Capitolo terzo: Una nascita scomoda (Romanzo La strada più breve – di Ester Eroli)

Capitolo terzo Una nascita scomoda (Romanzo La strada più breve – di Ester Eroli)Cristina, l’amante di Vincenzo, viveva ogni giorno la strana emozione dell’amore, una fatale combinazione l’aveva spinta fra le braccia di quell’uomo dagli occhi di ghiaccio. Aspettava ogni giorno più curata l’arrivo del suo uomo. Indossava biancheria intima sopraffina fatta di seta leggera ricamata, di completi velati neri con risvolti lucidi, di autoreggenti rosse con ricami in oro. In fondo sono queste le cose che fanno girare la testa a un uomo, non certo la serietà, la bravura, la cultura, l’onore, il rispetto, il carattere. Una strana animazione la prendeva al momento dell’incontro. Fremeva come una cavalla legata. In fondo al cuore temeva di perdere il posto di amante fissa. Una qualsiasi smorfiosa, con i numeri giusti poteva soppiantarla. Il rischio era dietro l’angolo. Il suo uomo frequentava teatri, luoghi di ritrovo e poteva conoscere attrici, cantanti, duchesse e contesse. Gli uomini di potere sono monotoni, sono tutti uguali e vanno dietro alla bellezza giovane, dirompente senza guardare in faccia a nessuno. Per compiacerli bisogna essere sempre perfettamente in forma se no si perde terreno. Ci sono donne che ricorrono al chirurgo estetico per apparire sempre in forma. E’ una lotta spietata, dura quella contro il tempo, quella per accaparrarsi l’uomo potente di turno. Si fanno carte false per conoscerlo, per entrare nelle sue grazie. La storia si ripete ogni volta. Ai nostri giorni i politici dissipano denaro pubblico per viaggi e veline, che cercano di conquistarsi un posto al sole. A un certo punto non conta più niente, solo il successo e il divertimento fatto di sesso e denaro. L’anima lasciata a casa mentre si trascina stancamente la nottata. Il potere che tutto corrompe, che tutto travolge. Quando ci si risveglia dall’orgia è troppo tardi. Ci si ritrova per terra, sbandati, senza meta con il fiato sul collo, con la morte al seguito. Solo la morte interrompe l’orgia dei sensi. Orge peccaminose che corrodono l’anima dannata, dannata perché non ha mia fatto un briciolo di bene, non ha mai avuto pietà. Lasciare che gli altri muoiano sconfitti per trionfare nel lusso, lasciare che gli altri muoiano disoccupati e infelici. Non muovere un dito per salvare gli altri convinti di salvarsi. La morte non lascia scampo, non salva. Siamo nati nudi e senza corpo raggiungeremo l’aldilà. Lo scandalo dei nostri giorni è proprio la solitudine della morte. Tutti muoiono soli, senza nessuno. Anzi chi sta per morire si ecclissa, si nasconde come un animale ferito. Non si fa più vedere come se la morte dipendesse da lui. Dopo la morte nessuno ci ricorderà per le nostre turpi azioni. Le strade del mondo portano il nome di eroi che hanno sacrificato la propria vita per un ideale: Garibaldi, Aldo Moro. Le strade del futuro parleranno di altri eroi, saranno dedicate a altri personaggi non ai politici del momento, che pensano solo ai soldi. Non lasceranno traccia nella nostra storia, nel nostro cuore. Nessuno avrà un pensiero gentile per gente immonda, perversa, senza anima. Cristina voleva essere la protagonista assoluta del bel mondo, in realtà era solo una vittima. Da quando aveva incontrato gli occhi di quell’uomo non aveva più avuto pace. Un brivido ghiacciato le aveva percorso la schiena, le gambe avevano tremato, le mani erano state percorse da un fremito, una forte sudorazione le aveva imperlato la fronte. Non era più lei, non sapeva cosa dire, non riusciva più a pensare in modo logico, le parole degli altri erano solo suoni indistinti. Non era amore puro, era amor proprio. Orgoglio per essere stata prescelta fra tante, fra molte. Cercava di dominarsi, ma appariva confusa e impacciata. L’unica cosa sensata, che ogni tanto le veniva in mente, era che doveva fuggire prima che fosse troppo tardi. Voleva scappare per sottrarsi una buona volta a quella morsa stringente. Non aveva mai creduto seriamente ai colpi di fulmine, pensava che fossero presenti solo nei film e nei libri. E’ vero che c’è sempre una prima volta per tutto e non si può mai dire mai. Era forse una attrazione fisica, forte, irresistibile che le procurava vertigini. Non era più se stessa, aveva perso il dominio di sé, era diventata un automa, viveva in funzione di lui. Sperava ardentemente che lui non si fosse accorto completamente delle sue emozioni. Cercava di mascherare il più possibile il suo turbamento, i suoi cambiamenti di umore. I suoi occhi magnetici, il suo sorriso rassicurante stavano sempre davanti ai suoi occhi. Lui inspirava fiducia, all’apparenza sembrava tenero, affettuoso, disponibile come un gatto morbido che si fa accarezzare senza fare storie. Lei ignorava che dietro la maschera di un uomo c’è sempre in agguato il veleno dolce che uccide. Gli uomini non risparmiano il veleno alle donne. Sembrava un tipo malleabile, cortese, gentile, ragionevole. Invece all’occorrenza poteva trasformarsi in una belva sanguinaria, come tutti gli uomini, che colti sul fatto, possono diventare feroci, possono diventare assassini. I modi di Vincenzo erano impeccabili, il suo linguaggio corretto. Parlare con lui le dava forza, le infondeva coraggio, non era sola. Leggeri capogiri, ronzii alle orecchie caratterizzavano l’attesa del suo arrivo. Il tempo le sembrava un’eternità. Traeva un sospiro di sollievo solo quando incontrava i suoi occhi ardenti. Non solo entrava nei suoi pensieri quando meno se lo aspettava ma disturbava il suo sonno, rendendolo inquieto. Era entrato prepotentemente nel suo animo, l’aveva stregata. Quale potere aveva per ammaliarla così? Sicuramente era il modo come si proponeva: ben vestito, curato, profumato. Lo sognava sempre ben vestito che la baciava e la abbracciava. Dopo certi sogni si svegliava allarmata, con profondi sensi di colpa. Doveva bloccare quella furia travolgente, ricorrere a degli espedienti. Cercava durante il giorno di stare occupata per non pensare a quel chiodo fisso. Certe volte pensava che l’amore vero appartiene solo alle persone potenti, belle, ricche per la gente comune l’amore si trasforma in sofferenza. Bastava guardare le riviste per rendersene conto. Le attrici più belle stavano al fianco di uomini forti, potenti come calciatori, politici, imprenditori. Si convinceva che la bellezza sposandosi con il denaro dava i suoi frutti migliori. Infatti i figli di queste coppie avrebbero avuto prestigio, dignità, anche se non valevano niente. Quale destino invece sarebbe toccato ai suoi figli? Magari avrebbero dovuto fare a vita i camerieri presso famiglie nobili. Una vita costellata solo di sacrifici, di rinunce. Ci sono persone che con i soldi che guadagnano a malapena riescono a sopravvivere. Come possono allevare la prole? I figli del benessere economico hanno poi delle esigenze che, se si è indigenti, sono difficili da soddisfare I figli senza giocattoli di marca, senza moto sono figli infelici, diversi. Un figlio grava sul bilancio familiare, rappresenta un enorme costo. Far nascere un bambino e costringerlo da subito a una vita di stenti e rinunce è doloroso. Perché far soffrire un essere umano? Possiamo rinunciare noi a certe cose ma non obbligare gli altri a farlo. Ci sono oggetti che non si possono comprare perché troppo costosi, eppure c’è gente che li acquista. La discriminazione vissuta sulla pelle, come un marchio. Ci si deve accontentare di oggetti di secondo ordine, non raffinati. La gente abituata nel lusso che guarda dall’alto in basso, che snobba, come se fosse una colpa essere nati in una famiglia mediocre. Gli sguardi di superiorità ci fanno sentire un verme. E’ una sensazione di nullità che schiaccia. Mentre alcuni sono nati per soffrire, altri vivono la vita come una straordinaria avventura adottando la tecnica del carpe diem. Cristina inoltre notava che erano proprio le persone fanatiche quella che avevano maggior successo. I miti erano sempre perdenti. Vincenzo apparteneva alla schiera degli eletti. Era consapevole di avere un ascendente sulle donne e lo sfruttava abilmente. Non era innamorato di lei, di Cristina, ma solo incuriosito, lusingato. Invece lei qualcosa provava e i suoi occhi parlavano da soli. Lei aveva scambiato le sue attenzioni, i complimenti, per un vero interesse, un vero attaccamento. La sua insistenza la rassicurava. Poteva avere molte donne ma preferiva dedicare a lei il suo tempo. La coccolava, la cullava, la curava con uno sguardo carezzevole, caldo. Cristina non aveva capito che gli uomini per conquistare una preda ambita cominciano sempre con parole suadenti. Quando una donna è in trappola gli uomini dicono abilmente ti amo per convincere di più. Il ti amo detto tanto per dire che diventa inganno. Gli uomini raccontano poi bugie per farsi più grandi, per aumentare la loro importanza, per coprire il loro passato. Non raccontano mai la loro vita privata, le loro storie passate. La loro anima resta un mistero insondabile. Ogni volta che si cerca di penetrare nel loro intimo si resta bloccati nel limbo del nulla fatto di nebbia Prendono l’anima ma la loro la tengono gelosamente custodita. Per raggiungere i loro obiettivi ambiziosi fanno enormi sacrifici. Sono ambiziosi, presuntuosi e ovviamente non sopportano le donne colte che gli tengono testa. Cristina non voleva accontentarsi delle briciole, di un ruolo mediocre di semplice comparsa. Lei voleva il cuore del suo uomo. Più comunque lo vedeva e più si convinceva delle sue ottime qualità. Si limitava a credere a tutto quello che diceva, senza mettere in discussione niente. Non scavava nel profondo per capire quelle frasi sibilline di lui che avrebbero dovuto farla riflettere. Nei messaggi, nelle parole c’erano tracce da captare, da non lasciare al vento. La sua cultura, la sua posizione con il tempo l’avrebbe schiacciata. La sua conoscenza del mondo si sarebbe scontrata con la totale ignoranza di lei. Intanto la storia andava avanti e lei non sapeva come fermare il tempo. Tutto correva velocemente e non c’era tempo per riflettere. I giorni in compagnia di lui erano lieti e allegri. Non si poneva mai il problema del futuro. Non sapeva cosa la attendeva concretamente, ma di lui non aveva paura. Viveva quello splendido sentimento, mai provato prima, giorno per giorno con i brividi sulla schiena, in uno stato comatoso di trance. Si sentiva euforica, toccava il cielo in volo come una piuma leggera. Non aveva pensieri malinconici perché era stata trafitta da un raggio di sole. Godeva della luce come si gode di un sogno a occhi aperti. Era dolce e voluttuoso abbandonarsi a quelle speciali sensazioni. Le bastava accarezzare la sua pelle, i suoi capelli, sentire la sua voce, i suoi passi avvicinarsi. Finalmente aveva qualcuno su cui contare, era la prima volta. Non sarebbe più stata una foglia al vento, aveva il suo punto di riferimento. Si riteneva tutto sommato una donna fortunata, aveva un uomo che rispondeva perfettamente al suo ideale. Per anni aveva sognato un uomo del genere. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a lui. Al pensiero di perderlo si sentiva mancare. L’avrebbe perso solo per forza maggiore. Si fidava ciecamente di lui, gli confidava tutto anche particolari intimi. Lui sembrava comprendere, trovava sempre le parole giuste da dire in ogni situazione. La confortava quando qualcosa andava storto, le indicava il giusto cammino. Lei si lasciava plasmare come creta fresca, obbediva come un automa. Era come se lui fosse il suo alter ego. La sua personalità non esisteva più, annullata in quella di lui. Lui rappresentava quello che sarebbe stata lei se fosse nata uomo. Lei aveva uniformato il suo modo di pensare, di fare a quello di lui. Usava lo stesso linguaggio, le stesse parole di lui e si comportava come lui. Camminava persino come lui. Era orgogliosa di lui, così maturo, così assennato. Lui ci sapeva fare, in poco tempo l’aveva annientata, conquistata. Era un burattino nelle sue mani pronta a gettarsi nella brace ardente. La passione la trascinava nella corrente del peccato e lei non opponeva resistenza. Lui in fondo al suo cuore invece era cinico: la pensava maledettamente bella ma una creatura senza doti, senza arte né parte, senza cultura. Era solo una perla rara da collezione. Il suo cognome altisonante, pieno di fasto, non poteva abbassarsi troppo con creature semplici. Nel suo mondo così complicato non c’era posto per gente troppo comune. Spesso Vincenzo riprendeva Cristina su alcune cose in modo autoritario e violento, cavillando su questioni banali. Quando incontrava persone di riguardo le imponeva di tacere perché avrebbe fatto immancabilmente una pessima figura. Era l’ombra di un uomo che non la stimava. Cristiana aveva il ruolo di amante senza futuro. Lui la considerava una bella sirena. Con il tempo cominciò a divenire freddo e sarcastico. Lei per ricondurlo sul retto cammino continuava a indossare vestiti attillati, tacchi alti, camicette trasparenti che mettevano il seno in risalto, a truccarsi in modo sfrontato. Lei pensava che gli uomini avrebbero guardato di una donna anche altri aspetti come il carattere, il modo di parlare, di gestire. Non sapeva che gli uomini guardano il corpo, la bocca, le gambe, il seno, non certo l’anima. La loro anima vuota e desolata cerca solo corpi. La loro più grande soddisfazione è quella di portare una donna al letto, non importa che sia la moglie del loro migliore amico. Nel gioco folle della seduzione non ci sono regole morali. Le donne sono