benvoluta, portata in pianta di mano in virtù di qualche santo protettore, di qualche strano sortilegio. L’anzianità di servizio non contava, e nemmeno quella anagrafica. Giovani rampanti mi soppiantavano, e mi guardavano insolenti. Giovani scalavano il potere con disinvoltura come si scala una montagna da alpinisti. Superbi mi guardavano dall’alto in basso. Per loro non ero nessuno, le mie opinioni non contavano. Davanti a loro avrei voluto sprofondare per la vergogna. Io che da anni ero nella struttura passavo in secondo piano. Donne bellissime guadagnavano terreno con il loro sorriso aperto e le loro gambe ben in vista. Forse dipendeva da me, dal mio modo scontato, facilmente riconoscibile di operare, dalla mia mancanza di fantasia, dalla assenza di capacità. Non ero abbastanza produttivo. Il mio lavoro era inefficace, inutile, come spesso mi facevano notare. Alcuni erano molto in gamba e dovevo riconoscere la loro superiorità. Alcuni colleghi mi sembravano imbattibili e provavo una punta di invidia. Io resistevo dentro un cerchio chiuso confidando solo nelle mie percezioni, rifugiandomi nel passato ricco di suggestioni, di speranze. Ero come un viandante che solo, senza compagnia, si trova ad annodare le fila della sua esistenza lungo un percorso accidentato, minato. La mia anima ansiosa avrebbe voluto almeno più affetto, più rispetto. A un certo punto accettavo tutto con rassegnazione, anche i rimproveri e i gelidi pugni, le parole offensive dei colleghi. Cercavo di dimenticare le fatiche operose che avevo fatto e che non portavano a niente. Le prime volte, raccolto un po’ di entusiasmo, cercavo di rompere l’isolamento, ma dopo dovevo fare i conti con l’ombra fredda e scura del potere, che con il suo occhio attento mi spingeva al silenzio. Discutere non serviva a niente. La strada del lavoro era poco agevole, fatta di delusioni e gesti rabbiosi nel chiuso della mia stanza. Quando tornavo a casa gettavo la maschera impassibile per prendere quella dell’uomo deluso senza prospettive. Non ero in grado di cavalcare sulle onde dorate del successo. Ero un inetto, un incapace. Non sapevo gestirmi, difendermi, avanzare. Cadevo nelle trappole e nei tranelli che mi facevano senza protestare, senza capire. Mi escludevano ed io non me ne rendevo nemmeno conto o lasciavo correre. Non ero assolutamente ambizioso, il male mi aveva reso più umile, ma molti mi facevano pesare, colleghi e gente comune, nelle conversazioni, il mio stato di semplice impiegato. Mi facevano notare, non senza ironia, che ero un caso disperato. Non avrei mai fatto nulla, nessuno mi avrebbe mai ricordato. Mi sentivo una perfetta nullità. Infierivano tutti con frasi pungenti senza pietà. La gente comune si divertiva a tormentarmi e umiliarmi. Non era tutta colpa mia se non riuscivo sul lavoro. Spesso ad alcuni dicevo delle bugie sulla mia reale situazione lavorativa per camuffare, per difendermi. La gente mi faceva a pezzi anche con parole velatamente offensive. Nei dialoghi non v’erano tracce di rispetto, di pietà. Le parole forti, offensive, impensabile mi rendevano la vita difficile. Ero sull’orlo di un esaurimento nervoso. Nella pratica però, per istinto di sopravvivenza, cercavo conforto solo nei ricordi lieti del passato. Avevo talvolta una espressione pensierosa, il respiro corto. Avrei voluto che al mattino i miei misteriosi problemi fossero svaniti come una bolla di sapone. All’improvviso capivo che certe barriere non potevano essere valicate e che, anche se i miei pensieri erano profondi, non avrei trovato spazio da nessuna parte. Quando ero in uno stato confusionale la malinconia prendeva il sopravvento. La realtà era solo una: ero un semplice dipendente, avrei dovuto farmene una ragione. A me il mestiere piaceva, amavo la serenità ma era il comportamento superbo degli altri a sorprendermi e a farmi venire la voglia di andarmene. Mi sarei volentieri separato da quella situazione incresciosa, volevo veramente liberarmi in qualche modo. Non ambivo a nulla, volevo la tranquillità, ma gli sguardi biechi e tracotanti degli altri mi facevano venire la voglia di un riscatto, di una rivincita. In apparenza tranquillo dentro ribollivo di rabbia. Spesso non trovando via d’uscita venivo preso dal panico. Persone insignificanti mi deridevano, i superiori mi maltrattavano, usavano toni gravi, non gentili. Le parole ruvide colpivano nel profondo. Rispondevo alle provocazioni sempre con tono spaventato, oppure non rispondevo. Nella mente mi si presentavano sempre scenari dove io venivo giudicato male, preso in giro. La mia faccia tristemente stanca la diceva lunga. Ormai nel mio animo c’era posto solo per brandelli di speranza. Ero un’isola nel deserto, invisibile, nessuno mi parlava, mi cercava come amico, intorno trovavo solo barriere e una atmosfera ostile, atteggiamenti persecutori nei miei riguardi. Per la prima volta al debutto di una rivista importante non mi facevano partecipare accusandomi di essere un fannullone, mi rinfacciavano di oziare nel chiuso della mia stanza, che per me odorava solo di stantio,anche se era linda come una stanza di ospedale. Finivo per dubitare persino di me stesso. Il nocciolo della questione, il punto dolente, spinoso era che mi volevano tenere lontano. Ero un puntino sbiadito sullo sfondo, stanco di cercare la mia strada, eppure non volevo arrendermi. Ipotizzavo che altri avessero accesso alla rivista, figure più definite, più protette. Mi ritraevo dalla battaglia ammutolito, con gli occhi sgranati. Gli altri mi rivolgevano sguardi inespressivi e distanti che mi infastidivano. Spesso i colleghi facevano dei discorsi vaghi che celavano riferimenti palesi alla mia sfera personale, alla mia vita privata. Erano attacchi indiretti ma pur sempre attacchi, frecciatine avvelenate, frasi pungenti velatamente offensive, sarcastiche che mi piombavano addosso. Forse mi giudicavano negativamente anche se non mi conoscevano bene, ma io a un certo punto non desideravo difendermi, mi trattenevo, non rispondevo alle provocazioni per non subire poi ritorsioni. In alcuni casi percepivo di essere di troppo, i sensi sempre all’erta percepivano un’aurea negativa, inquinata. Intorno a me tutti si impegnavano, si prodigavano, progredivano, crescevano professionalmente solo per me niente cambiava. Solo in alcuni casi, insolitamente, ero calmo. In certi momenti ero depresso, a disagio, parlavo con voce tremante, sentivo il bisogno di essere rassicurato, di riposare. In realtà alcuni giorni avrei voluto rimanere nel letto, dormire un sonno senza fine, per non aprire gli occhi su una realtà deludente. Alcuni giorni avrei voluto tornare ad indossare i panni del bambino. l’infanzia con la sua spensieratezza era stata un momento di tregua. Solo con il tempo imparavo ad avere più forza. Indossavo l’uniforme del perfetto impiegato, mi mettevo la maschera, lavoravo passivo, garbato senza cercare cenni di approvazione, ma indubbiamente senza entusiasmo. Molti di propria iniziativa si prendevano il merito di tutto, sfruttavano la situazione a loro vantaggio. A me restava la rabbia di rimanere chiuso per sempre dentro una stanza ricoperta di polvere grigia. Rabbia che mi offuscava i pensieri, mi invadeva le idee, la stessa immaginazione, mi bloccava la fantasia, la creatività. Andavo in giro perdutamente svagato, sfuggente. Sfuggivo le persone, evitavo volutamente gli incontri. Spesso mi costringevo ad ignorare alcune realtà, altre volte prendevo tutto sul serio e un po’ mi adiravo. Il destino