solo pallidi fantasmi utili per attimi di pura libidine. Eppure ogni tanto si incontra un uomo sensibile, ma sono rari come le mosche bianche. Ogni donna è curiosa, vorrebbe conoscere gli uomini alla perfezione, sapere cosa pensano, quali sono i loro principali interessi, sapere se sospirano d’amore anche loro. Davanti alle donne c’è un universo fatto di uomini da scoprire, conoscere, sperimentare. Alla fine però le donne si ritrovano sempre sole in un angolo di una stanza, in attesa di qualcuno che le inviti a ballare la danza della vita. Cosa che accade raramente perché gli uomini sono al settimo cielo quando amano solo se stessi o quando si litigano le ragazze più belle. I discorsi degli uomini sono sempre gli stessi: sport, calcio, politica, donne prosperose. Le donne parlano solo di profumi, trucchi, borse, scarpe accessori con cui credono di irretire gli uomini, che invece passano il tempo a desiderare e guardare le donne altrui. Certi uomini sono morbosi, assatanati, collezionisti di avventure e per questo che alcuni padri di figlie femmine si mostrano severi. Temono che gli uomini facciano scempio anche del cuore delle figlie. Le uniche che non hanno problemi sono le donne brutte, che vengono discriminate. Ma Cristina era una creatura di rara bellezza, che curava il suo aspetto in modo maniacale. Tutto quel tempo sprecato, ore davanti allo specchio quando avrebbe potuto fare altro. A un certo punto la sua bellezza cominciò a mutare. Aveva il ventre gonfio, la faccia smunta e pallida, lo stomaco rivoltato. Lui la rimproverava per questo, la accusava di non avere più la pelle vellutata come in passato. Spesso le comprava cosmetici lussuosi e oli vegetali, balsami per la pelle. Lei aveva uno sguardo celestiale, perso nel vuoto e la mano sempre sulla bocca a causa dei conati di vomito. La sua bellezza era divenuta pienezza, solo che lui non l’apprezzava più. Lui la vedeva come una trasandata casalinga senza più sexy appeal. Cristina si era cacciata in un grosso pasticcio che non era più in grado di gestire. I giorni futuri, lei non lo sapeva, sarebbero stati giorni di fuoco, terribili come un’agonia. Di solito si sentiva il ghiaccio addosso, non dormiva la notte, mangiava poco e male. Si sentiva un malessere strano, uno sfinimento, un languore fatto di paure. Con raccapriccio, in una scrupolosa seduta davanti allo specchio, aveva notato che era ingrassata. Alcuni abiti sfarzosi non le entravano più e Vincenzo era contrariato. Il giro vita cedeva come un terreno franoso sotto la pioggia grigia e battente, continua. Il seno stesso appariva flaccido e gonfio, pieno di bozzi. Alcune volte quando lui lo toccava le faceva male, solo che non poteva dirlo a lui. Le donne imparano assai presto che certe cose agli uomini non vanno dette. Una donna malata non può parlare liberamente dei propri dolori. Gli uomini vogliono discorsi spensierati, liberi, non vogliono essere afflitti da discorsi pesanti. Cristina vedeva Vincenzo scostante, lontano e allora decise di affrontarlo in un colloquio chiarificatore che non sortì alcun effetto. Lui era cinico, spietato, aveva lo sguardo duro fisso davanti a sé. Aveva una faccia da fariseo. Era impassibile, la sua faccia tosta faceva paura. Il comportamento molle e arrendevole di Cristina irritavano l’amante. Lui la voleva più energica. Ma lei stava male, aveva capogiri, dolori ai reni. A un certo punto Cristina comprese di essere incinta. Per lei fu un fulmine a ciel sereno, una gioia intima la invase, un senso di benessere. La voce stessa divenne più sensuale, quasi materna. Pensava già alla faccia che avrebbe fatto Vicenzo alla notizia. Avrebbero visto nascere il frutto del loro amore. Ma Vincenzo non la prese bene. Si irritò a tal punto che la prima volta scappò sbattendo la porta. Non voleva discutere con quella vile opportunista che voleva solo farsi una posizione sulle sue spalle e non aveva nemmeno stoffa. Aveva approfittato della sua buona fede e l’aveva sedotto con lo scopo di diventare una vera signora, ma non lo sarebbe mai stata, mancava di classe, di carattere. In fondo non valeva niente, lui si era solo confuso. Cristina non aveva una posizione nella scala sociale e pensava giustamente di incastrarlo con un figlio. Non aveva grinta, non era nessuno, non avrebbe mai combinato niente nella vita. In poco tempo Cristina stava perdendo terreno. Eppure lei si sentiva un essere umano, una madre che aveva diritto a vivere come gli altri. Ora portava in grembo un altro essere che chiedeva rispetto. Era un essere innocente, che non aveva chiesto di venire al mondo. Per un attimo di distrazione Cristina era fuori gioco. Nella sua caduta rovinosa aveva coinvolto altri esseri e questo non se lo poteva perdonare. Un giorno suo figlio disperato gli avrebbe urlato con tutto il fiato: perché mi hai fatto nascere? La vita di una ragazza madre non è mai agevole. Vincenzo le propose di sbarazzarsi di quell’ingombro inutile. Ma lei lo sentiva già avvinghiato alle sue viscere, lo sentiva crescere dentro di sé, le dava forza. Senza di lui forse si sarebbe suicidata, visto che l’amore tanto sognato non c’era. Anzi grazie al bambino aveva scoperto la natura dei sentimenti del suo amato. Lei doveva vivere per garantire un futuro al suo bimbo, quel futuro che a lei era stato negato. Prese da sola la decisione di farlo nascere, in fondo era l’unica cosa al mondo che aveva ed era solo sua. Vincenzo manifestò la sua opinione, per evitare lo scandalo, era necessaria l’interruzione di gravidanza. La coscienza non gli rimordeva. Lei tirò fuori quella grinta che non credeva di avere. Andò avanti con fede e coraggio, imperterrita. Doveva lavorare su se stessa, prendere il fegato tra le mani e lottare come un guerriero vichingo. Le venne il coraggio della disperazione. Una sera dolce di settembre, al tramonto non attese dietro le tende ricamate l’arrivo del suo caro amore. Aveva preparato la fuga con cura, fatto tutte le valigie, presi solo pochi ricordi, un rosario dei tempi del collegio, un fiore appassito nascosto in un libro, un libro dalle pagine ingiallite. Non portò con sé niente che le ricordasse l’amore. Nell’appartamento lasciò vestiti, gioielli, nella nuova vita non servivano orpelli, ma solo immenso amore. Cristina fuggì con il treno al nord, ospite di una signora che lei in passato aveva chiamato affettuosamente zia. Si sistemò a casa di lei e visse con lei per lungo tempo, godendo del suo appoggio e della sua amicizia. Aveva bisogno solo di conforto. Come era potuto accadere? Lei una brava ragazza era divenuta una scostumata, una sgualdrina. Agli occhi della gente lei era colpevole. Molti, nel nuovo quartiere, la additavano, la evitavano. Molti cambiavano strada, non la salutavano. Preferiva ovviamente le persone sincere, quelle che parlavano in faccia non alle spalle. Alcuni invece le facevano buon viso ma poi la tradivano. Ai giorni nostri è diverso, sono proprio le ragazze facili ad essere più ammirate. Le voci circolavano. Fu così che cominciò a lavorare in una birreria. Solo sul lavoro trovò un po’ di solidarietà. I colleghi la aiutavano di nascosto, dandole regali e vestiti per il corredo del piccolo. Trovò molta gente disponibile e scoprì la bontà d’animo. Anche le parrocchie della zona si prodigarono per aiutarla. Aveva un bisogno disperato di punti di riferimento. Nella vita tutti noi abbiamo bisogno di appigli, di luci da seguire e quando non ci sono dobbiamo inventarli per sopravvivere. Intanto il corpo era diventato più rotondo e la pelle del viso era più levigata. Tuttavia c’era un’ombra scura nei suoi occhi. Sapeva di aver collezionato solo perdite, solo disfatte. Le difficoltà erano troppo elevate e la sua strada era solitaria, incerta. Rimandava il pensiero del domani. Non aveva sufficiente determinazione, alcuni giorni mancava di forza psicologica. Non riusciva ad accettare serenamente il fallimento. Aveva, come tutti, il terrore della disfatta. Trovava mille scuse, inventava bugie per tenersi a galla. Doveva attuare un processo di salvamento per salvare la faccia. Di giorno era credibile, diceva a tutti che il suo fidanzato era morto da partigiano lasciandola nei pasticci. Ogni tanto di notte, quando il sonno tardava a stendere un velo pietoso sugli smacchi giornalieri, le bugie dette le si paravano davanti sarcastiche. Capiva che non era salvifico mentire agli altri e a se stessa. Doveva riconoscere umanamente la sua sconfitta, accettarsi senza il timore di venire derisa, di sentirsi una nullità. Doveva imparare a mettere a frutto l’energia della perdita, dell’abbandono, della sconfitta. Doveva trasformare la disfatta in trionfo. Da un fatto negativo poteva scaturire la tranquillità. Ormai si stava trasformando, la sua bellezza sfumava verso un punto morto dove gli uomini l’avrebbero respinta. Si documentava ogni giorno con libri, film. Voleva sapere avidamente tutto quello che c’era da sapere per essere madre. Senza sapere che madri si diventa in modo naturale. Non si sono regole precise. Ci sono persone che non sono adatte ad essere madri. Non hanno il coraggio sufficiente per dare la vita. Sono talmente vili che non se la sentono di mettere al mondo un essere destinato anch’esso alla morte, al male, alla tomba. Non hanno rielaborato il loro dolore e non sanno godersi la gioia di un attimo di vita, di un attimo di respiro nuovo. Non mettono a repentaglio la loro vita per dare respiro a un essere comunque mortale. Vogliono rompere la catena delle speranze vuote e degli inganni. Sono talmente disperate che non vedono spiragli di luce in una società votata alla morte. Intorno a loro c’è tanto degrado che non osano alzare gli occhi al cielo. Tanta corruzione, povertà, malanimo non aiutano a fare una scelta di vita. Certe persone non sopportano la condanna che deve subire l’umanità: la solitudine della morte. Cristina in cuor suo si augurava che fosse un maschio. Non voleva una bimba, non voleva che soffrisse come lei, che avesse dei complessi, che fosse uno squallido oggetto di piacere. Un ragazzo sarebbe stato più libero, libero di fare tardi la sera, di frequentare persone, libero di esprimere opinioni e di combattere, libero di difendersi. Crescere un figlio senza padre, con pochi soldi era un’idea che la spaventava a morte. Poteva contare solo sull’appoggio economico della zia e sui suoi miseri stipendi di commessa nel locale. Con il tempo si chiuse sempre più in se stessa, persa la bellezza fresca, aveva perso l’orgoglio. Vedeva adesso aggirarsi per le strade giovinette adolescenti con la faccia spavalda, l’aria sfrontata. La guardavano con un senso di sfida, di superiorità, ostentavano la loro bellezza in modo sfacciato, disinvolto. Vestivano in modo provocante, discinto per farsi notare. Erano povere creature idiote. Non sapevano che anche per loro sarebbe giunta la maturità e con essa la fine del dominio, del potere della bellezza, la fine dei sogni. Anche l’uomo più innamorato con il tempo avrebbe preso le distanze da loro, in cerca di bellezze più acerbe. Sarebbero state tradite anche solo con il pensiero. Usciva sempre più di rado per non incontrare sguardi superbi, facce antipatiche, specie di donna. Le donne erano più spietate. La solidarietà femminile esisteva sulla carta. Le donne fra loro si invidiavano, si odiavano. Bastava che lei avesse un abito più elegante del loro per essere guardata male. Certe donne si accanivano a perseguitarla in molti modi. Alcune erano veramente diaboliche, meschine. Il loro comportamento insano faceva paura. Infierivano su di lei, le facevano dei dispetti, la escludevano volutamente dai discorsi, dalle feste, dai giochi di paese. Per invidia la maltrattavano le dicevano frasi pungenti, volgari. Sparlavano ripetutamente alle sue spalle, inventando storie su di lei non vere. In fondo erano invidiose del suo seno ancora prosperoso, dei sui capelli voluminosi, delle sue mani, dei suoi occhi simili a stelle. Lei evitava pettegolezzi, chiacchiere e passava il tempo a piangere chiusa in una stanza. Faceva la vita di una reclusa. La colpiva soprattutto la cattiveria della gente. Molti erano capaci di gioire delle sconfitte degli altri, con occhi ironici osservavano la fine dei sogni degli altri. Si divertivano a vedere gli altri cadere. Alcune persone per non essere smaccate non raccontavano più le proprie debolezze. Anche la malattia, la povertà erano giudicate come una condanna. La povertà come la malattia era una colpa. Nessuno osava parlare apertamente dei propri crucci. Chi era sul punto di morire si nascondeva nella sua tana come un animale. Molti animali hanno il vizio di sparire quando sono prossimi alla morte. Nella morte c’è come un senso di pudore. Bisogna andare via in punta di piedi senza dar fastidio a nessuno. Nessuno ci ricorderà, ci penserà preso dagli impegni del giorno. La natura si riprende la sua rivincita e lascia alla morte campo libero, non si oppone. Meglio essere come gli animali che godono della natura senza percepire angosce davanti al baratro della morte. La morte ha il suo ruolo salvifico se illuminata dalla luce della fede. La fede di Cristina vacillava, non era profonda. Era fatta di gesti esteriori, di segni di croce con l’acqua santa, di preghiere leggere, ma nel profondo credeva solo a ciò che toccava. La vita nel lusso le aveva fatto dimenticare di avere un’anima. Era un fenomeno diffuso. L’anima non la curava, la fede non la coltivava. Restava, la sua fede, una piantina nana, un fiore sul punto di sbocciare che moriva al sole. Alcune sere si addormentava