continuava a punirmi per le mie malefatte, perché niente accade a caso. Ero come un bambino che aveva voglia di crescere e che veniva costretto a rimanere sempre nell’ombra di un asilo. La vita vera, decente, la conducevo fuori dalla pareti dell’ufficio, dove trovavano ogni tanto sprazzi di felicità, sorsi di serenità. Ma era una felicità artificiale, una sorta di anestetico che attutiva il dolore momentaneo, e finito l’effetto del farmaco, tutto ricominciava a dolere più di prima. A casa gettavo la maschera, tornavo me stesso, mi comportavo come era nel mio carattere, senza artifici. Forse bisognava trovare una persona disposta ad insegnare come ci si deve divertire. Fuori dal lavoro, talmente ero teso, non riuscivo nemmeno a divertirmi, anche se molti mi salutavano e volevano bene, mi guardavano con dolcezza. Non ero circondato solo da gente vile e ambiziosa. Certo i miei colleghi sul lavoro erano spietati, ma nella vita privata erano anche loro come pasta di mandorle. Era la competizione, l’istinto di sopravvivenza a scatenare gli antagonismi, gli odi. Probabilmente non mi divertivo nel privato perché un pezzo di cuore l’avevo lasciato al lavoro, un pezzo sanguinante di lacrime amare. Il lavoro era una ossessione, un cruccio, mi procurava un senso manifesto di insoddisfazione. Mi sentivo un innocente perso nel suo mondo e anche fra la folla della strada mi sentivo solo. Le masse rumorose di città non smorzavano la mia costante solitudine reale e interiore. La mia mente aperta a tutte le esperienze mi induceva per dovere a continuare come niente fosse, senza impegnarmi più di tanto. Nel dilemma rispondevo sempre educatamente a tutti senza pensarci troppo, anche se avevo la fronte imperlata di sudore per lo stress. Il mondo del lavoro per me era colorato di blu e di nero, aveva toni accessi e colori cupi. Soprattutto non mi piaceva affatto come venivo trattato, aldilà di tutto, volevo solo un po’ di rispetto. Non volevo neanche avere una carriera brillante, ma solo andare avanti con le mie forze, senza vedere gli ammiccamenti degli altri che mi analizzavano con aria critica, senza sentire i toni ironici della loro voce, ascoltavo sempre tutta una serie di parole oltraggiose nei miei riguardi, senza ribattere. Nessuno aveva un tono compiaciuto, familiare, espansivo. La mia pazienza aveva dei limiti, un giorno sarei esploso. Non nego che spesso avrei voluto scappare dal quell’ambiente oscuro, da quelle stanze incolori. Io ero solo un piccolo granello che faceva parte di un ingranaggio più grande, di un meccanismo più complicato, quasi perverso. Un giorno ebbi un invito inaspettato alla presentazione di una rivista, fuori del mio ambiente di lavoro. Alcuni miei scritti, articoli infatti avevano cominciato a circolare. Il cuore mio ebbe un sobbalzo. Dovevo essere pronto a nuove sfide, a nuovi scambi di idee, senza remore. Forse sarei progredito in modo naturale in un ambiente più soft, meno aggressivo e competitivo. Dovevo trovare dentro di me l’energia sufficiente, la vivacità. Qualcuno doveva trovare il coraggio di tirarmi fuori tutto quello che aleggiava dentro di me inespresso. Spesso basta una persona sola a tirare fuori il mondo che abbiamo dentro e che nessuno distratto vede, nemmeno noi. Non sempre si incontrano persone sbagliate, qualche volta si incontrano meravigliose creature. Io ero come proveniente da un altro pianeta e dovevo essere plasmato ex novo con originalità e competenza. Dovevo calarmi nella realtà, bere il suo calice fino in fondo e per non essere sconfitto, dovevo necessariamente collaborare con gli altri. In passato, chiuso nel mio fortino, superbo non avevo mai chiesto aiuto a nessuno. La mia vita era stata un totale fallimento. Solo strane idee avevano occupato la mia mente, popolato i miei sogni. Non avevo mai detto niente a nessuno e mi ero lasciato andare mentre il tempo passava. Solo il mio bambino interiore rimaneva in equilibrio, in cerca di un punto di svolta. La presentazione della rivista letteraria si svolgeva in un ambiente chic, un locale alla moda ricco di marmi. Il locale mi strappò un sorriso. Era stato arredato da qualche geniale artista moderno. Guardavo in silenzio l’arredo cercando una possibile interpretazione. Alcune immagini generavano sul mio viso una smorfia quasi di piacere. Nella sala dove avveniva l’evento c’erano diversi gruppi di persone. Solo una persona era seduta su un divano e sembrava un po’ turbata e nervosa, non aveva la mente sgombra dai fantasmi del suo passato. Ero come un bambino dotato di sesto senso e avvertivo la tristezza della donna seduta, era come se mi fossi calato nei suoi panni, immedesimato pienamente, completamente. In quell’atmosfera ero stordito e silenzioso. Il volto della donna era pulito, non comunicava una totale angoscia, forse era stata solo affaticata dagli impegni, dai lavori letterari. Aveva lo sguardo ingenuo come quello di una cerbiatta, uno sguardo che però tradiva una certa trepidazione. Forse avevamo qualcosa in comune: l’amore per l’arte, amore che ci faceva fremere come foglie al vento gelido d’autunno. Ad assillarla non erano certo problemi terreni come quello dei soldi o altro. Probabilmente non si sentiva sufficientemente amata, come spesso capita agli artisti sensibili, per questo si ritirava nei suoi appartamenti. Stavamo nella stessa situazione. Nessuno ci aveva mai detto esplicitamente ti voglio bene con il cuore. Nessuno si era mai occupato di noi a tal punto da farci sentire al sicuro. Forse anche lei aveva paura di perdere, o aveva avuto la sfortuna di perdere qualcuno o qualcosa. I sentimenti con il tempo cambiano, si trasformano. Si possono perdere persone amate come si perde un giorno nell’ozio. C’erano problemi e dilemmi più profondi nel suo animo. Era alla ricerca di qualcuno o di qualcosa, di un punto di riferimento luminoso e concreto. Ognuno ha bisogno di punti fermi, di punti di riferimento per orientarsi. I punti di riferimento possono essere cose, persone, luoghi, animali, idee. Senza punti di riferimento possiamo perderci nel firmamento scuro dell’esistere. La donna un attimo dopo,coraggiosamente, saliva sul palco per iniziare la presentazione. Parlava bene, con un linguaggio sciolto e fluente e la sua voce aveva un suono incredibilmente familiare. Sicuramente doveva ancora trovare qualcuno che la aiutasse a capire chi fosse, che le indicasse la strada che in certe situazioni, secondo me, non aveva trovato agevolmente. Doveva curarsi le ferite e tornare a sorridere, anche attraverso la strada dell’arte, che offriva un caldo rifugio. Era anche lei senza una famiglia vera, un burattino nelle mani del fato. In quell’istante magico, purtroppo non eterno, mi stavo divertendo tra il pubblico. Ero invisibile, nessuno mi vedeva sul serio. Avrei voluto con tutto me stesso aiutarla a risolvere i suoi problemi. In quegli istanti capivo che la paura di arrendersi forse l’aveva presa, specie se era andata, come pensavo, alla ricerca della perfezione. Gli artisti, con la loro vita spesso disordinata, aspirano tutti a creare l’impossibile, pensano sempre di meritare di più, di fare di più. Cadono nel panico quando non riescono a realizzarsi, quando sono incapaci di decidere del loro futuro, di sistemare le cose fatte, quando si sentono fuori posto, quando per sbaglio rifiutano una opportunità concreta, quando perdono tempo a disfare il già fatto o oltrepassano certi limiti e ostacolano gli altri pur di farcela. Con aria un po’ assente ma divertita