senza pregare volutamente. Aveva verso dio un risentimento, un malanimo. Dio in fondo le aveva voltato le spalle, non aveva guardato dalla sua parte. Lei del resto non aveva trasgredito ai comandamenti di Dio. Era caduta nel fango e pretendeva la salvezza. Certe cose bisogna meritarsele sul campo. I discorsi della gente la annoiavano. Infatti le persone nei discorsi o esaltavano la propria posizione o denigravano gli altri. Non c’era dialogo. Il Dialogo era solo un botta e risposta condotto sul filo del veleno invidioso. Si attaccava l’avversario su tutto, persino sul modo come portava i capelli. Gli altri erano solo potenziali rivali, nemici da abbattere. Con i parenti i rapporti erano più tesi perché, per ragioni di eredità,l’invidia era maggiore. Doveva essere punita in quanto era una peccatrice. Eppure tanti peccatori perbene giravano illesi e nessuno osava toccarli. L’ingiustizia sociale le appariva in tutta la sua crudezza. L’unico peccato che aveva commesso era quello di aver creduto alle parole di un bell’uomo. Era stata avventata, si era legata a un uomo sposato, calcolatore, benestante. Allora l’amore non esisteva. Esisteva solo quel figlio che le sarebbe appartenuto totalmente. Non si può rifiutare un figlio, anche se suo padre l’aveva fatto. Quella di avere un figlio tutto per sé è un’altra illusione. Vedeva tanta gente anziana lasciata sola, negli ospizi, abbandonata da figli distratti e ingrati. I figli maschi erano i peggiori, una volta sposati sparivano per far parte solo della famiglia della moglie. Molti figli maschi non si curavano più dei genitori. Il fiocco azzurro affisso nel portone e riposto in un cassetto con il tempo, nel cuore delle mamme soprattutto, era divenuto celeste pallido. Si era scolorito, aveva perso smalto, vitalità. C’erano occhi di madre che si era chiusi per sempre senza aver rivisto i figli, specie maschi, senza aver conosciuto i nipoti. C’erano famiglie che si erano spaccate, divise per colpa di gelosie fra cognate, mogli di figli maschi. Forse era meglio avere una bambina. I padri mostrano sempre un attaccamento morboso nei confronti delle femmine. La natura spinge ogni uomo ad avere un debole per le figlie femmine. Le bambine per ogni padre sono adorabili, irresistibili. Anche le bimbe hanno una predilezione per il proprio padre, ne sono gelose. Il problema cruciale è che lei odiava il padre del bimbo. In alcuni momenti odiava tutto di lui compreso quel fagotto che aveva sul cuore. Alcuni giorni pensava di liberarsene ingerendo un potente rimedio. Molti erano i medici compiacenti che praticavano aborti clandestini in cambio di denaro. Anche nella professione medica c’erano gli avvoltoi, coloro che non facevano il proprio dovere. In sostanza non c’era nessuno di cui potersi fidare. Intorno c’era una giungla piena di ferro spinato ad alta tensione. La vita era un deserto di solitudine, una landa desolata dove gli amici erano rari, i parenti pochi e la fatica tanta. Si lottava ogni giorno per un tozzo di pane con la speranza di una salvezza. Solo la speranza manteneva in vita il cuore, ma con il tempo si spegneva come un lumino in chiesa. Solo nell’amicizia poteva trovare conforto. Mentre l’amore sfuma, passa, si rendeva conto che l’amicizia poteva essere eterna, durare nel tempo, occupare lo spazio dei giorni. Della vita odiava soprattutto la solitudine della morte. Quel silenzio finale, atroce e gelido come uno sputo in faccia. Le amicizie fornivano solo pretesti per vivere. Doveva vivere per loro, per gli amici. Quanti erano gli amici sinceri? Le donne fingevano amicizia poi nel profondo erano rivali e invidiose, maligne. Ma invidiose di cosa? Erano invidiose, malevole anche quelle che avevano tutto, ma allora perché invidiavano? Se loro avevano una famiglia, una casa ben messa, ricca di arredi, un lavoro, un marito fedele, figli esemplari non avevano certo bisogno di guardare al giardino spoglio degli altri. Allora perché tanto veleno? Veleno che si traduceva in comportamenti offensivi. Allora era solo invidia per un sorriso bello, per i denti perfetti, per un vestito nuovo. Invidiare poche cose quando si possiede il mondo. L’invidia è uno dei peggiori vizi capitali, perché porta a fare il male, a comportamenti lesivi, omissivi anche gravi. Si cerca di boicottare il lavoro degli altri, di screditare gli altri, di infierire, di rubare, di tradire. L’oggetto della nostra invidia viene fatto a pezzi. L’invidia è corrosiva, distruttiva, rapace come un’aquila in volo. Nessuno pensa che su questa terra siamo solo di passaggio e l’unione farebbe la nostra forza. Soli non si va da nessuna parte. Certe donne altere preferivano stare sole nel loro regno dorato piuttosto che uscire e parlare con lei. Alcune di esse erano morte di vecchiaia lasciando tante parole non dette vagare per le strade deserte del paese. Le parole non dette alle persone, specie a quelle che amiamo, diventano pesanti, diventano sensi di colpa, porte chiuse, dolori atroci quando non si possono più dire perché resterebbero inascoltate. Era arrivata alla conclusione che non poteva trovare amiche sincere, ma anche l’amicizia con gli uomini era compromessa. Parlare troppo con un uomo equivaleva a dargli carta bianca, a illuderlo, a fargli credere che lei era disponibile. L’amicizia con gli uomini racchiudeva le sue insidie, poteva essere pericolosa. C’erano donne che erano state uccise, picchiate per aver giocato con il fuoco. Certi uomini se si sentono traditi hanno comportamenti bestiali. Doveva trovare in se stessa il segreto per vivere, la ricetta della felicità. Per molti la felicità era la bellezza ottenuta a ogni costo, il sesso, il denaro, per lei era la calma interiore. Per raggiungere la calma interiore doveva trovare una soluzione. Scrivendo la sera sul suo diario personale, catturata dalla magia della scrittura, si metteva a pensare alla realtà della vita avvolta nel mistero. La vita era un viaggio affascinate e misterioso solo per le persone fortunate. Per gli altri come lei era una angusta valle solitaria dove vibrava un sole malinconico che non riscaldava. La sua vita sarebbe stata polverizzata dalla solitudine. Finalmente comprese quale era l’atteggiamento da adottare. La soluzione le arrivò una sera mentre era curva sul diario dopo lo scempio della sua anima causato da alcuni rimproveri: doveva sempre apparire in perfetta forma, gioviale, con il volto impassibile. Il suo punto di forza sarebbe stato quel suo atteggiamento apparentemente rilassato. Doveva dare l’immagine di una persona felice. Mentre dentro sarebbe morta di dolore, fuori non doveva trasparire nulla. Nella sua stanza di notte avrebbe pianto lacrime amare, ma nessuno l’avrebbe vista. Di giorno sarebbe stata splendente, vitale, pronta al lavoro, grintosa come una pantera, di notte avrebbe dato libero sfogo al suo dolore nascosto. Avrebbe recitato la parte della persona felice, non sarebbe stata la sola. Quante donne si trascinavano all’interno di un matrimonio fallito fingendo affetto e comprensione. Quanti uomini conducevano una doppia vita ingannando e mentendo. Se si voleva salvare almeno moralmente doveva mettere da parte le lacrime e rivestirsi di una potenza nuova, micidiale, incredibile. Il cuore si sarebbe risollevato, avrebbe trovato nuova energia. Si era persa ma avrebbe ritrovato la strada. Gli altri, che non avevano compassione di lei,, pietà, mai l’avrebbero vista abbattuta. Lei ora era responsabile di un’altra persona, questo non doveva dimenticarlo. Non aveva una posizione sociale ma il sorriso era il suo unico modo di comunicare. Doveva attingere alla forza dei suoi antenati. La sua era una stirpe forte. La burocrazia, le malvagità non avrebbero spento più il suo entusiasmo. Si era rigenerata da sola. Non si sentiva più inferiore agli uomini. Gli uomini prepotenti, despoti non erano come lei. Fatalmente accettava la sua sorte. La sfortuna si sarebbe tramutata, se ci sapeva fare, in fortuna. Avrebbe colonizzato le zone inospitali del suo cuore. Si sarebbe mostrata resistente al dolore, ai traumi. Avrebbe convissuto con il suo peccato. Altre donne avrebbero conquistato il suo uomo ma lei ora non provava più nulla per lui. Bruscamente aveva cessato di amare. Ci sono persone che si comportano in modo così maldestro che perdono punti ai nostri occhi. Con un grande esercizio di diplomazia, muta, con le labbra serrate per il disappunto avrebbe evitato le buche della vita, del suo cuore per bere fino in fondo il succo della vita. Radiosa avrebbe affrontato gli altri a viso aperto. Magari avrebbe frequentato gli ambienti giusti, quelli adatti a lei. Il segreto stava anche in questo: rimanere nel proprio ceto. Non lasciarsi tirare le pietre addosso da persone di un altro ceto sociale. Lei era una donna maledettamente libera che era riuscita a sfuggire al ruolo cristallizzato da secoli di madre e moglie. Poteva essere fiera, contenta della sua libertà, non doveva rendere conto a nessuno. La sua reclusione morale non aveva ragione di esistere. Si poteva difendere ostentando una orientale indifferenza accompagnata da poche parole misurate. Lei apparteneva a se stessa e poteva ancora essere assolta per buona condotta. Aveva delle prospettive stimolanti anche nel silenzio malsano del mondo, tra lo squallore umano. Vestita semplicemente, garbata avrebbe continuato a camminare in punta di piedi, senza pensare al giudizio altrui. La vita che aveva condotto precedentemente era stata cancellata, poteva rinascere di nuovo se lo voleva. Non nutriva inquietanti sogni di vendetta. Si affrettava lentamente per il mondo nutrendo nuovi interessi, senza vergognarsi. Avrebbe recuperato ma non sarebbe stata più mondana, non avrebbe più partecipato a ricevimenti, ma nemmeno avrebbe ostentato finta innocenza. La lascivia non sarebbe stata il suo chiodo fisso. In modo drastico si sarebbe staccata dalle cose terrene e per ristabilire un suo equilibrio, per non sentirsi inutile, avrebbe inseguito solo idee fantastiche e visto posti nuovi, dove era più facile rigenerarsi. Guardava il mondo con aria sana e vitale, l’uomo era distante. Doveva limitarsi a fare quello che tutti fanno: le azioni quotidiane. Con aria altera, irresistibile magari arcigna avrebbe visto altri uomini codardi impazzire per lei. Non avrebbe avuto compassione specie per quelli che fingevano interesse. Li avrebbe accolti con un sorriso fasullo e avrebbe pensato solo a lavorare. Vanitosa, con aria candita non avrebbe più usato le sue armi segrete. Avrebbe ammirato la sua serena indifferenza con cuore indurito. Nella sua casa chiusa come uno scrigno sarebbe vissuta senza manie di grandezza. Sapeva perfettamente che anche il successo ha le sue spine. A suo figlio avrebbe insegnato altri valori. Lei non sapeva che da una spina può nascere solo una spina. Cercava di sopravvivere senza dare nell’occhio, cercando di avere un gradevole stato d’animo. Non voleva star male per l’eccitazione di una novità. Viveva senza calore umano, senza emozioni, le aveva strappate dal cuore violentemente. Il suo animo offuscato aveva trovato un lieve rasserenamento nella mancanza di ambizioni. Con il cuore sterile respingeva le seduzioni de mondo, fatto di caos, mancanza di ordine. Poi un giorno arrivò il colpo di grazia, quello che lei definì un castigo di dio. Quasi sul punto di morire mise al mondo una bimba. Nell’attesa aveva pensato sempre che alla nascita del bimbo non avrebbe dormito per la gioia, avrebbe tremato di felicità, entusiasta si sarebbe stordita del suo nuovo amore, del profumo della sua anima giovane. Impressionata, con gli occhi umidi, quasi astiosi, aveva guardato quella piccola nata come un’estranea. Una agitazione febbrile l’aveva presa di fronte a quell’evento imprevedibile. Aveva pregato per avere un maschio giorno e notte. Sua figlia avrebbe trascinato la vita come lei, ne era sicura. Recitava la parte della madre serena ma si sentiva depressa. La bambina somigliava in modo impressionante a suo padre. Si lasciò cadere le braccia. Quella fatale circostanza non allontanava le catene del suo carcere. Pensieri spiacevoli la persuadevano del fatto che ancora era dentro a una straziante asfissia. Nelle zone di mistero del suo cuore c’era solo una lenta agonia. La bimba, Letizia, era di una bellezza squisita che accendeva il suo puro desiderio di essere madre. Aveva i contorni del visino delicati, la bocca fatta di miele scuro e liscio, dolce. Passava ore in contemplazione di quel corpicino. Finì per sciogliersi con stupita devozione. La rabbia impotente che l’aveva confusa ora era svanita. Aveva trovato rifugio nella preghiera e certe volte si sorprendeva a fare progetti ambiziosi per la piccola, che aveva dimostrato un tenace attaccamento alla vita. Ora per lo meno aveva un essere da amare, non doveva arrangiarsi con dei surrogati. Con inerme stupore si consumava d’amore per Letizia fino allo sfinimento. Per un beffardo intreccio del destino si ritrovava un cuore sentimentale. Con le lacrime agli occhi osservava i risvegli della neonata che al mattino appariva ruvida e morbida, tenera e vivace. Con gesti calmi e veloci la cambiava. Con vigile tensione seguiva i suoi movimenti. Notava che Letizia aveva un carattere forte, curioso. Forse non era troppo tardi per lei amare la piccola con nuovo slancio giovanile, senza piegarsi ai tormenti del destino. Aveva cambiato atteggiamento mentale. La sua vita viveva un fase di sperimentazione, di rinnovamento perenne. Con splendida naturalezza nel vuoto silenzioso della sua casa vedeva la piccola crescere. Percepiva l’odore puro e intenso della sua bellezza. Con entusiasmo tollerava i suoi insoliti capricci. Lentamente con un rito creativo aveva salvato l’immagine di sua figlia nel computer della sua mente. Era inebriata dal profumo delicato della sua pelle. Con sciocco stupore eccedeva con i riti protettivi. Voleva per la figlia quello che non aveva avuto lei, un benessere duraturo, garanzia perenne di prosperità. Le dava tutto quello che voleva viziandola. Lavorando di notte nella birreria si sorprendeva a seguire con la mente splendide fantasticherie. Per la figlia sopportava tutto con quieta rassegnazione. Aveva per lei sogni ambiziosi che teneva dentro. Aveva ansia del futuro ma pensava che il destino sarebbe stato conciliante avrebbe fornito alla sua Letizia una occasione unica. Ogni tanto le giungeva all’orecchio la voce flautata della sua bimbetta. Non credeva alla giustizia divina, al fatto che potesse essere punita per il suo comportamento trasgressivo. Con slancio vitale la vedeva diventare donna. La guardava con un senso di trionfo, quel capolavoro l’aveva fatto lei. Guardava il suo sguardo limpido e scuro con un senso di compiacimento. Letizia aveva personalità come suo padre, volava alta come sulle ali di una farfalla, con il suo passo aggraziato, avrebbe avuto successo facilmente, di questo la madre era convinta. Divenuta adolescente, Letizia viveva in modo intenso e sfrenato. Provava particolare piacere nel vivere nella comodità, al sicuro nella sua casa. Non amava i sacrifici, le costrizioni, il lavoro duro. Quasi per un sacro timore sua madre l’aveva tenuta lontano dalle lotte quotidiane, nella speranza che la sua vita avesse il respiro leggero della felicità. Cristina aspettava un inattesa e gradevole svolta, un risveglio che facesse uscire la figlia dall’isolamento. Letizia aveva avuto una libertà totale. Per questo era arrogante, grintosa, capace di badare a se stessa. Aveva il cuore lieto, pieno di brividi piacevoli. Raramente mostrava un istintivo riserbo. Affrontava la vita con atteggiamento fiero e maestoso. La sua vita sembrava intrisa dell’odore della speranza. Nella quiete meravigliosa del suo animo desiderava un futuro sicuro. La sua anima deliziosa si apriva alla vita e bruciava di gioia. Letizia si rendeva conto di essere molto bella ed era proprio lei a darle un senso assoluto di potenza. Si rilassava come un bambino davanti allo specchio e fronteggiava gli sguardi rapiti con istintivo coraggio. Dava nell’occhio con quello sguardo audace. Si truccava pesantemente ancora giovanissima e sua madre non la rimproverava, anzi si compiaceva. Quel trucco la faceva sembrare una maschera lasciva. Tutti si inchinavano al suo passaggio. Lei istintivamente mirava in alto, non voleva confondersi con la massa. Voleva imitare le signorine perbene, sposare un uomo benestante. Alcuni corteggiatori volgari la avevano fatta gelare per la paura. Tuttavia provava sempre un malvagio senso di trionfo quando gli uomini guardavano lei e non le sue amiche. Gli uomini euforici, brillanti le rivolgevano parole seducenti mentre respiravano il suo fragile profumo. Tutti le volevano strappare l’anima con dolci lusinghe. Lei però non era sottomessa, non si lasciava ingannare. Era controllata, aveva potere decisionale. Penetrava l’anima degli uomini con pericolosi esperimenti ma sfuggiva come un’anguilla. Era consapevole del potere della sua bellezza, che voleva sfruttare. Come aura dorata, come nebbia invisibile appariva agli occhi degli uomini che la consideravano una creatura angelica. Con entusiasmo fluttuava da un progetto all’altro senza decidere il suo futuro. Inerme si lasciava trascinare dal destino puntando solo sulla sua avvenenza. Il suo sguardo languido rianimava gli anziani, colpiva sleale i giovani. Come un fiore raro faceva fremere di passione molti ragazzi. Infine aveva deciso di partecipare a una scuola di recitazione. Quando era stata ammessa a recitare in una compagnia teatrale aveva pianto di piacere. La sua recitazione era avvincente, precisa. Le parole che pronunciava sul palco erano toccanti, mollemente seducenti. Il suo sguardo, che a tratti, aveva un riflesso ingenuo, conquistava le platee. Cristina avrebbe voluto per lei qualcosa di diverso, ma in quel mondo chiuso,dove contava solo una consistente ricchezza per affermarsi, non c’era scelta. In teatro lei richiamava l’attenzione con gli occhi pieni di innocente felicità, non passava inosservata. La sua ambizione era quella di diventare una grande attrice. Era appariscente, piena di gioiosa eccitazione, bella da far commuovere il cuore. La sua voce compiva ogni sera virtuose acrobazie, il suo corpo si dimenava a ritmo della musica sfrenata. In lei riviveva sua madre. Era esile come un fuscello, dava l’impressione di innocenza. La sua bellezza radiosa, regale affrontava la vita con sfida. Senza opporre resistenza assecondava il destino. Il suo impresario la mandò a Roma per un importante spettacolo natalizio a tema. Accolse la notizia con baldanza, ma anche ansia struggente. Durante le sue riflessioni notturne era presa da scoramento. Temeva che il suo fascino infantile potesse cadere preda delle tentazioni funeste. Un nodo le stringeva la gola quando pensava a tutti quegli esseri spregevoli che le ronzavano intorno presi da un mostruoso desiderio per il suo aspetto innocuo e angelico. Affrontava quella prova dello spettacolo nuovo con pacata ostinazione. Le sue mani sottili e divine, la sua voce sublime, la sua immagine perfetta potevano fare molto. Non aveva foschi presentimenti sulla riuscita della rappresentazione, si lasciava guidare dal suo intuito. La sua mente analitica, la sua natura combattiva l’aiutavano. Studiava la sua parte con metodo preciso. Il suo stile di vita stesso era una recita perfetta senza crepe. I suoi abiti, i suoi modi rivelavano un gusto squisito. Dal palco notò di essere ammirata da un giovane di bell’aspetto. Ne fu lusingata. Sotto la luce fredda dei riflettori aveva pensieri lieti a causa di quello sguardo già innamorato. Il brusio del teatro, le scintille di luce argentea dei lampadari, l’eco della voce degli attori, il lieve fruscio delle tende del palco, le allegre melodie, erano pane per i suoi denti, era nel suo elemento. La sua apparente innocenza, in fondo era maliziosa, aveva mietuto una vittima importante. Il giovane era molto più grande di lei viveva nei castelli romani e si chiamava Giovanni. Lui era bramoso di amarla anche se cercava di andare adagio. Si avvicinava con passo leggero, con cautela e lei, dal canto suo, affrontava tutto con splendido slancio e con un sospiro di piacere. I loro incontri erano frizzanti e gradevoli come vino novello. Lui vacillava davanti alla sua sacra bellezza. Giovanni era un’anima ridivenuta semplice che sognava di possedere la bellezza. Lui che aveva vissuto avidamente tutte le sensazioni d’amore ora viveva nell’attesa febbrile, disperata di conquistare la nuova preda, di placare il suo desiderio. Quell’amore fatto di sguardi folli e lascivi era in verità dolce e leggero, molle racchiudeva una scintilla divina. Con il cuore in tumulto Giovanni la vedeva risplendere nel bianco accecante delle luci accese del teatro. Davanti a lei dimenticava tutto. Ogni tanto aveva lampi di memoria che gli ricordavano che uno della sua stirpe non poteva confondersi con una donna di teatro, di basso livello. Un senso di impotenza lo prendeva quando la vedeva. Il suo cuore non aveva scampo, tracollava e viveva nell’attesa febbrile di vedere l’oggetto d’amore. Solo nel silenzio della sua stanza Giovanni aveva una paura momentanea di quell’amore, che sfociava nel malumore. Quell’amore era sensazionale, gli faceva impressione. Non sapeva resistere alle lusinghe d’amore e si lasciava trascinare come un disperso in un amorfo fluire del mare. Suo padre, accortosi della tresca, rimase folgorato quando vide per caso la fanciulla. Somigliava molto ad alcune sue parenti, persino a se stesso e quindi tutto comprese in un attimo. Ora con odio feroce contrastava quell’amore. Con crudeltà ingegnosa, insensibile ostacolava il figlio, ostacolava il flusso impetuoso di quella passione. Vincenzo voleva essere l’angelo vendicatore. Nel profondo del suo cuore sapeva la verità. Quella fanciulla era sua figlia che aveva seguito soave e sfavillante le orme materne. Ci sono persone che il teatro lo portano nel sangue. Perseguitava suo figlio, agognava alla fine rapida come il vento di quella storia. Il figlio era invece sempre in stupida adorazione di quella donna che lo attirava con una forza spaventosa. Il figlio gli rispondeva male, con la bocca tremante, incapace di redimersi. Eccitato si lasciava travolgere dalle fiamme soffocanti dell’amore. Il padre cercava di restare calmo, con la coscienza lucida e indifferente ma aveva una paura insensata. Il figlio si lasciava annegare nel mare di beatitudine del mondo caldo dell’amore. Una orribile nebbia assediava la sua mente, non riusciva più a studiare e invece doveva diventare avvocato. Quell’amore sembrava inattaccabile, aveva una profondità vuota e sciocca. Con benevolenza infinita cercava di prendere il figlio con le buone, non voleva agitarlo. Visibilmente era sbalordito dal fatto che Giovanni non reagiva e si lasciava trascinare lentamente verso il tracollo. Esibiva il suo amore come un trofeo. In alcuni giorni a malincuore doveva rinunciare a suo figlio, che non era più ragionevole. Lui era completamente preso dalla brama voluttuosa, provava barlumi di felicità. Vincenzo sapeva che quell’amore era abietto, contro natura e cercava per questo di sviare suo figlio. Anche lui aveva vissuto l’esperienza atroce della attrazione ma ora non ci pensava più, non provava vergogna, né rimorso, aveva già dimenticato tutto. La memoria cancella totalmente il male che abbiamo fatto. L’anima sua ora era logora ma ancora fiera. Con profondo stupore guardava lo sguardo amorevole di suo figlio verso la ragazza. Le prospettive non erano confortanti. La sua anima tenebrosa non vedeva ombre di gaiezza nei gesti d’amore del figlio. La questione andava affrontata a cuor leggero non di petto. Di notte, quando brandelli di coscienza riemergevano dal sonno, Vincenzo trovò la soluzione al problema. Con passo fiero, senza riserve, senza scalpore affrontò la questione di nascosto. Cominciò a togliere soldi dal conto del figlio, a prosciugare le sue entrate. La pecorella senza soldi sarebbe tornata all’ovile. In fondo era lui quello che sovvenzionava suo figlio. Prepotente si sentiva il dominatore assoluto della situazione. Il figlio vissuto nel benessere avrebbe sentito la morsa stringente della miseria nauseante. Con il tempo avrebbe fatto un discorso sensato al figlio, pieno di buon senso, e l’avrebbe allontanato per sempre da uno stato di succube stordimento. Le sue parole avrebbero avuto un prezioso contenuto. Il figlio sarebbe tornato nel mondo magico, nella seducente pace della ricchezza piena di benessere. Indignato sperava nella fine di quella ridicola esibizione del sentimento d’amore. Si mostrava così un padre severo, pieno di pretese, austero, privo di modestia, ricco solo di boria. In ogni occasione cercava di convincere il figlio con la forza della persuasione. La sua paura radicata era di non riuscire nell’impresa. Il figlio Giovanni aveva per lui un timore reverenziale. La privazione del denaro l’aveva reso inerme e apatico. Non poteva vivere senza la forza incredibile del denaro. I soldi gli servivano per giocare, per comprare abiti, per dire: io possiedo, io esibisco, io ottengo, io ho. I soldi gli davano una sensazione di calore quasi umano, lo confortavano, lo facevano sentire al sicuro. Nell’ingorgo della sua vita i soldi lo tenevano in pugno con aria di scherno. Con aria pensierosa comprendeva di non poter fare a meno del piacere puro di possedere soldi. Accuratamente cercava sempre soldi nelle sue tasche. A un certo punto provava risentimento per suo padre che gli aveva tolto i viveri. Dal un lato c’era la ragazza con un debole sorriso, imbronciata per le sue prime assenze e dall’altra c’era suo padre livido di rabbia, con sguardo inquisitore che gli procurava un vero e proprio fastidio allo stomaco. Con aria contrita, con un sorriso glaciale era tornato da suo padre, per avere ancora soldi. Vincenzo lo guardava con una punta di trionfo. Giovanni frustrato, seccato, inorridito assaporava il fallimento con lenta angoscia. Guardava suo padre con una strana espressione. Finì con risollevarsi ma con un bruciore alla gola. Suo padre, ebbro di sollievo, lo guardava con occhi sospettosi mentre ogni tanto suo figlio trasaliva. Tutto si era aggiustato. Ora bisognava stimolare i vasti interessi del figlio, dargli illusione del successo. Lentamente Giovanni era tornato alla calma concentrazione di un tempo. La situazione era rientrata. Nel suo diario aggiornato Vincenzo poteva mettere la parola fine. Di sua figlia non si interessò per paura dello scandalo. Spesso la farina del diavolo va tutta in crusca e i subdoli piani diabolici spesso non riescono. Giovanni infatti cadde in una brutta depressione quasi incurabile. Di tanta ricchezza in fondo non sapeva che farsene. Lui in fondo odiava suo padre, così ridicolo e pieno di scrupoli. Quello che lo spaventava di più era la sua calma, la sua insensibilità. Lui era più collerico, più impetuoso. Per Giovanni contava l’educazione che aveva ricevuto, ma anche il suo carattere, quello era determinante e il suo carattere non accettava le intrusioni di suo padre nella sua vita