guardavo il portamento fiero della donna, che rispondeva alle domande a raffica del pubblico. Pensavo a lei con attenzione, come se tra noi ci fosse sintonia, feeling a distanza, una sorta di telepatia. In altre parole, in modo inspiegabile, volevo far parte della sua vita. Pieno di speranze, con un sorriso smagliante, mi avvicinavo per conoscerla meglio, per presentarmi a lei con una scusa. Improvvisamente il mio mondo tornava dolcemente a colorarsi, di colori intatti, puri, visibili. Lei guardava il pubblico sempre con un’aria leggermente triste. Solo io, poeta sensibile, avvertivo le note stonate del suo cuore errabondo. Al suo cospetto prendevo fuoco come un briciolo di carta che subito si consuma, si riduce in cenere. Camminavo verso di lei con la testa fra le nuvole, lontano dalla dura terra, sollevato, sospeso nel vuoto come un acrobata, con il cuore che rallentava, perdeva colpi. Dopo le presentazioni, avvenute senza tanto bisogno di parole, con un gioco sapiente di sguardi, lei mi invitava nel suo studio per offrirmi una piccola collaborazione. Il mio curriculum aveva evidentemente fatto colpo. Le avevo parlato di me, del mio modo di scrivere, del mio animo appartato e chiuso, le avevo parlato in modo sommesso, quasi in punta di piedi, per non disturbarla. Già da come mi esprimevo aveva capito il mio essere, il mio talento, la mia vocazione. Lei aveva capito con un colpo di bacchetta magica quello che al lavoro nessuno aveva compreso per anni. Ero anche uno scrittore di poesie, come mio zio, morto prematuramente. Lei era sposata e aveva un figlio, aveva un legame che durava da anni. Forse era un legame usurato, logoro, prossimo al capolinea. Tutti gli amori soffrono nella routine. Nel rumore della stanza piena di gente il mio cuore si spezzava nel silenzio. Come una scure era arrivata la notizia terrificante, devastante come un terremoto di elevata magnitudo: lei era sposata. Mi ero illuso che avrei potuto un giorno corteggiarla. Forse suo marito era maledettamente geloso, come tutti gli uomini che considerano le donne, le mogli, di loro proprietà, mentre loro possono nell’ombra, indisturbati, anche tradire. Le mogli devono restare al loro posto, vedere sfiorire la propria giovinezza e l’amore. Le mogli trascurate cercano un riscatto, una soluzione. Spesso tradiscono a loro volta, o si rifanno il volto, il corpo dal chirurgo plastico. Molte ingenuamente credono di riconquistare il marito ricorrendo alla correzione dei bisturi. In alcuni casi non si può riconquistare un cuore morto con un volto rimesso a nuovo. L’amore è una questione di anime che si attraggono anche quando il corpo decade. Dentro di me, come un bambino disobbediente, desideravo qualcosa di più di un’amicizia. Lei con il suo sguardo mite, tiepido, con i suoi capelli, mi distraeva dal mio mondo interiore, mi faceva prendere il largo, mi disorientava. Dentro i recessi dell’anima il mio spirito urlava di dolore represso. Ero consapevole del fatto che nessuno è indenne dall’amore ruggente e che spesso si assiste all’inconveniente di non venir ricambiati. Il destino mi ammoniva: non si può avere tutto e subito. Non potevo inveire contro di lui, andare nel pallone per colpa sua. Andai via di lì a testa alta, severo, in fondo c’è una ragione per ogni cosa. Per anni avevo allontanato le persone, ignorato i sentimenti, non avevo dato spiegazioni per il mio comportamento sregolato, in malafede avevo cercato di semplificare la mia vita privandola dei sentimenti. La mia situazione sentimentale era stata sempre complicata. Crudelmente avevo tolto semplicità alla vita, avevo tolto spruzzi di luce viva che si irradiano dal cuore. Nella mia vita complicata avevo bisogno di stabilità, di ordine, di cose semplici, di riprendere fiato, di persone imprevedibili capaci di scuotermi. Ero determinato a mutare filosofia di vita. Avrei giocato sempre a carte scoperte e avrei permesso a una persona di penetrarmi nell’intimo. Avevo capito cosa significa tenere a una persona. A casa la situazione era tornata sotto controllo, le preoccupazioni quasi svanite. In fondo nessuno sapeva dei miei sentimenti per lei, l’amore per lei era relegato in un luogo inesistente, lontano. Si era disperso con gentile delicatezza come un profumo leggero nell’aria primaverile. Nell’angolo buio della mia mente la sua voce mi giungeva smorzata, il suo ricordo sfumato. Lei era sgusciata via, era in un’altra dimensione dove io non avevo accesso. Tuttavia il mattino seguente l’incontro mi sentivo stringere il cuore da una sensazione importuna, da una morsa. Non volevo arrendermi. Avevo addosso il senso di tristezza, di desolazione che prende quando si perde una persona speciale. Non potevo, nella mia posizione, venire allo scoperto, farmi notare, dichiarare con foga le mie sensazioni, le mie emozioni. Preferivo non dire niente, non dare spiegazioni delle mie mani fredde. Quell’avventura tortuosa faceva volare via il mio fragile cuore. Forse venivo punito, anzi sicuramente ero punito per il mio passato. Eppure nessun uomo cattivo sa veramente fino in fondo di esserlo. Ci sono in verità molti uomini e donne crudeli, perfidi, invidiosi, che ne fanno di tutti i colori, che godono del male degli altri, che godono a fare il male, che ridono perfino con cattiveria e si credono persone perfette. Esistono però sapevo anche persone perbene, calme, che aiutavano gli altri specie quelli che stavano per cadere in un dirupo, che si sentivano in dovere di curare, di alleviare il dispiacere degli altri. Io avevo solo avuto la sfortuna di incontrare persone negative. Dovevo solo desiderare di conoscere persone perbene e cancellare il ricordo delle altre, semmai perdonarle. Del resto si può trovare del calore, una scintilla di bene anche nella persona più arida. Alcuni sono aridi perché sono stati contaminati dall’ambiente in cui sono vissuti per anni, non per loro volontà. Molto dipende anche dal nostro atteggiamento, dobbiamo infatti essere arrendevoli e ricordare il detto che dice che con un cucchiaio di miele si prendono tante mosche. Dobbiamo trattare anche con le persone negative, confrontarci ogni giorno con loro, non possiamo nascondere la testa sotto la sabbia. Non dobbiamo divincolarci, fuggire via, andare avanti a passo di marcia senza gli altri, senza l’amore degli altri.. Non si può aspettare soli il ritorno sconvolgente dell’amore nel cuore, dobbiamo condividere. Per non affrontare le paure, le lotte spesso ogni scusa è buona per non amare nessuno. L’amore in alcuni casi diventa impegno gravoso, in alcuni casi può degenerare. Bisogna mettere in conto anche la fine dell’amore, il salto nel buio dell’assenza improvvisa e repentina di sentimenti. Dobbiamo farci invece plasmare dall’amore, sentire la sua voce imperiosa, senza egoismi. La nostra vita priva d’amore appare prosciugata come un lago artificiale, senza speranza. Senza amore si può diventare nervosi, di malumore, accigliati, malinconici, tristi. Avevo tuttavia, nonostante tutto, il controllo della situazione, anche se avrei preferito tornare indietro ai tempi in cui non conoscevo lei che mi aveva letteralmente sconvolto. Lei accendeva i miei desideri con il suo sguardo, con il suo broncio malinconico. La sua tristezza mi eccitava, mi faceva venire voglia di proteggerla. Lei mi attirava come i versi tenebrosi di una poesia crepuscolare. Dovevo lasciare l’amore fuori dal mio cuore se volevo salvarmi, se volevo che tutto andasse liscio. Ero stanco di giocare con l’amore. Rividi la