sentimentale. Con un certo carattere si nasce e nessuno può mutarlo dall’oggi al domani. Due fratelli pur vivendo nella stessa famiglia possono apparire diversi e opposti. Su Giovanni pesava l’esperienza negativa dell’adulterio di suo padre, l’amore soffocante di sua madre, che rivedeva in lui la reincarnazione di suo fratello. Marta si era illusa che facendo un altro figlio avrebbe recuperato in qualche modo il rapporto con suo marito. Molte donne fanno dei figli nell’illusione di salvare un legame. Un marito perduto non si recupera con il ricatto di un figlio. Perché poi mettere al mondo dei figli per farli soffrire? Ora lui Giovanni soffriva per aver rinunciato alla sua ragazza. Giovanni avvertiva l’indifferenza di suo padre, preso da mille occupazioni, sempre distratto. Non aveva chiesto lui di venire al mondo. Marco era morto, beato lui, ora gli rimaneva quella madre così nervosa e quel padre frettoloso e agitato. Ma che razza di famiglia era la sua? Poteva chiamarsi famiglia? Più ci pensava più non capiva. Quel trauma complicato dell’amore finito con l’attrice l’avevano cambiato, era irriconoscibile. Aveva mutato gusti, modi di fare. Era diventato più perfido, più vendicativo. L’esperienza l’aveva segnato, anche se si sforzava di mostrare il contrario. Odiava suo padre così cinico, sfruttatore, amante del lusso, interessato, capace di passare da una donna a un’altra senza battere ciglio, ambizioso, voglioso. Quell’odio era inconscio non sapeva nemmeno lui di averlo dentro, lo riversava sugli uomini ricchi che incontrava, e anche sui loro figli. Il rapporto con le donne non era più come un tempo. Dopo la sua ragazza non vedeva nessuna. Vedeva altre ragazze e le apparivano tutte vanitose, rivali, amanti solo di abiti e gioielli, invidiose fra loro, capaci di distruggere in un attimo, per un futile capriccio, la felicità degli altri anche con la maldicenza. Ora si sentiva uno sradicato che non stava bene neppure con se stesso. La famiglia gli appariva estranea. Era tormentato, insoddisfatto, alla ricerca di qualcosa che cambiasse la sua vita, in attesa di un evento che mutasse radicalmente la sua esistenza. Era ricco, benestante, ma non era felice. Un tarlo dentro lo rodeva, lo consumava. Apparentemente non gli mancava nulla, ma in realtà gli mancava tutto. Aveva molti beni materiali, ma poco quelli spirituali. Non aveva la pace dei sensi, la pace interiore, che era fondamentale. Aveva amici falsi e bugiardi, arroganti, superbi. Lui aveva bisogno d’affetto e credeva di aver trovato la donna dei suoi sogni. Giovanni dentro si sentiva vuoto, senza sentimenti, come se avesse cento anni, non gli importava più nulla, niente più lo coinvolgeva. Viveva alla giornata senza chiedersi tanti perché. Pensava solo ai vestiti, al lusso, alle cravatte, alle sigarette. Mangiava nei ristoranti, comprava oggetti, in fondo era uno sfogo, un modo di possedere qualcosa. Si dedicava al gioco d’azzardo. Intanto a preoccuparlo c’era la salute di sua madre. Lei era divenuta ogni giorno più obesa e suo marito finì per disgustarsi di lei, per insultarla con battute ironiche. Gli uomini non la guardavano più, data l’età e l’obesità, e un po’ a lei dispiaceva, anche se odiava suo marito e gli uomini in generale. Gli uomini troppo belli erano insopportabili, si montavano la testa. Lei rimaneva schiacciata dalla bellezza di un uomo. Gli uomini brutti erano più umili, più sinceri. Marta non si curava, non assumeva farmaci, voleva fare di testa sua, non accettava consigli di nessun genere. La vita le sfuggiva tra le mani, anche se lei voleva tenerla in pugno. L’unica cosa bella della sua vita grigia era stato suo figlio Giovanni, che ora appariva scarnito, pallido, e non si confidava più con lei. Fra loro si era creata una barriera, un muro divisorio invisibile fatto di incomprensioni e silenzi. Non parlavano quasi mai perché avevano interessi opposti. Marta passava giornate sane in casa a riassettare la sua stanza, a sistemare la legna, al posto dei domestici. Era presa da una smania distruttiva, si disfaceva di oggetti inutili, di abiti regalava soprammobili costosi, anche quelli legati ai ricordi. Cercava di non pensare più a niente. Con il tempo si accentuava la spaccatura con suo marito. Non interveniva più per sanare il divario. Suo marito ritornava ubriaco la sera, spendeva soldi di continuo, giocava. Guai a rimproverarlo, si avventava come un cane a cui è stata pestata la coda. Lei viveva silenziosa, come per paura di disturbare. Non osava chiedere nulla. Era rispettosa, disponibile, troppo molle, arrendevole mentre in gioventù era stata arrogante. La vecchiaia ammorbidisce sempre le persone. Tutti sembravano pretendere troppo da lei. Doveva tenere alto il nome della famiglia. La laurea di Giovanni non la entusiasmò. Si era laureato presto grazie anche agli appoggi. Solo in apparenza tutto procedeva per il verso giusto. Giovanni aveva ottenuto un incarico prestigioso. La gente la invidiava. La situazione precipitò all’improvviso, quando ebbe il primo attacco di cuore che la gettò nella disperazione. In poco tempo divenne taciturna, strana, triste. La gente invidiosa sembrava gioire del suo male, godere della sua caduta. La guardavano con compatimento. Altri erano totalmente indifferenti. La legge di natura sembrava punirla per la sua alterigia. In passato era stata arrogante, superba, meschina, smorfiosa e a tratti perfida. Ormai non poteva tornare indietro e riparare. Con il tempo aveva perduto terreno, smalto. Era invecchiata, divenuta insensibile, distante. Soffriva nel segreto del suo cuore, che batteva all’impazzata, per il suo matrimonio fallito. Suo marito si era allontanato da lei sempre di più, era un uomo di razza. Avrebbe dovuto scegliere semplicemente un uomo innamorato di lei aldilà delle differenze sociali. Inoltre aveva fatto l’errore grossolano di dare carta bianca a Vincenzo, di affidarsi ciecamente a lui, come se fosse priva di volontà. Solo all’inizio del matrimonio aveva avuto l’illusione di stare al timone. Non aveva saputo coniugare insieme ragione e sentimento. La razionalità pura l’aveva spinta a scegliere un uomo di prestigio. Non conosceva la passione focosa e ora, che aveva i capelli striati di grigio, la rimpiangeva. Aveva scelto un ragazzo a posto, un buon partito, con tutte le carte in regola, serio, onesto, ricco senza pensare alla conseguenze di quel gesto. Lui era attraente, sarebbe stato un padre perfetto, di alto rango. Un padre potente può aiutare i suoi figli. Era stata una sciocca a scegliere l’uomo della sua vita seguendo la ragione. Eppure era stata una scelta sociale apprezzata, aveva fatto un salto di qualità. Non conosceva però l’amore disinteressato. Giovanni, l’unica gioia della sua vita, era preso nel gorgo della sua vita e neanche la vedeva. Avrebbe forse preferito una figlia femmina, tutto sommato. Leggeva nella mente di suo figlio e trovava solo tracce di disagio e disordine. Eppure lui aveva delle potenzialità che non sfruttava, si lasciava andare, senza controllare i suoi istinti. Nei momenti di noia, con la mente stravolta considerava il mondo monotono e inutile, senza senso e desiderava la fine. Con disapprovazione respingeva convinta quel mondo di ricchezza lucente. Camminava lentamente nella sua lussuosa stanza facendo respiri profondi. Con sguardo curioso osservava l’argenteria brillare al sole settembrino. L’argenteria non scaldava il suo cuore malato, non confortava. Viveva nell’attesa, forse della morte con un sogno segreto nel cuore: recuperare l’affetto di suo marito e di Giovanni. Il marito l’aveva esiliata. Eppure doveva trasformare l’esclusione in un punto di forza. Il male acuto che aveva era interno e logorava. Non parlava con nessuno, si guardava allo specchio e si vedeva anziana, vedeva la polvere depositarsi sulla sua anima. Solo la vista di Giovanni la rallegrava, era la forza del sangue. Lo invidiava perché lui non aveva paura, sapeva che la paura è fatta di nulla. Lui non la cercava, era sempre impegnato nelle librerie, nelle biblioteche, nelle gallerie d’arte. La maledizione, la dannazione stava in tutta quella voglia di fare. Anche ai giorni nostri non si ha tempo per nessuno. Andiamo sempre di fretta. Non abbiamo tempo nemmeno per noi, la nostra anima si vede costretta a elemosinare affetto. Andiamo sempre di fretta, veloci. Non conosciamo la provvidenza, la misericordia, la pietà, il perdono, la speranza. Pensiamo solo alla scuola, al lavoro, alla carriera, ai soldi. Compiamo un pericoloso sdoppiamento: da un lato la vita privata dall’altro la vita pubblica, dove dobbiamo essere sempre vincenti, sempre in perfetta salute. Solo i miti, i deboli sono perdenti. Nel nostro mondo di carta, falso inseguiamo il mito della roba, senza fare beneficenza agli altri. Collezioniamo oggetti chic, preziosi, ricercati. Fieri ci serviamo di oggetti tecnologici completamente inutili, mostrandoci competenti. Fino a che cominciamo a provare una pena leggera nel cuore e ci accorgiamo di essere arrivati a un punto di stallo. A un punto dove ci rendiamo conto che siamo solo anonimi fruitori di cose e servizi, senza personalità. Diventiamo colti, raffinati ma poi ci accorgiamo che esiste una notevole differenza fra cultura e educazione, fra istruzione e cultura. Le persone colte ci deludono, spesso sono maldestre e maleducate, forse perché sono solo ben istruite. Le persone colte sono quelle che hanno rielaborato ciò che nel tempo hanno appreso. Sprechiamo risorse con uno strano scintillio negli occhi. Procediamo imperterriti con un unico scopo: guadagnare di più, non pensiamo a tagliare le spese. Il fascino del denaro ci attira e ci rende imbronciati solo quando non possediamo particolari oggetti che tutti gli altri hanno, oggetti che finiamo per non conservare, per gettare. Saremo capaci di schiacciare gli altri pur di ottenere quello che ci manca. Non conosciamo il mistero che nasconde un tramonto, non ce né curiamo. Il nostro essere rimane invariato nel tempo non evolve, invischiato nella materialità, nell’evento commerciale. I furbi sono coloro che fanno compere e scelte oculate. Rifiutiamo la vita frugale per premiarci con oggetti vistosi, di buon gusto che sembrano darci sul momento un piacere gratuito. Non conosciamo la parsimonia, la tenerezza di un gesto amico Le nostre risate sono forzate, poco disinvolte, i nostri occhi sono spenti. Nelle strade troviamo folle oceaniche, traffico caotico ma poi ci accorgiamo scorati che siamo soli nella folla. Senza esitazione rifiutiamo il dialogo con gli altri, il confronto. Non perdoniamo e non ci perdoniamo Non tiriamo fuori in modo coerente la voce della coscienza. Non ci rendiamo conto di essere noi quelli che si dileguano mentre gli oggetti restano, silenziosi testimoni della nostra insensata vanità. Non ci rendiamo conto di essere arrivati a tanto, di aver messo il dio denaro al primo posto. Con i soldi ci sentiamo immortali e avvertiamo un senso di perdita quando gli oggetti che amiamo si rompono. Con i soldi sembra che non abbiamo paura del futuro, sopportiamo l’attesa della morte con noncuranza manifesta. La morte degli altri non ci fa riflettere, non frena il nostro istinto predatore. Con l’anima anestetizzata prendiamo e lasciamo oggetti, persone. Tristemente ci circondiamo di persone false che ci adulano. Solo ogni tanto, magari di notte, sogniamo a occhi aperti, abbiamo il desiderio di un’altra vita meno frenetica e ci sorprendiamo a invidiare la vita degli altri. Nella sua chiusura, quasi celebrale, Marta assecondava il destino come un giunco. Sprecava il tempo a pensare alle rose non colte. Si ripiegava su se stessa, umiliata con l’orgoglio ferito per il tradimento del marito, che aveva ingaggiato con lei una pericolosa gara. Notava sempre più rivalità all’interno delle coppie, che non si completavano ma si combattevano, si confrontavano come due sportivi in lotta. C’erano compagni/e gelosi del successo della propria metà che poi gli facevano, con eccitazione morbosa, regali, anelli luccicanti. Nessuno partecipava con entusiasmo alle vittorie della propria metà. Anzi con irritazione vedevano i compagni arrivare al successo, dominare la scena. Nel rapporto di coppia spesso c’era mancanza di parole, di dialogo dominava lo squallido compromesso. La parte nera che ognuno si portava dentro emergeva fra apparenti contraddizioni. Da un lato si voleva essere liberi dall’altro si anelava a una relazione stabile. L’amore che si porta nel cuore per fortuna nessuno può strapparlo, anche se spesso è irraggiungibile. Marta nel culto di sé, voleva mostrarsi una persona di fegato, capace di sopportare l’abbandono, la trasformazione del suo matrimonio. Nell’indifferenza dei giorni vuoti sapeva anche che bisogna saper perdere. Nel naufragio della sua vita si sentiva però mancare il respiro, i soldi non davano tanta potenza al suo cuore stanco. Ogni giorno sperimentava la freddezza distaccata delle persone di potere che frequentavano la sua casa. Nei legami tutti c’era solo sofferenza. Il male veniva osannato nel mondo che la circondava. Le persone giudicate perbene erano quelle perfide. Per salvarsi passava il tempo a guardare vecchi album di fotografie. Come un feticista collezionava vecchie foto in bianco e nero dove lei appariva stranamente sorridente. La musica classica che qualche volta ascoltava per ammazzare il tempo le accendeva strani ricordi. Sprecava il tempo nell’ozio, nella speranza a che quel male oscuro per incanto si trasformasse in bene. Sapeva che non tutti i mali vengono per nuocere. Si