fanciulla dei miei sogni la settimana successiva per concordare il lavoro. Confuso, con un groppo alla gola, poco convincente, riuscivo comunque a sostenere il suo sguardo anche se con un lieve imbarazzo. Lei con la sola sua presenza interrompeva i miei pensieri. Lei mi parlava calma, serena, con un tono quasi divertito. Non sembrava disapprovare le mie iniziative. Di fronte alle mie idee creative si mostrava sbalordita, non le criticava. Avrei forse voluto un cenno di incoraggiamento, un bacio sensuale. Lei mi procurava un blocco mentale. Con il volto deformato dalla tristezza dovevo imparare che la vita è fatta di incontri e separazioni, di vittorie e sconfitte, di gioie e fallimenti. Per uno strano scherzo crudele del destino si può perdere anche la persona che non si è mai totalmente avuta. Con un senso di rabbia sentivo il mio cuore avere un tuffo. Dopo ogni incontro con lei mi sentivo vuoto come un salone dopo la baldoria. Nel silenzio abituale della mia stanza ripercorrevo mentalmente, con aria pensierosa, i momenti speciali vissuti con lei. Trovavo divertente vagare con la mente, perdermi nel pensiero di lei. Lei era per così dire la mia scomoda distrazione. Ogni mattina all’inizio del nuovo giorno la mente precipitosamente si rivolgeva speranzosa a lei. La visione del suo volto mi faceva esplodere nel calore della luce del giorno. La mia immaginazione non seguiva regole. L’amore mi stava con il fiato sul collo. Lei mi piaceva perché era una donna comprensiva, dallo sguardo tenero, delicata, soprattutto non era isterica come tante donne moderne, che mi facevano venire la nausea. Era pulita, ordinata, perspicace, sincera, mai esagerata. Nell’abituale silenzio della mia stanza mi sedevo in un angolo tranquillo e lasciavo entrare lei nella mia vita. Mi sembrava in tutto e per tutto simile a me, forse non è vero che sono gli opposti ad attrarsi. Con lei ero professionale, non parlavo mai della mia vita privata, nascondevo tutto, non tradivo emozioni, stanchezze. Ero in una situazione assurda e noiosa. Lei con me era sempre gentile, pronunciava sussurri di approvazione in tono garbato, con occhi ridenti. Il mio sorriso invece spesso era vacillante, sempre tenero. Alcune volte emozionato parlavo in fretta senza cognizione. Davanti a lei spesso sentivo il bisogno di rifugiarmi nella mia casa, di scappare. Alcune volte non serve nascondersi, ci si sporca lo stesso. Avrei voluto avere con lei più cose in comune, oltre il lavoro, confidarle i segreti della mia famiglia, parlarle seriamente dei miei crucci e dei miei asti. Forse desideravo propriamente uno scambio di segreti, per dare un senso a quella strana amicizia. Passavo in rassegna con la mente quello che potevo confidare a lei. Mi sarebbe piaciuto socializzare con lei, invece le nostre conversazioni erano tutte legate al dovere, al lavoro. Volevo parlarle dei miei progetti pieni di speranze, bloccati dal destino, delle soluzioni trovate ai miei problemi, del mio bisogno di aiuto, dell’orgoglio racchiuso nei miei occhi, della mia mente impegnata, del mio potere di sopportare le mie debolezze, delle mie decisioni, del mio umore variabile, della paura della emarginazione, dei festosi riti della mia anima stanca di proseguire e risollevata dalle sorprese, del mio scrutare assorto l’orizzonte futuro, della fine dei miei divertimenti giovanili. La mia anima, il giorno che doveva incontrare lei, esultava di gioia e nello stesso tempo tremava sbalordita. Assaporavo ogni istante vissuto con lei. A casa, mentre ascoltavo musica, cercavo di rilassarmi disteso sul divano. Mi facevo domande a cui non sapevo rispondere. Il mio spirito fuggiva inorridito al pensiero di non rivederla più, ma prima o poi sarebbe accaduto. La nostra collaborazione stava per finire, non sarebbe durata a lungo. Non esistono lavori eterni. Lei con la sua presenza ingombrante nella mia mente mi dava filo da torcere, mi trasmetteva un pura eccitazione fatta di brividi. Ero solo ubriaco di lei. La passata vita notturna, la musica e gli applausi dei locali volgari era un semplice ricordo vago. Anzi odiavo il mio passato che mi portava il ricordo doloroso della mia perdizione. Nella piena del dolore la mia anima ghiacciata trovava riparo solo nel tepore della casa. Sentivo nel profondo che l’amore era una illusione che mi feriva e pensavo di non meritare tanta insensibilità. Non sapevo cosa fare, come comportami. Davanti al suo sorriso leggero, alle sue risate, al suo aspetto, alla sua voce suadente, ai suoi lineamenti morbidi, mi sentivo mancare, mi sentivo lo stomaco bloccato dall’ansia e avrei voluto la presenza confortevole di mia madre. Mi sentivo in colpa verso mia madre, avrei voluto chiederle scusa, tornare a riabbracciarla come un tempo, stringerla in un abbraccio da togliere il respiro. Lei, la mia amata, ogni tanto mi sembrava che mi guardasse con malizia, ed io incredulo la guardavo, dubbioso, avvolto in briciole di speranza. Lei mi invitava al suo studio invece solo per noiosi lavori da fare insieme ed io accorrevo paziente. All’inizio dell’incontro di lavoro c’era solo il solito scambio di battute fatto a voce bassa. Le parole non colmavano il divario fra noi. C’erano paletti che erano stati messi ad arte, barriere che sia io che lei creavamo. L’amicizia fra noi funzionava perfetta, andava avanti in modo naturale, metteva le cose a posto ed io non mi sentivo più totalmente solo. Forse avrei dovuto tentare qualche approccio con lei, ma la pura mi frenava. Non volevo metterla in allarme, creare una situazione spiacevole per entrambi. Tante volte terrorizzato dal mio strano comportamento andavo via senza salutarla nemmeno, invece sentivo dentro il bisogno soffocante di stringerla fra le braccia, di proteggerla. La mia vita senza di lei sarebbe stata falsa come gioielli di bigiotteria, comunque strana. Senza di lei avrei ripreso il viaggio della vita sperando di arrivare in un luogo senza tempo, in un mondo senza spazio. Forse avrei finito per invecchiare da solo, come compagno solo un buon bicchiere di vino. Sarei finito come tanti vecchi alcolizzati senza nessuno. Quando ero soprappensiero la sua voce dolce giungeva alla mia mente ovattata. Alla luce del mattino ero di nuovo posseduto dal ricordo di lei. Le emozioni mi prendevano alla gola. Facevo un bel respiro per scacciare il freddo che avevo dentro. Nel cuore della notte piangevo come un bambino che ha paura del buio e implora il ritorno della luce. Avevo paura di chiudere gli occhi, paura che i ricordi mi portassero lontano. Avrei dovuto andarmene, togliere il disturbo, partire per qualche ignota destinazione. Dovevo distaccarmi da lei, prendere le distanze. Del resto ogni giorno perdiamo qualcuno che amiamo. Dobbiamo essere abituati ai distacchi. Perdiamo tutto persino la nostra madre forte e premurosa. Sotto il cuscino nascondevo un manuale di psicologia che mi indicava la strada migliore per accettare le perdite. Mi mettevo nella mani solide della scienza. Non potevo ignorare la fine di ogni cosa. La mia vita travagliata mi aveva tolto il brio ma ora la bellezza interiore di questa donna mi spingeva verso l’amorosa quiete della verità dell’amore. Lei con le sue qualità, anche nascoste, meritava tutti i riguardi, tutta la mia premura. L’amore era quindi per me un pericolo ma con rammarico pensavo a quante fanciulle innocenti non avevo amato sinceramente. Con impeto era come se vivessi con enfasi una seconda giovinezza. Mi sentivo gagliardo, fiero. A nutrimi d’amore