sentiva giovane dentro questo era il guaio, mentre il suo corpo progressivamente la rendeva meno autosufficiente. Scivolava nella senilità, nella solitudine della vecchiezza dove sognava il caos, il frastuono del mondo. I parenti erano lontani, sempre antagonisti, anzi con molti non si parlava più. Si sentiva una donna sola, insoddisfatta, senza affetto, ferita mortalmente dall’amore egoista. Da giovane aveva voluto tutto e subito, ora non voleva più niente. L’ora più brutta per lei era il tramonto, quando il sole moriva e la attendeva una notte buia dove ripensava alle ingiustizie della vita. I ricordi avevano il sapore amaro della sconfitta, dei rimorsi. L’unico conforto spesso erano i libri, muti compagni di viaggio. I libri le facevano la carità: le tenevano compagnia, facendola ogni tanto anche sorridere. Verso la morte, ormai prossima, aveva uno strano rapporto di attrazione-repulsione. Da un lato voleva porre fine ai suoi mali che la tormentavano dall’altro voleva che tutto passasse e che tornasse quella di sempre. Andava alla deriva senza meta, non ritrovando più le sue radici. Temeva la giustizia divina, temeva il nuovo giorno. Una struggente malinconia la prendeva. Con indignazione scopriva di essere ancora legata al passato. Avvilita, affannata precipitava nel vortice della malattia cardiaca, che non si faceva scrupoli a tormentarla. Le crisi erano frequenti e in esse perdeva la nozione del tempo. La malattia dominava come un incubo. Si sentiva vulnerabile, sotto lo sguardo penetrante della morte. Nei giorni migliori si rodeva di dover lasciare tutto. Non capiva perché il destino arrivasse a tanto, a privare i suoi figli della luce. Guadava in silenzio, con impazienza suo figlio realizzarsi. Lui fingeva di non capire la malattia della madre, accettava tutto con noncuranza, controvoglia. Sapeva che ognuno aveva la sua croce, l’importante era cavarsela, lottare per qualcosa per cui valga la pena esistere come ad esempio il potere. Per un colpo di fortuna, senza talento e impegno, si poteva diventare potenti, influenti, esigere rispetto. Il sistema migliore era scalare la salita della vita con buon umore, forti, con aria di sfida. Dopo ogni crisi Marta si sentiva esausta, tremava umiliata dalla malattia che lei, in alcuni momenti particolari, detestava furiosamente. Per reazione si imponeva di essere allegra, si controllava. Alcune volte voleva stare appartata altre cercava disperata compagnia, una voce rassicurante. La sua psiche vacillava. Sapeva che poteva succedere di tutto da un momento all’altro, su questo non aveva dubbi. Sua intenzione era riflettere sul da farsi. Non voleva una badante prezzolata, voleva conforto. Ormai era allo stremo, e nella tensione della malattia cercava l’ ancora di salvezza umana. Chiamava a voce alta i suoi cari. Sapeva anche che dopo di lei la vita sarebbe continuata e che a nessuno importava di lei seriamente. Guardava con nostalgia al passato idealizzandolo, riempiendolo di bugie. Riguardava i suoi vestiti nell’armadio, fatti di porporina, di lustrini d’oro e d’ argento e non sapeva chi li avrebbe di nuovo indossati. Lei non poteva più. Forse faceva bene a regalarli. La morte era un soldato al servizio del suo annientamento fisico e morale. Forse lei aveva bisogno della conversione del cuore, ma non lo sapeva, lo ignorava. Lei era nata innocente ed ora si ritrovava colpevole. Non voleva morire nell’incuria, in un ospedale. Cercava di gestire le emozioni ma niente era più come prima. Cambiava ogni giorno punto di vista sul conto dell’eredità. Aspettava il momento giusto per parlare con suo figlio. Aveva lo stanco desiderio di risolvere il lato economico della sua vita, di mettere ordine. Giovanni dal canto suo cercava di raccogliere i cocci della sua vita, di chiudere lentamente con il passato. Protetto dal suo ambiente, sognatore, volava alto con l’idea del potere. Non si condannava, non aveva forti sensi di colpa. Lavorava sicuro, veloce, pieno di eccitazione, diritto allo scopo e mieteva successi. Non credeva che raggiunto il successo si potesse fare male agli altri e a se stesso. Aveva perduto l’innocenza ma non la speranza di sfondare, di fare carriera. Sul lavoro era solo, lavorava come un sonnambulo, si impegnava, gli altri li sottometteva. Nel mondo sentimentale, dopo la rottura, vagava pauroso in cerca di un sostegno, seguendo l’istinto. Si adattava alla situazione, reagiva cauto. Con coraggio ogni tanto andava alla ricerca di qualche eccitante avventura. Conduceva una vita sentimentale disordinata. Il suo ruolo era quello del play boy. Non voleva essere giudicato, voleva storie rassicuranti. Temeva il laccio potente dell’amore, non voleva innamorarsi. La felicità poteva essere solo quel potere dal cuore arido. In ufficio era stabile, in amore un eterno vagabondo. Eppure era suo dovere sposarsi, dare degli eredi alla sua famiglia. Anzi doveva sposarsi prima che sua madre morisse. Con su madre aveva una certa affinità, non poteva deluderla In realtà nascondeva a se stesso la gravità della malattia di sua madre. Non voleva assistere all’erosione della sua famiglia. Non voleva mettere i capelli bianchi per l’angoscia. Si accontentava di vivere come tanti giovani depravati delle grandi famiglie, fieri e insensibili. Gli bastava accarezzare la mano di una donna facile per andare in estasi. Per il resto non voleva passare avanti al destino, verso il quale era comunque diffidente. In quella fase della sua vita aveva paura d’amare e preferiva circondarsi di amici che poi perdeva per strada. Gli sarebbe piaciuto essere importante per una sola persona nel profondo della sua coscienza. Tuttavia preferiva gli amori illeciti, i compromessi. Capiva che pochi lo comprendevano, si sentiva incompreso. Non riusciva a dimenticare le fattezze del volto della sua vecchia fiamma. Come una maledizione quella donna lo perseguitava. Era caduto nella trappola dei sensi. Il destino gli aveva giocato un brutto tiro. Non sopportava la vista di donne che somigliavano alla sua ex. Voleva dimenticare e concentrarsi solo su un punto: trovare una moglie degna. Certo il matrimonio significava impegno, sacrificio, Doveva evitare le distrazioni. L’idea di una donna al suo fianco lo faceva rabbrividire, si sentiva mancare. Perché doveva sostenere la prova di un matrimonio combinato? Perché questa disgrazia? Tante domande si affollavano alla mente, il sonno era agitato. Come poteva vivere accanto a una donna non amata? Non sopportava i capricci delle donne benestanti. La loro eccessiva vivacità lo infastidiva. Doveva abituarsi allo loro irrequietezza, ai loro scatti d’ira, ai musi lunghi. Decise di impegnarsi alla ricerca di una donna, voleva una sistemazione definitiva. Era arrivista e ambizioso, voleva una donna importante. Si gettò a capofitto, con accanimento nell’impresa. Era instancabile, seguiva ritmi allucinanti, si prodigava fra feste e ricevimenti, viaggi e visite. Certamente era attratto dalle nuove bellezze presenti in società. Non voleva che il destino sconvolgesse i suoi piani, rimettesse tutto in discussione. Doveva cercare un porto sicuro, salvifico, del resto niente resta uguale a se stesso nel tempo. Si muta fisicamente e interiormente. Lui era cambiato, era disilluso. Guardava in faccia la realtà e dava alle cose il loro giusto nome. Vedeva nel mondo tanta crudeltà e si regolava di conseguenza. Difficilmente si fidava degli amici nella scelta della fidanzata. Quando qualcuno lo importunava sapeva già che voleva qualcosa da lui, anche se inizialmente gli rivolgeva parole gentili. Quando qualcuno gli parlava già sapeva dove il discorso andava a finire. Scopriva la malattia più terribile della società: l’invidia. Non aveva amici sinceri, solo amici gelosi. Molti amici si erano rivelati falsi e gli avevano soffiato alcune prede. Aveva imparato a tacere, a non parlare delle sue questioni private. I rapporti erano buoni con tutti, ma formali. Cercava sempre di alzare un muro di protezione, nella speranza che nessuno lo abbattesse, lo valicasse.          Aveva paura di stringere nuove amicizie. Alcuni amici gli facevano pesare la loro posizione più alta di lui. C’è sempre qualcuno più ricco e più importante di noi. Trovare una compagna poteva essere importante, significava trovare un equilibrio. Anche se avrebbe ridotto i suoi spazi liberi. Avrebbe voluto conoscere una persona umana. Spesso nei suoi viaggi incontrava persone con cui si confidava, agli sconosciuti raccontava tutto. Ora era pronto per un periodo nuovo. L’avvicinarsi della maturità lo faceva riflettere. Era più grande e più interessante. Con un sincronismo perfetto organizzava diligente la sua caccia. Non voleva che un giorno fosse uguale all’altro. Sul lavoro collezionava grandi successi e ora programmava un successo anche nella sfera privata con la massima diligenza. Era contento della vita brillante che conduceva, dei progressi fatti. Il volto della sua amata nella memoria, nei rari momenti di pausa tra una festa e l’altra, gli procurava una fitta al cuore, un’apatia strana, un dolce languore. Voleva sconfiggere quel tarlo, vendicarsi del dio amore. Un giorno accadde l’incredibile. Spesso il caso ci mette con le spalle al muro con la sua imprevedibilità. Suo padre invitò a casa,a cena, un signore di mezza età, con i capelli leggermente brizzolati, alto e magro, distinto, ben vestito, vedovo. L’uomo era accompagnato da una strana creatura castana: sua figlia. La fanciulla lo guardava intensamente. Quella sconosciuta non gli piaceva, ma i suoi sguardi audaci gli facevano rizzare i capelli in testa. Da dove veniva quella creatura così eterea? Mille domande turbinavano nella testa svagata di Giovanni. La ragazza era insegnante di musica, benestante, studentessa del conservatorio. L’idea di doverla rivedere gli ripugnava, gli dava le vertigini. Eppure era la preda che cercava da tempo. Era di una famiglia nobile, in vista, ricca. La paura di sbagliare bloccava le azioni di Giovanni, paura che si tramutava in angoscia. Non era in grado di provare alcun sentimento, era diventato arido, senza cuore. Poteva solo fare un matrimonio per interesse. Giovanni voleva evitare la farsa delle nozze, ma non aveva scampo. Suo padre lo pressava, lo spingeva al grande passo, sua madre doveva ricordare la cerimonia prima di morire. Giovanni avrebbe voluto fuggire per non sentirsi in trappola, ma cominciò a corteggiare la ragazza per andare avanti nella trattativa. Si sentiva bloccato, avrebbe voluto difendere la sua quiete. Sapeva che anche il più grande amore poteva degenerare in tragedia. Non c’era da fidarsi dell’amore che inizia con i complimenti e finisce con arroganti rimproveri. Lui certo era assetato di affetto, anche se il suo sguardo non era più dolce e sfuggente ma duro, determinato. Era gentile con la nuova ragazza ma troppo formale, non si scioglieva, la sua voce non era carezzevole. In fondo temeva un attacco alla sua libertà. Il trauma dell’abbandono del vecchio amore non l’aveva mai superato. L’amore poteva rovinare le persone. Credeva di essere forte ma si scopriva fragile, timoroso del futuro. Avrebbe voluto fare a pezzi quella donna per liberarsene. Invece il padre lo invitata a corteggiare la ragazza, a fare il suo dovere, e il sogno d’amore diventava incubo, lo colpiva a morte, si svegliava sudato e tremante. Non trovava pace. Suo padre lo maltrattava, lo pungolava, lo perseguitava. L’assedio continuava giorno e notte, mattina e sera. Bisognava che lui sposasse quella donna, per aumentare il prestigio della famiglia, poi poteva farsi tutte le amanti che voleva. Era solo una formalità, un firmare delle carte. Il padre era solo un bambino capriccioso che voleva il giocattolo più bello. Si vedeva già anziano trascinare stancamente il suo rapporto, fatto di abitudini e parole vuote e si sentiva soffocare. Giovanni non voleva cadere nella trappola del matrimonio, fatto di doveri e di rinunce. Non era fatto per subire, avrebbe comunque comandato. Non voleva che i suoi giorni futuri fossero tutti grigi come un cielo autunnale, giorni persi dietro una storia andata in frantumi. Anche gli amori più focosi nel tempo si trasformano in una squallida monotonia, senza amore la strada è ancora più in salita. Ogni tanto si sorprendeva a canticchiare la canzone: l’amore comincia con canti e con suoni e finisce con lacrime al cuore. Il suo cuore non era più in grado neanche di piangere. Non piangeva più, restava di sasso, impassibile anche davanti alla notizia più sconvolgente. Non provava pietà per nessuno, ma riusciva a mascherare i suoi stati d’animo. I contatti con la fanciulla erano ancora blandi, evitava contatti stretti. La fanciulla, Manuela, si sentiva sola e anelava a una storia importante. Da un lato aveva le amiche invidiose che non la comprendevano dall’altra uomini vogliosi di avventure. Da che parte schierarsi? Era difficile scegliere anche perché le delusioni potevano venire da entrambe le parti. Una storia d’amore seria l’avrebbe messa al riparo dalle insidie del mondo. Era una donna fragile, sensibile, amante della musica, dell’arte. Si sentiva sola anche in mezzo alla gente, anzi soprattutto fra la folla si sentiva una sconosciuta. Non era in grado di giudicare il mondo perché non lo conosceva, suo padre l’aveva tenuta al riparo. Era riservata, chiusa non diceva mai a nessuno la sua identità, dove abitava. Suo padre la pregava di mantenere l’anonimato vista la ricchezza della famiglia e allora lei quando parlava con gente comune dava indicazioni false, si inventava ogni volta