provvedevo personalmente. L’amore era un forza potente che cresceva dentro di me, mi dominava, prescindeva dalle mie intenzioni ma nello stesso tempo non mi offriva ricompense. Intanto i creditori facevano scempio dei mie averi, come predatori. Circolavano strane notizie su ciò che stava per accadere. I pettegolezzi si rincorrevano come in un gioco bizzarro di specchi. I debiti della mia famiglia mi spingevano a impegnarmi anche degli oggetti. Mia zia non riusciva ad aiutarmi e nel frattempo ero andato a vivere da solo per un semplice desiderio di indipendenza. Volevo meditare nella solitudine di una casa tetra. Non volevo coinvolgere mia zia nelle questioni personali. Lei stessa non navigava nell’oro. Assecondavo il destino, non avevo ragioni per oppormi. Per la vergogna non mi facevo vedere in giro. La soluzione non era a portata di mano. Quando sarei uscito da quel tunnel avrei brindato, suonato le campane con sollievo. Dovevo solo stare calmo, essere previdente. In quel frangente mi sentivo allo sbando. Senza un minimo ripensamento decisi di troncare la mia collaborazione con la rivista e con lei, con Margherita. La mia era una strategia terrificante ma vincente. Non volevo più vivere giorni infernali. Successivamente mi si materializzarono davanti, come per incanto, altre proposte di collaborazione provenienti da altre riviste letterarie e culturali. Il destino toglie da una parte per compensarci da un’altra. Non tutti i mali vengono per nuocere. Avrei percorso altre strade, magari euforico per i riconoscimenti ottenuti. Con l’amore il destino aveva compiuto la sua terrificante vendetta. Con l’amore dovevo fare i conti e dovevo chiudere per sempre, non potevo tornare su i miei passi. Non avrei amato più in modo così completo, questo era certo. Nel mondo dell’amore ero un intruso e per il sentimento d’amore nutrivo un pizzico di odio, lui con me era scortese e brutale, sleale. Non volevo strisciare ai suoi piedi, chiedere la sua pietà, preferivo starmene in disparte, remissivo, sconfitto. Non potevo ingaggiare con lui una vera colluttazione, una vera battaglia. Mi divincolavo dalla sua stretta come un cavallo preso al laccio. Razionalmente non credevo nell’amore ma internamente sentivo il suo pulsare. L’amore aveva il suo scopo mirato: stanarmi, darmi la caccia. Nel disastro della mia vita mi assisteva con la sua forza. In quel momento particolare non vedevo altro che il volto di lei, che mi tentava come una sirena. Ero frastornato, non riuscivo ad esternare i miei sentimenti con nessuno. L’amore provato lo potevo però descrivere nei racconti, nelle poesie, niente sarebbe andato perduto. Il mio grido d’amore, le mie farneticazioni amorose trovavano spazio nei libri, nei romanzi, nei racconti che mi danzano davanti agli occhi. Alla fine dopo tanto cercare trovai un lavoro decente in una copisteria e riuscivo a mantenermi con i proventi del mio lavoro, con il sudore della mia fronte. Intanto avevo preso una stanza in affitto in un nuovo quartiere. Avevo messo piede in una nuova realtà. Il mio nuovo stile di vita era austero e sobrio. La gente della zona mostrava di accogliermi, sembrava di buon cuore. Nessuno era maleducato, nessuno mi beffeggiava o mortificava, nessuno aveva un atteggiamento scorretto. La mia rinuncia all’amore mi condizionava. Ero restio e a tratti sofferente. La notte dormivo male, il sonno era ancora agitato. Ero nervoso con il morale sotto i piedi. Vicino alla mia abitazione vi era un istituto di suore. Mi colpiva il loro volto placido, privo di preoccupazioni. Eppure il convento mi sembrava una prigione che nulla aveva in comune con la vita fuori, nel mondo. La vita per le suore invece sembrava una simpatica avventura. Per me era una nave in mare piena di falle. Ogni tanto, specie la sera, nel totale avvilimento sentivo il desiderio irresistibile di bussare alla loro porta soprattutto per saggiare la pienezza della loro fede, della loro piena solidarietà. Forse le suore si dedicavano all’assistenza solo per allontanare la noia del vivere. Non credevo troppo alla fede cieca. Molte suore di sicuro erano state spinte al noviziato da una delusione d’amore che aveva lasciato un vuoto, forse da uno stato depressivo, da un rancore incancellabile, da un consapevole rifiuto, da un’ infanzia mortificante, da un inaspettato ripensamento, da un crollo esistenziale, dalla voglia di compiacere un parente, un genitore, da un mancato ricongiungimento, dalla mancanza di una valida alternativa. Molte che si facevano monache in tarda età lo facevano perché sentivano il peso degli anni, e non volevano stare sole. Ero persuaso che le loro orazioni e preghiere non fossero totalmente sincere. Sentivo spesso da casa mia i loro battibecchi, i loro contrasti che non trasmettevano certo gratitudine e perdono. Il loro vociare aveva ripercussioni sul mio umore. Mentre lavoravo la sera, in modo quasi ripetitivo, pensavo che la provvidenza non esisteva. Ero un genio, avevo compreso che anche la religione era una pia illusione, come forse l’amore. Il convento avevo saputo che viveva anche di offerte gratuite e poi ricavava denaro dalla vendita di erbe curative, di sciroppi, che le suore facevano con le loro mani, di barattoli di miele e di marmellata. Le suore curavano nel giardino del convento alcune piante da frutto. Il loro lavoro paziente, agile dava germogli vigorosi e robusti. Le suore come vere amiche condividevano tutto, non solo il lavoro, ma anche sogni e speranze, progetti e distrazioni, silenzi e paure. Il pomeriggio mi giungeva il suono dolce dell’organo. Avevo affinato l’udito e riconoscevo subito le varie romanze e cantate. Il lavoro di alcune suore nell’orto era pesante e faticoso eppure le dirette interessate emanavano un calore dolce, che sembrava il calore della felicità. Le suore lavoratrici non si lamentavano mai. Non trovavano ripugnante fare lavori umili. Spesso nell’enorme silenzio della mia stanza mi sembrava di nuotare in un mare grigio, ricco solo di tesori di memorie. Loro invece cantavano felici in giardino. Alcune volte facevo delle passeggiate all’aria aperta, vagabondavo nei pressi del convento, in esplorazione. Mi allontanavo sempre in fretta e furia anche se sentivo dentro di me un invito irresistibile a bussare a quella porta, ad entrare in quel giardino aperto. La sera quando rincasavo sentivo il profumo invitante della loro cucina semplice che mi solleticava l’appetito. Avevano cura di tutto, dell’orto, della dispensa, del caminetto. Al pasto accoglievano anche orfani, barboni e bambini soli. Non capivo come facevano a fidarsi. Io non mi fidavo neppure di me stesso, dei miei abiti. Cercavo inutilmente di liberarmi dalla ossessione di entrare in quel convento. Forse entrando avrei capito come funzionavano certe cose, come era naturale per loro vivere quella vita in modo libero. Con espressione attenta avrei guardato come si prendevano cura delle anime. Avrei fatto distinzione fra le varie forme di assistenza. Avrei capito che non si possono possedere le persone come si possiede un qualsiasi altro oggetto. Forse mi avrebbero fornito lo spunto per qualche articolo o racconto. In fondo l’unica cosa che mi rimaneva era la scrittura. Scrivere per me era diventata una avventura piena di richiami che mi dava le vertigini. Siccome la notte avevo ancora terribili incubi, che non mi facevano dormire, decisi di andare a trovare la madre superiora del convento. Avevo bisogno di una buona confessione, di vuotare il sacco. Mi venne ad aprire