una vita diversa, magari quella che avrebbe voluto vivere. Ogni volta cambiava persona, nome e finiva per credere di essere quella persona. Era un gioco divertente, spensierato, che alcune volte la metteva di buon umore. Era una piccola follia che si permetteva, in fondo non danneggiava nessuno. Si nascondeva, fuggiva dalle responsabilità, credeva alle favole, alle storie d’amore lette solo nei libri.. Era romantica, svagata e nello stesso tempo circospetta, paurosa, guardinga come una leonessa in gabbia. Manuela vedendo Giovanni trasse un sospiro di sollievo, sarebbe uscita dall’incubo di quella vita piatta. Quel ragazzo la intrigava, le piaceva, le faceva girare la testa, la stordiva. Lui l’avrebbe difesa, protetta, coccolata. Cercava di coinvolgere quell’uomo con la voce suadente e il sorriso smagliante. Intuiva la verità ossia che lui non era entusiasta di lei, non era stato colpito nel profondo. Molti pensano che l’amore può nascere con il tempo. A differenza che con altre persone con lui non aveva pensieri negativi. Sulla gente spesso pensava cose turpi e spesso scopriva che quello che aveva intuito era vero. Lui invece era rassicurante come il mare calmo della sera. Il cervello di Manuela lavorava infaticabile per trovare una soluzione, per arrivare a un fidanzamento. Teneva la passione sotto controllo come si fa con i conti di un libro contabile. Registrava tutti gli incontri anche i più banali e li ripensava, li riviveva nei giorni successivi. Lui era laconico, scialbo ma agli occhi di lei aveva delle straordinarie qualità. Era educato, gentile, mentre parlava la guardava diritto negli occhi, raccontava tutto con naturalezza, sembrava sincero, il classico uomo tutto d’un pezzo, pacato, preciso. Emanava un fascino strano che la incuriosiva. Manuela amava sentirlo parlare, averlo vicino. Aveva aperto con lui un dialogo alla pari, si sentiva per la prima volta considerata da un uomo. Lui era disposto ad ascoltarla. Con lui si poteva sfogare, parlare di arte, tirare fuori quello che per anni teneva chiuso nel petto, poteva descrivere la sua visione della vita. L’uomo dei suoi sogni non la guardava dall’alto in basso come avevano fatto altri giovani. Non la scrutava come si fa con un oggetto al microscopio, come facevano altri uomini, sempre pronti a rivelare le sue imperfezioni, a censurare le sue frasi da intellettuale, a sottolineare i suoi sbagli. Molti trovavano da ridire su tutto, eppure nemmeno loro erano perfetti, ma esigevano la perfezione. Anzi più erano insignificanti e più volevano il massimo. Criticavano il suo modo sobrio di vestire, il modo di parlare e di atteggiarsi. Giovanni inoltre era ricco, di famiglia antica e nobile e tutto questo non guastava. Manuela aveva iniziato una lunga frequentazione con Giovanni, si vedevano spesso e lei non opponeva nessuna resistenza. Era trascinata come una foglia al vento e Giovanni non ebbe nemmeno il gusto della conquista. Lei sembrava vittima di un incantesimo, era stregata. Dopo un’infanzia sottotono, con il padre sempre in viaggio e un’adolescenza triste, con un padre geloso e oppressivo, ora per Manuela era arrivato il momento del riscatto, della rinascita. Voleva vivere come donna. Giovanni si sarebbe innamorato di lei lentamente, non c’era fretta, come un fiume scorre lento verso il mare salato. L’amore non è necessariamente legato al colpo di fulmine. Anzi quando ci si innamora per gradi si ha modo di riflettere, di comprendere il carattere, di capire le intenzioni. Manuela si sentiva in sintonia con Giovanni. L’anima bella sua rendeva il corpo attraente, gli occhi luminosi. Per lei l’aspetto fisico non era determinante. Di Giovanni le piacevano le mani morbide, la voce suadente, sensuale, gli occhi velati come se avessero appena pianto. Più lo conosceva intimamente e più lo stimava. Credeva naturalmente di conoscerlo. Si crede sempre di conoscere l’oggetto del nostro amore. Dopo un’infanzia desolata, dove era cresciuta sola e selvaggia, ora voleva qualcosa di concreto. Per lei contavano i valori intramontabili come la famiglia, l’onestà e lui incarnava tali valori solidi. Lei seguiva precisi criteri morali, era una donna retta, ci si poteva fidare forse troppo per questo non attirava gli uomini. Gli uomini volevano donne più disinvolte e meno intellettuali. Lei aspettava paziente che lui si innamorasse e si aprisse come un fiore delicato. Giovanni era al centro dei suoi pensieri, era una sensazione unica. Le persone non erano tutte negative come aveva pensato. Si apriva finalmente nei confronti del prossimo. Manuela rifioriva come una pianta a primavera, vispa, felice e sembrava più bella. Accettava di buon grado il corteggiamento velato, non esplicito in attesa di una dichiarazione. Voleva realizzare una buona sistemazione: avere un marito al fianco. Anche Giovanni voleva una ottima sistemazione: avere una moglie al fianco. Erano due volontà che si incontravano e che avevano un obiettivo comune anche se con sentimenti diametralmente opposti.

CAPITOLO: IL SENSO DELLA FINE

Un pomeriggio disumano, tetro di quell’inverno faticoso la morte insensata diede il suo spettacolo malvagio. Fu un agguato nel buio assoluto. La morte colse Marta nell’assoluta oscurità, nel sonno, forse c’è veramente bisogno del buio per vedere le cose. I suoi occhi sfuggenti e malinconici si chiusero per sempre sulle infinite miserie umane. Nel buio spietato e indifferente non aveva avuto scampo. Imprigionata nella sua sontuosa stanza fra i lenzuoli di lino, nel supplizio della malattia era stata colta alla sprovvista dalla morte silenziosa. Impotente, mentre respirava profondamente era stata colpita dal messaggio oscuro della morte, che tuttavia giungeva tardiva ad alleviare le sofferenze. La morte aveva scosso il corpo sfinito indisturbata, con un battito d’ali. Nessun sogno aveva trattenuto Marta. La sua vita era stata semplicemente rimossa, si era conclusa piena di anomalie. Marta aveva mollato la presa, si era arresa, aveva rifiutato la vita ingannevole, senza energia. Marta era ancora giovane e si aspettava ancora molto dalla vita. Lei così ricca avrebbe dovuto lasciare tutto, rinunciare per sempre alle sue terre, ai suoi gioielli, ai suoi vestiti di seta. Avrebbe voluto vedere il suo unico figlio, sistemato, vedere i nipoti, assaporare le gioie della vita domestica. Invece doveva andare all’altro mondo senza niente, sprovvista persino del corpo a cui teneva tanto. Che strano il destino! Si accumula tanto e poi tutto finisce in un attimo, senza rendersi conto di niente siamo obbligati a lasciare gli averi, a marcire in una bara. Per chi non ha fede c’è da impazzire. Il passo verso l’abisso è ancora più pesante se si hanno peccati sulla coscienza, macigni che pesano sul cuore come pietre tombali. Marta era stata superba, priva di pietà, aveva manipolato sentimenti, soldi, non era stata mite e buona. Aveva manifestato troppo attaccamento alle cose terrene, non era degna di stima, della stima del destino. Inoltre si era sposata senza amore, convinta che l’affetto sarebbe giunto dopo, un errore che fanno molti e che stava facendo pure Giovanni, e lei lo spingeva verso lo stesso punto. Non lo fermava, quasi per paura che suo figlio si innamorasse sul serio e finisse legato a una donna sbagliata, povera, soprattutto povera. Marta era delusa, per lei non c’era stata vigorosa vecchiaia, anni d’argento, solo una morte prematura. Troppo presa dalle frivolezze della vita non era stata saggia, non aveva capito cosa conta di più nella vita: fare il bene. Quando si fa il bene una scintilla di luce invade l’anima. Lei aveva seminato divisione, odio parentale, devastazione, sulla strada aveva lasciato tante vittime, compreso suo figlio. Non si mettono al mondo dei figli se ci si sposa per squallide ragioni di interesse. La storia si ripeteva nuda e cruda, era una catena: Giovanni si sposava per interesse, per abbracciare ancora dote e terre. Come spezzare la catena? Come rinnegare il passato? Marta era morta senza lasciare testamento. Dopo la sua morte improvvisa bisognava provvedere a risolvere le questioni pratiche, amministrative, prendere in mano le redini in nome della famiglia. Gli oggetti di valore, gli ori andavano messi da parte, custoditi, magari trasportati di nascosto, se era necessario. Bisognava difendere la roba con le unghie e con i denti. Vincenzo non voleva essere spogliato degli averi ereditati. Si può essere spogliati dell’affetto ma non dei soldi. Il suo era un timore infondato ovviamente. In fatto di soldi Giovanni riconosceva la superiorità morale del padre e gli dava carta bianca. Il notaio, subito consultato, concluse che Vincenzo era erede insieme a suo figlio. Erano padroni incontrastati della villa, dei poderi. Durante il funerale, avvenuto in forma solenne nella chiesa principale, Vincenzo era rimasto stranamente calmo, impassibile, si comportava come nulla fosse. La morte della moglie apriva la strada ad un periodo di massima libertà. Sua moglie, attrice da strapazzo, era uscita di scena in via definitiva. Ora non voleva rinunciare all’eredità, poteva dissipare il denaro come meglio credeva, vendere i terreni, giocare nelle bische, tornare tardi la sera, anche se gli affari non si fanno di notte. Il popolo della notte crede di essere onnipotente ma nella notte ci possono essere anche pericolose insidie. La vita regolare è quella diurna, nella notte non si concludono mai favolosi affari. Non c’era più la sentinella di sua moglie. I parenti fecero solo una pallida comparsa al funerale. Da tempo nessuno si guardava più negli occhi, nessuno si parlava più fraternamente. La discendenza si era spaccata in vari rami, e ognuno andava per conto suo. Alcuni rami della famiglia erano più poveri ed erano comunque da biasimare, anche se erano ricchi di affetto. Giovanni al funerale tremava, era nervoso, intrattabile, sapeva che aveva deluso sua madre, lei non aveva assistito al suo matrimonio. I soldi non sempre permettono la realizzazione di tutti i sogni. In fondo Giovanni considerava sua madre una donna poco risoluta, che si era lasciata sopraffare con il tempo dal marito. Alle frequenti liti, per futili motivi, aveva assistito anche lui. Vincenzo alzava anche le mani su di lei e la manipolava a suo piacimento. Così lei era costretta a coprire i lividi che portava sulle braccia e sul collo. Non l’aveva lasciato per non dare scandalo, per mantenere l’immagine di famiglia ideale. Cresciuto in questo inferno le lacrime stentavano a uscire dagli occhi. Per pudore virile Giovanni non pianse, i sentimenti nell’inferno erano banditi. Era ancora altezzoso, la morte della madre non l’aveva reso più dolce e remissivo. Aveva il cuore arido e pesante, la morte era uno smacco. Doveva reagire per non farsi schiacciare, in fondo non tutto era perduto. I colloqui con il padre erano penosi, il padre non gli dava conforto. Non sapeva come comportarsi con lui, le sue certezze erano crollate, ma voleva essere forte, se non altro per non mostrarsi avvilito agli occhi degli altri. Il punto di riferimento di sua madre era svanito, era sbiadito lontano. Si sentiva in balia del destino acido. Perché proprio a lui era morta la madre? Pensava alle chiacchere degli amici, dei vicini, dei parenti di fronte a quella sconfitta. Per combattere doveva apparire sereno. La gente non doveva vedere il suo dolore. Il problema non era fuori di lui ma dentro, era un equilibrio che si era spezzato. Dentro si sentiva vuoto, sperduto. Al rientro a casa non avrebbe più trovato sua madre ad aspettarlo, questo era il punto. Fedelmente, con fatica cercava di serbare i ricordi, alcuni di accantonarli. Al cospetto della morte, che lo atterriva e lo attraeva in un gioco morboso, faceva intensamente incetta di ricordi. Aveva dato commiato al fantasma di sua madre, al suo relitto ma poteva preservare il suo ricordo. La morte come una minaccia gli aveva riservato una sorpresa, l’aveva sviato dal cammino lasciandolo attonito e sconvolto. Nella snervante attesa dell’arrivo dell’imponente carro funebre intuiva che doveva risolversi, mostrarsi pratico, non fare una pessima figura con la gente. Il funerale si era svolto quasi blindato, lontano dal rumoreggiare della massa anonima. Giovanni cercava costantemente di apparire normale. Aveva scelto di tacere, di non mostrare i segreti assoluti del suo cuore fanatico, palpitante. Sacrificava i sentimenti per una questione di facciata. Di fronte allo spettacolo tremendo della morte, al rituale delle esequie non perdeva la testa, appariva sicuro e rispettabile come se un’oscura forza invisibile lo guidasse. Aveva imparato in fretta il suo ruolo di pedina nello scacchiere familiare. Era intervenuto nel vicolo cieco dei sentimenti e aveva bloccato lo smarrimento, che era svanito in pochi attimi. Solo mentalmente cercava di consolare, riparare, difendere il suo cuore ferito, catturato dal male. La perdita assurda e ingiusta della madre era una semplice fatalità. Era solo una sequenza della pellicola della sua vita, un passaggio lento, un frammento. La morte non avrebbe avuto il sopravvento, non avrebbe distrutto il suo tentativo di imporsi. La morte faceva solo scena per qualche suo fine recondito che lui non comprendeva. Rammentava le parole dei preti in occasione della festività delle ceneri: polvere sei e polvere ritornerai. Ma lui si affrettava con cura a contrastare l’usura del tempo con la sua mente lucida e le sue azioni ribelli. La sua vita doveva essere invidiabile. Non doveva lascarsi soverchiare dalle emozioni, non doveva avere