lentamente una suora anziana. Il suo sorriso era commovente. Dopo la confessione, piena di parole incontrollate, ricevetti tutta una serie di ammonimenti da parte di una madre superiora impulsiva e battagliera. Non c’era rabbia nelle sue parole. Sembrava una madre premurosa che mi riserbava una cordiale accoglienza, facendomi però notare la mia condotta peccaminosa degna di biasimo. Io riflettevo senza neppure tentare una opaca difesa. Secondo lei il male lo avevo scelto volutamente, non avevo certo ceduto alla pressione di altri, avevo preferito lo scandalo alla carità cristiana. In questo modo avevo attirato su di me le forze del male. Sicuro, senza trepidazioni, avevo gustato il frutto proibito delle folli e turbolente feste. Per pura coincidenza, grazie alla buona sorte, potevo riprendere in mano la vita senza più tanti turbamenti. La predica era stata lunga ma non monotona. Altre suore avevano rincarato la dose. Alla fine mi avevano dato una benedizione. Per rimediare al male non dovevo ricorrere a un medico o a un guaritore, ma solo dovevo avventurarmi verso un nuovo stile di vita aperto alla salvezza di me stesso e degli altri. Senza peli sulla lingua mi facevano capire che dovevo recedere dalla mie posizioni e allontanarmi da quella mentalità che mi aveva rovinato la gioventù. Per tutta una serie di errori ero caduto fra le braccia del piacere perverso. Le suore non vedevano di buon occhio il mio essermi adagiato dentro una raffinata esistenza fatta di provocazioni e malizie. La particolare gentilezza delle suore era una attrazione irresistibile. Non mi avevano ricoperte di vere e proprie ingiurie, si erano limitate ad indicarmi il retto sentiero. Non era necessario che io fossi devoto, o credessi nel paradiso, era necessaria la mia conversione del cuore. Dovevo apertamente aiutare gli altri senza rimostranze. Ero stato audace ad entrare in quel convento come ospite ma la reazione delle suore era stata positiva. Mi aiutavano con il balsamo delle parole. Le parole alcune volte possono anche uccidere come proiettili vaganti. Tacitamente dentro di me stipulavo un patto con la mia anima, un patto che mi colpiva al cuore: avrei aiutato gli altri senza veli di tristezza e malinconia. La terapia che mi avrebbe consentito il recupero era eloquente, franca: aiutare il prossimo, calarmi nei suoi panni in ogni momento, tentare l’impossibile per accogliere gli altri e spezzare, sia pure per un minuto, la loro sovrumana solitudine. Concretamente avrei aggiunto un posto a tavola e avrei perdonato e così sarei stato perdonato. Sarei stato felice di chiedere aiuto e avrei aiutato con estrema padronanza. Sarei stato operoso e la tristezza, il sospetto sarebbero fuggiti via. Le mie parole sarebbero state confortanti, lecite, tenere sarebbero scese come polvere d’oro, accecante e sarebbero state assaporate da gente pronta a gettare la spugna, gente sventurata che si sentiva in colpa e che non vedeva l’ora di morire. Non avrei sbandierato il mio giuramento, il mio segreto fatale. Avrei celato a tutti l’essenza della mi missione. Non mi sarei mai lasciato andare, non avrei mai lasciato perdere. Anche le anime più afflitte, quelle incurabili avrei cercato di risollevare, perché era mio dovere in quanto essere umano. Nel mio essere uomo c’era tutta la spossatezza sfibrante del vivere ma anche l’incontenibile gioia di vedere gli altri sorridere lieti. La cattiveria, l’invidia, la brutalità, la crudeltà gratuita, la guerra non avevano spiegazioni. Avrei accolto i miei simili come si fa con figlio lontano, con frasi delicate e parole benevole, con un sorriso franco. Il mio animo era disposto a parlare di se stesso, con voce distinta senza più paura del giudizio altrui. Avrei recuperato il rapporto con alcune persone, con cui ero divenuto estraneo, e allontanato la solitudine che minacciava sempre di compromettere le amicizie. Non sarei più fuggito dagli altri, dalla folla per il piacere della solitudine, piena di rimpianti. Avrei accettato il dialogo anche concitato, anche pieno di ricordi. Le rinunce del passato non sarebbero state più un peso. Non avrei più rivissuto il passato con spasimo e passione, avrei cercato di cancellare i ricordi dolorosi. Avrei ricordato e conservato gelosamente nel mio cuore solo le esperienze positive. Il tempo e lo sforzo per rimediare non mi sarebbero mancati. Non ero più in altre parole destinato a fuggire in modo banale e ridicolo. Non avrei avuto più vie di fuga. A un certo punto fuggire mi sarebbe stato impossibile. Mi sarei avvicinato agli altri senza pretese e avrei sentito che solo loro erano la fonte del calore di cui avevo bisogno. Non avrei più scrollato le spalle davanti a qualche evento che coinvolgeva gli altri. Avrei mandato agli altri dei messaggi con i miei scritti, forse avrei scritto il romanzo della mia vita, in chiave poetica. Nel mio diario quotidiano avrei scritto frammenti della mia vita e di quella degli altri. Con gli scritti avrei educato, ammansito, represso, curato, sopportato, aiutato. Era l’unica arma che avevo, l’unico dono che dovevo sfruttare. Gli altri avevano altri doni. Nel diario avrei scritto la novella insipida della mia vita e a qualcuno il racconto sarebbe servito forse per tornare in sé. Non ero presuntuoso ma volevo di cuore che tutti avessero una vita rilassata, tranquilla e che non facessero i miei errori. Negli scritti non avrei usato ovviamente parole forti. Non ero ancora approdato alla fede in dio, ma sentivo dentro di me uno strano calore, sentivo la vittoria del mio spirito. Pallida e tremante la mia anima mi sospingeva verso l’abbandono veloce degli atteggiamenti cattivi. Ero coinvolto in nuovi progetti lavorativi che implicavano la scrittura. Scrivevo per la cronaca cittadina di un piccolo quotidiano locale. Scrivevo articoli densi di parole, corposi, che colpivano al cuore come una fucilata in pieno petto. Avevo varie mansioni, mi ero realizzato. Avevo ritrovato il bene perduto della scrittura. La mia vita spezzata aveva ripreso il suo corso. Confidando in me stesso, nella scrittura vivevo con uguale intensità lo stato d’animo degli altri. Giravo ma non mi portavo più dietro la stessa pena di sempre, la stessa fatica di esistere. Avrei accettato gli altri e avrei assistito alla loro rinascita. Non ero più un fantoccio in balia del destino ma un uomo completo con i suoi pregi e i suoi difetti, disposto a socializzare con tutti. Nel concorso della vita non avrei più temuto di arrivare tardi. Ero libero di affrontare qualsiasi rischio, di parlare agli altri senza più sguardi distratti, occhi bassi. Non ero più un uomo vile, dubbioso. Non avevo voglia di fermarmi, non sentivo infatti nemmeno un sottile stanchezza. Nell’aria tiepida della sera avrei salutato tutti con simpatia. La curiosità superficiale degli altri non avrebbe creato dentro me ferite insanabili come accadeva nel passato. Sarei vissuto in modo piacevole, senza nervosismi, rispettando me stesso e gli altri. Non si può odiare se stessi e riuscire ad amare gli altri. Avrei guardato il mondo, ascoltato il suo brusio con occhi pigri e sereni. Avrei accettato la morte, la sofferenza, la malattia con abbandono. In fondo c’è sempre una luce in fondo al tunnel. Ogni cosa che accade ha sempre un significato profondo. La mia anima aspettava solo la riconciliazione finale con il mondo. Riconciliazione che sarebbe passata anche attraverso la morte. La morte non esiste se sopravvive qualcosa di noi, se sopravvive il nostro buon cuore.

CONCLUSIONI FINALI

Spesso mi sono chiesto perché si sceglie volutamente la strada della perdizione. Persone intelligenti sono cadute irrimediabilmente nella trappola del male. Il male stritola fra i suoi tentacoli. Le conseguenze sono sempre letali, devastanti: molti membri della mia famiglia si sono perduti, la famiglia non ha avuto più eredi validi o non ha avuto più eredi. Le famiglie si dissolvono come polvere al vento, soppiantate da altre più serie. I cognomi ereditati non vengono trasmessi, per una specie di maledizione. Allora la domanda resta sospesa nell’aria: perché si sceglie la strada del male? Semplicemente perché è quella più breve, la scorciatoia, la scappatoia per la coscienza e per i suoi sensi di colpa, che vengono soffocati con l’euforia del successo immediato, con la gioia di attimi di pura spensieratezza, con il piacere effimero e intenso che prende i sensi. Solo in apparenza il successo del male sembra duraturo. All’inizio specialmente la via del male si presenta splendida, ricca di fiori multicolori, di canti, di musiche allegre, di riconoscimenti, di vittorie. Le persone perbene sembrano sconfitte, degne di derisione. La stima degli altri infonde coraggio e sicurezza al malvagio. Il viandante che percorre la strada del male si sente gratificato, viene rispettato, raccoglie nel passaggio frutti succulenti e dolci, naviga in acque tranquille dove niente può succedere. La dannazione dell’anima da alcuni non è considerata una calamità, anzi una prodezza. Più si è trasgressivi e più si ottiene il sorriso compiaciuto degli altri, che tendono a imitare il comportamento aggressivo. La strada del bene è lunga e faticosa, densa di ostacoli e di pericoli di ogni tipo. Per percorrere tale strada ci vuole coraggio, forza di volontà, fantasia, umiltà, onestà, abnegazione, intraprendenza, costanza, prudenza. Spesso coloro che seguono questa via, costretti a subire beffe, violenze, soprusi, insulti, ingiustizie e difficoltà immani dagli altri e dal destino, desistono. Alcuni tornano indietro avviliti e depressi. Gli indifferenti, gli audaci vengono premiati da tutti i tribunali sia terreni che celesti. I fanatici ottengono ciò a cui aspirano e diventano così più superbi. In realtà il premio delle proprie fatiche si ottiene quasi sempre alla fine del percorso. Nessuno sembra disposto ad aspettare per molto tempo. Con il tempo il proverbio cinese dice che vedremo passare il cadavere del nostro peggior nemico. A scoraggiare le persone di buona volontà contribuisce ovviamente la apparente fortuna degli spregiudicati, dei corrotti che con sfacciataggine inaudita ottengono tutto e subito, senza problemi e senza faticare più di tanto. Alla povera gente non rimane che tornare sui propri passi con la coda fra le gambe come un animale braccato. Invano gli onesti attendono un rivolgimento delle sorti, un cambiamento sostanziale del vento. Per anni tutto resta immutato, in una agghiacciante calma piatta che non lascia presagire nessuna tempesta. I malvagi non vengono puniti neppure nei tribunali terreni, anzi, cosa peggiore, premiati alla luce del sole. Gli onesti restano nell’ombra come burattini chiusi in un ripostiglio polveroso di un teatro. I burattini, che sono sempre in attesa di essere recuperati, restano nel buio fitto, senza scampo. Non ci sono vie d’uscita, spiragli di luce, solo una lunga notte piena solo di vaghe promesse di riscatto. E il più delle volte il riscatto, la rivincita non viene. La bussola della vita onesta segna sempre il nord, il freddo e il gelo dei ghiacciai del nord. Nessuna perturbazione sposta la lancetta della bussola verso altri lidi. Come se il tempo si fosse fermato gli onesti vedono il trionfo dei superbi, la loro realizzazione piena, completa, totale su tutti i fronti. I furbi giocano sporco e nessuno sembra vederli, sorprenderli, punirli, i disonesti hanno successo, stranamente su tutti i tavoli. Nessuno sembra notare la loro slealtà, la loro viltà. I disonesti sono disposti a vendersi pur di ottenere il successo, sono disposti a vendere gli onesti. In fondo si può ridere della gente umile, onesta, si può ridere della loro ingenuità e semplicità. Cosa hanno realizzato nella vita gli onesti? Per mantenere fede ai loro principi si sono lasciati sfuggire le occasioni più ghiotte. I loro stessi scrupoli li hanno perduti. In questo modo accade quindi che la via del peccato si riempie ogni giorno di una folla rumorosa e festante che spera sempre di farla franca. Per molto tempo il destino favorisce gli astuti che hanno così un futuro all’apparenza roseo e luminoso, quasi perfetto. Si tratta di una folla con qualità particolari come la furbizia, l’ipocrisia, la diplomazia, la grinta, la malizia, l’indifferenza, la astuzia, la malvagità, la aggressività, la mancanza di carità. Convinti di essere nel giusto, i furbi, proseguono imperterriti nel loro cammino deridendo gli onesti. I furbi agognano alla vittoria totale su tutti i fronti. Ottenuti i primi successi si sentono rinfrancati. Proseguono sulla strada del male superbi e tracotanti. Mentre per gli onesti la vittoria è un miraggio irraggiungibile loro, i furbi, ottengono risultati apprezzabili. Chi si impegna onestamente, in buona fede non ottiene nulla di concreto. Gli onesti alcune volte vengono derisi, considerati come persone di poco conto. Sopra il danno la beffa. Nella vita quotidiana spesso piove sul bagnato. La rovina dei superbi è invece in agguato come un male incurabile, come un cancro che cova dentro una persona bellissima, come il marcio che si trova dentro una mela deliziosa, rossa, di bell’aspetto. La rovina dei superbi non tarderà a venire, è solo una questione di tempo. Bisogna aspettare pazientemente, meticolosamente il crollo del potere superbo. Il potere degli uomini superbi spesso cade sotto le picconate del destino fatale. Di fronte alla disfatta i superbi tremano come agnellini. Nerone, che aveva accusato i cristiani dei roghi di Roma, venne stanato e colpito a morte. Di fronte alla sconfitta la storia racconta che Nerone piangeva come un bambino. Le sue parole di supplica non vennero ascoltate. Non venne risparmiato. Chi di spada ferisce di spada perisce. Lo stesso Adolf Hitler alla fine dovette cedere lo scettro del potere conquistato e rinunciare ai suoi sogni di gloria. Del suo potere non è rimasto nulla, nessuna strada è dedicata al dittatore nazista. Solo la sua crudeltà ha prodotto nel mondo un senso di orrore infinito. La guerra scatenata per la sete di potere ha solo generato vittime innocenti. Si tratta quasi sempre di un caso, di un imprevisto che provoca la disfatta, non solo materiale ma anche morale e spesso può essere solo una sconfitta morale. Ci sono infatti rimorsi, sensi di colpa, dolori dell’anima che tormentano per anni, che tolgono il sonno, la vitalità, che distruggono lo spirito, che fiaccano l’anima. Sono tarli interni che corrodono le certezze, che sgretolano le forze, che annientano i pensieri. Si può girare il mondo andare in Canada, in Australia e portarsi dietro le stesse ansie, le stesse colpe. Non c’è scampo al male di vivere. Ci sono famiglie superbe della ricchezza, del benessere che vanno in frantumi, cadono a pezzi perché i suoi componenti hanno pensato solo egoisticamente a godersi la vita. Le separazioni, le morti dei figli adolescenti per droga, per anoressia, sono tutti mali che forse, in certi casi, sono la conseguenza diretta dei nostri comportamenti scorretti. E’ vero che in molte situazioni il male sembra giungere in modo del tutto gratuito e senza aver fatto nulla ci ritroviamo nell’occhio del ciclone. Dobbiamo tuttavia pensare che la nostra strada segue un percorso già tracciato. In alcuni casi siamo dei predestinati. Ognuno nel mondo ha il suo ruolo da svolgere, il suo compito. Il male, la malattia possono riscattarci, possono redimerci, aiutarci a migliorare. Il male stesso non è inutile, come la nostra stessa vita che spesso trasciniamo a stento. Tutto ha un preciso senso solo che non comprendiamo pienamente il significato, forse lo capiremo con il tempo o in un’altra vita, più giusta, più limpida. Non serve nel male lamentarsi, portare fiori al cimitero, pregare nelle chiese vuote. L’indifferenza verso gli altri si trasforma nella indifferenza degli altri verso di noi. E’ come una lama a doppio taglio. Io avevo girato il mondo, avevo avuto relazioni con donne sposate, con ballerine senza farmi scrupolo e non avevo mai pensato a costruirmi una famiglia, convinto che fosse una istituzione superata, priva di senso. Quando abbiamo lusso e denaro pensiamo che possa durare eterno. Avevo condotto una vita ribelle ed ero stato punito nel modo peggiore. Ci ripugna pensare che il destino possa punirci. Nella punizione ci sono però alcune volte i germi del nostro cambiamento di rotta. Nella disperazione avevo cominciato a vivere del mio lavoro, a mettere ordine nel patrimonio paterno, a sistemare la mia stanza, il mio nido, a rispettare gli altri, a fare della beneficenza, a sentire dentro di me una fede nuova. Lentamente mi avviavo sciancato sul retto cammino. Il cambiamento mi aveva fatto sudare sangue. Nel frattempo mi ero unito a un gruppo di volontari e ci aiutavamo a vicenda in modo solidale. Esiste anche l’aiuto gratuito che non ambisce a ricompensa. Giovani volontari venivano in casa per aiutarmi. In passato invece avevo dovuto dare del denaro persino agli amici per ottenere dei favori. Ho imparato a poco a poco cosa significa amare veramente, senza ricevere nulla in cambio. Fisicamente potevo sembrare una larva umana ma moralmente ero rigenerato, rinnovato. Passavo giornate sane a scrivere, a leggere, in chiesa con i volontari, nel convento vicino. Ero impegnato nel sociale concretamente. Avevo tanti amici che prima non avevo, amici veri. Nella mia vita passata errabonda invece c’era spazio solo per me, ero cinico e presuntuoso. Ora mi riaccompagnavano a casa ragazzi del gruppo dei volontari, tutti disponibili, sorridenti, allegri, felici di vivere. Ho ritrovato la voglia di vivere. Tutti possono ritrovare la voglia di vivere, possono farcela se si convertono al bene. Ho assaporato, come fosse la prima volta. la bellezza di un fiore, che non avevo mai apprezzato pienamente, il profumo del pane appena sfornato, l’odore del cioccolato, della vaniglia, del cocco, il profumo del mare, la grandezza del creato, della natura. Prima vivevo senza vedere, ora vivo guardando. Ho riallacciato legami che avevo disciolto, rincontrato persone che avevo perso di vista o abbandonato. Ho cercato di dimenticare l’odio, i rancori, le gelosie. Ho cercato di cancellare l’abisso che mi aveva sempre tenuto distante dalle persone, dalle famiglie. Ho rinnegato la ricchezza con tutte le sue seduzioni. Sottrarre beni agli altri non giova. Le ricchezze non risparmiano il dolore, le disgrazie, anzi in alcuni casi le attirano. Voltare le spalle ai fratelli per inseguire sogni di ricchezza può essere rischioso, si può perdere la vita, si può perdere l’anima. In fondo chi si accontenta gode. La ricchezza accumulata per anni spesso non trova un erede, un discendente. Il destino che a un certo punto infierisce, ferisce, colpisce. La casa grande colma di specchi, tappeti, mobili antichi, di valore non ha eredi, forse perché non li merita. Ci sono ville ricche di mobilia, di arredi, di specchi pregiati, di quadri famosi che sono vuote e deserte di persone, che non vengono usate da nessuno. Con i soldi si può comprare tutto ma non l’amore, non la morte. L’amore va a braccetto con la morte, sono legati in modo indissolubile. Chi ama veramente non teme la morte, chi ama può morire per amore, perché l’amore sospinge verso l’eternità. L’anima innamorata sente sempre il profumo dell’immortalità, della eternità. Solo la morte ci allontana per sempre dai vizi, dalle lotte quotidiane, dalle guerre e dalle passioni e ci proietta in un’altra dimensione dove conta solo la nostra purezza interiore, la nostra anima, il bene che abbiamo fatto. Se fosse possibile molti ricchi e superbi si comprerebbero la morte. La morte purtroppo non ha un prezzo. Non basta pagare un riscatto per salvarsi dalle sue malefiche spire. Chi ama sul serio gli altri non muore mai, resta eternamente nel cuore, il suo nome resta scritto perennemente nel cielo. L’amore in fondo non muore mai, è vecchio quanto il mondo. Solo chi si affida ai beni terreni va incontro alla caducità. Ci sono valori eterni che non crollano mai: l’amore, l’onore, l’onestà, la patria, l’arte, il rispetto, l’educazione, la cultura. L’arte è eterna come l’amore, attraverso di lei si raggiunge l’immortalità come attraverso l’amore puro. Alla fine comprendiamo da soli, senza che nessuno ce lo dica, ce lo insegni che poche cose contano veramente. Nessuno potrà mai cancellare il valore di un’opera d’arte. Nessuno dimenticherà mai un artista. Così continuavo a scrivere nella speranza di tradurre in parole la mia interiorità arricchita dalle esperienze. Io cercavo solo di purificarmi attraverso l’arte. L’arte, come la morte, ci redime, ci purifica, ci rinnova, ci procura un abito nuovo, si fa tornare puri, ci libera dal peso del corpo, della materia e fa volare l’anima. Nell’ultima parte della mia vita volevo recuperare per sentirmi libero, leggero, sereno. La felicità non dipendeva più dal denaro, era uno stato interiore. Fino alla fine dei miei giorni avrei lottato per la luce della speranza, per la gioia della vita. Vivevo giorni sereni, migliori di quelli della gioventù. Anche la vecchiezza aveva i suoi pregi. Si può essere felici anche senza soldi, senza bellezza. Per me la felicità coincideva con la serenità interiore. La conquista del successo non portava da nessuna parte, e poi si arrivava sempre al punto in cui non si può conquistare più nulla perché davanti c’è solo il baratro. La serenità interiore raggiunta a caro prezzo mi aiutava a capire che si può anche perdere con dignità. Si può perdere la vita per gli altri, ma cosa è la nostra vita di fronte alla vastità dell’universo? Un granello di sabbia che si perde nel turbinio degli altri granelli. Spetta a noi dare un senso a quello che apparentemente senso non ha.

 

Ester Eroli

 

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