la voce frammentata, rotta in frasi concitate dal pianto. Il suo dolore doveva stemperarsi, esaurirsi nel silenzio, senza inutili rischi per il suo orgoglio. Era come un fuscello rinsecchito con i tratti del volto induriti dalla sofferenza e gli occhi sbarrati di fronte al male oscuro. Non si dimenava, non si lamentava, era come un relitto alla deriva. Con piccoli espedienti, accorgimenti, titubante cercava una via d’uscita per superare l’impasse, la priorità era quella di rimettersi in sesto. Fugacemente il suo sesto senso gli faceva capire che doveva smettere di indagare sul fenomeno morte, non doveva essere curioso. Il suo desiderio incontrollabile era quello di rimuovere la morte e la sua comparsa, per lo meno nella sua mente. La morte era prevedibile, impietosa, irripetibile, assordante, insopportabile, gravosa, irritante, sfuggente ma lui doveva sfuggire alla sua stretta. Dentro era furente, seccato avrebbe voluto sfogarsi, confidarsi, condividere con qualcuno il dolore ma non poteva. Fuori era impassibile e controllato. Sapeva che la precisa strategia della morte alcune volte era vincente. Alcune persone sofferenti si fidavano solo dei suoi occhi magnetici. Accettavano di essere blanditi dalla morte in modo elegante, freddo senza gridare. Cercavano concilianti di essere risollevati dalla luminosa presenza della morte. Alcuni, che a lui facevano compassione, con cui era in disaccordo, credevano di avere nell’aldilà una ricompensa speciale, un segno particolare, di meritare un trattamento di favore. Nella sua lenta esplorazione del mondo aveva scoperto che tutti si ritengono e si credono buoni, anche i malvagi. La sua fede era fatiscente, il rapporto con dio complicato. Non credeva che il mondo fosse un riverbero della luce di dio. Non esisteva un dio invisibile dotato di un potere magico dove rifugiarsi, da raggiungere, da osservare felici. Davanti al concetto di dio percepiva strane sensazioni alterate, sfumate che non gli davano però un quadro completo del senso della vita. L’uomo si immergeva nel fragore della vita con diffusa allegria e poi riemergeva nelle stesse condizioni di prima avvolto nel sudario fatale della morte. Non c’era nemmeno la possibilità di un ruolo diverso, di una parte nuova. Intuiva che la morte remava contro e dio come punto di riferimento era assente. L’umanità gemeva logorata e corrotta, distrutta dalla morte ossessiva, che lui cercava di annientare. A livello mentale doveva azzerare la morte, fingere che non esistesse. Nel vuoto del dubbio sull’aldilà Giovanni si lasciava andare al ricordo dolce, amorevole e piacevole di sua madre, accompagnato da sinistri rimpianti. Ripercorreva la vita a ritroso, con un senso di ineluttabilità. Forse per salvarsi era meglio non pensare, adagiarsi anche nel dolore, ma senza il peso del ricordo. Nella vita esistono cose riconoscibili che non si devono vedere, forse si devono accettare con gli occhi bendati benchè piene di incognite, di rischi. Frustato sapeva che doveva per forza di cose rielaborare il lutto. Inorridito, confuso guardava la morte cruenta con odio. Lei era responsabile dell’infelicità del genere umano, delle vibrazioni dell’anima folle di paura, della fine dell’euforia di vivere. Con stizza si convinceva che lui era l’artefice del suo destino, che poteva vivere bene anche in disparte, che poteva avere la considerazione degli altri, che poteva vedere i suoi desideri irrealizzabili concretizzarsi. Nel grigiore della vita c’erano in effetti delle chance. La vita aveva una patina rosea, aveva i suoi momenti belli, immagini indicanti pace. La vita dava i suoi frutti, specie se si collaborava con gli altri esseri umani. L’umanità si poteva salvare se restava unita contro la natura matrigna e la morte atroce. Aveva risolto la situazione immergendosi nella banale realtà con un sorriso conciliante. La verità era che l’uomo depistava la morte rapidamente immergendosi nella gradevole penombra della vita pratica. Gli oggetti, l’approccio visivo con la realtà erano importanti, decisivi. L’uomo ridotto a brandelli si stordiva con le vetrine, con il quotidiano, con gli oggetti di piacere per dimenticare la fine, la morte. Anche Giovanni fiaccato dalla morte futile si immergeva nella realtà anche la più degenerata, cercando un suo conforto. Nella circostanza doveva aggrapparsi a ciò che aveva senza fiatare, adeguarsi alla nuova maschera di orfano come un trasformista. Doveva estirpare i suoi istinti peggiori in modo appropriato. In casa Giovanni come un recluso, spaesato si scollegava dal mondo, staccava la spina con occhi inespressivi vivendo sotto l’ala isolata e speciale del benessere che lo faceva diventare forte. Nel mondo la legge dominate era quella del più forte, del più ricco. Nelle pagine della sua mente sentiva pulsare tracce di affetto, deboli, sottotono per Manuela. Lei poteva risollevarlo e aiutarlo a dimenticare la morte. Nella piatta routine aveva bisogno di una donna sicura, che gli parlasse sottovoce, di una moglie seria e di un’amante che lo provocasse ad ogni occasione, anche esagerando. Voleva reagire in modo adeguato, riprendere fiato, tornare ad avere la lucidità mentale di un tempo, la normale capacità di apprendimento che lo distingueva. Tratteneva solo il ricordo antico di sua madre, amaro rigurgito del passato. Cercava almeno dentro di lui di perpetuare il ricordo, come antidoto alla austera morte che si introduceva ovunque. Nei suoi pensieri, nella sua fantasia non vi erano più sequenze di morte, solo dedizione agli affari che lo riempivano di orgoglio, che gli facevano dimenticare se stesso. Ricostruiva mentalmente spesso frammenti di scene dove era presente sua madre. Certo non comprendeva la morte, quel suo modo malvagio, nocivo di liquidare a proprio piacimento la vita agendo nell’ombra. Il prezzo da pagare alla morte era sempre alto: morire soli, deboli senza il pianto e il ricordo di nessuno. Nell’indifferenza degli altri, nella malattia furente la morte poteva apparire anche un rifugio convincente. La morte poteva essere la punizione per una vita bizzarra e cattiva, fatta di vendette, priva di perdoni. Nel nascondiglio della notte ripensava ai frenetici momenti del giorno. La vita lo adescava con la sua oscura energia, con la sua natura rigogliosa. Giovanni la notte provava la strana sensazione di essere pervaso dalla vita, una specie di scossa vitale, di piacere segreto, di brivido di vivere in una discreta fortuna. Di giorno per lavoro era un’anima in pena, ligio e devoto al dovere. Nel suo percorso insolito, nella sua vita sfarzosa, fatta di stanze decorate c’era una via di fuga logica, ordinata: il fidanzamento. Meticoloso tassello dopo tassello svelava la trama nascosta del suo destino. Poteva, se voleva, ritornare innocente, guarire le ferite sanguinanti del lutto violento e recente. Se frugava nel suo passato, se osservava la sua infanzia si accorgeva che alcuni eventi erano stati accidentali, senza significato profondo. Solo una catena di eventi abbandonati dal destino, guidati dalla malasorte contro cui aveva inveito. La vita è fatta di disguidi, di baratri, di esperienze emotive, di complicate e inaspettate rivelazioni, di esigenze oscure, di spossatezza, di strana sofferenza, di sorrisi di circostanza, di sbiadite presenze, di alti e di bassi. Giovanni aveva assecondato il destino mestamente, con fastidio. Confidava solo nel suo buon nome, nel buon nome della sua famiglia originaria, le cui origini appartenevano a un’altra epoca. I ritratti dei suoi antenati lo proteggevano compunti, lo rinvigorivano, lo facevano sentire speciale, privilegiato, con messaggi esclusivi gli imprimevano la forza del cambiamento. Celebrava quelle entità superiori che lo facevano ricredere sul senso della vita, che lo cambiavano. Ogni volta decifrava i segni, i suggerimenti degli antenati nei sogni stessi che gli restituivano fiducia nel futuro. Nel mondo imperfetto e irregolare che rendeva alla fine del percorso l’uomo esanime c’era una salvezza armoniosa: la continuità delle generazioni, continuità che lui doveva garantire. Ripercorreva a ritroso il labirinto accidentato del passato, lo rimaneggiava e trovava episodi coinvolgenti, di basilare importanza per la sua famiglia, collocata in alto come un trofeo. Risoluto aveva preso una decisione impulsiva che si traduceva in una specie di sacro giuramento: fidanzarsi, anche se la sua forma mentis respingeva le nozze, l’istituzione del matrimonio. In conclusione per il bene della sua razza poteva fare qualche concessione. Era vicino a una svolta che assumeva un valore simbolico. Era scattato in lui il senso di appartenenza a una stirpe potente, che lo faceva ammutolire per le sue gesta. Giovanni ignorava tutti i retroscena, i pesi dell’anima, le abiezioni, le apparenti contraddizioni della sua stirpe. Non faceva i conti con il lato oscuro del suo fragile sangue. Con gesto rapido teneva a bada i dubbi, le diffidenze che aveva sulle origini di tutta quella ricchezza. Un presentimento gli faceva pensare che la ricchezza della sua razza era frutto di prevaricazioni e provava un senso di sconforto. Nel resoconto dei suoi possedimenti trovava delle anomalie rovinose, raccapriccianti, distorte. Di colpo l’amarezza, la paura era svanita, con l’idea del fidanzamento e una disperata frenesia lo prendeva quando pensava al suo futuro, alle nozze che dissipavano la nebbia di tutti quegli interrogativi. Voleva avere una boccata di normalità, fare anche un salto di qualità sposando una donna brillante, eccitante, nota al pubblico per la sua musica, onesta e riservata. Non capita tutti i giorni di incontrare una persona non banale. Non voleva vivere in collera, nella paura, in attesa della sagoma scura del futuro incerto. Nel promemoria della sua esistenza vi era una sola annotazione: fidanzamento. Consentiva a suo padre di osservare anche a distanza la sequenza della sua vita vera, senza giri di parole. La destinazione ultima era la serenità familiare senza traballamenti. Avrebbe ricominciato daccapo, sanato i buchi neri della vita sua per condividere con sorriso sereno la vita quotidiana con una donna. Manuela presto ricevette una proposta di matrimonio in piena regola, con tanto di anello: uno zaffiro meraviglioso con diamante giallo, appartenuto a Marta. Lei non era stata colta di sorpresa aveva previsto un epilogo del genere. Riordinando le idee capiva che soltanto lui era oggetto del suo desiderio. L’amore complesso, spietato, grande come un abisso non le lasciava scampo. Avrebbe accettato di buon grado, la sua era una immensa felicità. Non era più una donna perduta, senza futuro. Chi l’aveva disprezzata in passato ora sarebbe rimasto allibito. La sua era una sfida anche nei confronti delle altre donne che si consideravano superiori a lei in bellezza e la guardavano dall’alto in basso, irritate solo per la sua ricchezza. La isolavano e lei chiusa in se stessa diventava asociale. Il fidanzamento avrebbe fatto giustizia. Lei avrebbe avuto le sembianze di una donna vera, come le altre. Nella notte, nel completo isolamento, Manuela ascoltava, quasi priva di memoria, lo schianto del suo cuore risucchiato, penetrato, torturato dall’amore e rivedeva a rallentatore il momento in cui indisturbata, appagata, un po’ agitata aveva aperto la scatola in velluto che racchiudeva l’anello con un lampo negli occhi. Lei non notava le frasi di circostanza di lui, le sue attenzioni forzate, il suo affetto malato, le sue parole scarne dette sovrappensiero, il suo tono di voce quasi di scherno. Nella sua immaturità affettiva, nella sua ricerca d’amore non vedeva falle, non c’erano sospetti. L’amore era un nascondiglio perfetto, appagante, l’aveva scritto sulla pelle, lasciava tracce nel cuore e la proiettava verso sfondi lontani dove lei era ammirata. All’amore aggressivo si aggiungeva la possibilità reale di vivere di rendita sommando le ricchezze di entrambi. L’amore aveva su di lei un effetto benefico, calmava la sua smania, era un’evasione mentale anche se con il tempo si sarebbe rivelato crudele. Nessuno conosce i segreti del cuore, le conseguenze dell’amore. La sua vera indole purtroppo era romantica. Era una donna sotto sotto passionale, istintiva, fantasiosa. Giovanni cercava invece la considerazione della gente per questo usava tutta una serie di stratagemmi per farsi vedere in pubblico al fianco della fidanzata. Era necessario salvare le apparenze e mostrarsi innamorato, dare un’immagine pulita. Non voleva infrangere le leggi non scritte della sua casata, per questo adottava il prezioso travestimento di innamorato. Sua intenzione era quella di mostrarsi affine a lei, anche se per lui Manuela era quasi invisibile. In via precauzionale si mostrava molto affettuoso e dimostrava tenerezza, pur mantenendo, in pratica, una distanza di sicurezza. Nel segreto della sua testa voleva solo sbrigarsi, accelerare i tempi, non voleva andare incontro a un ritardo prolungato per la celebrazione delle nozze. Non vi erano impedimenti specifici, giustificati. Con il volto pieno di sollievo, deciso, che non ammetteva repliche, che denotava solo affetto puro, illuminato dai riflessi del sole morente di un tardo pomeriggio di primavera, comunicò la data delle nozze alla fanciulla. Passaggio obbligato e liberatorio. A Manuela era stata preclusa la possibilità di scegliere. Davanti alla data rimase interdetta ma poi si lasciò guidare dall’istinto e chiuse gli occhi per il piacere e lo accolse fra le sue braccia. Sentiva la sua ombra protettiva che non chiedeva nulla in cambio. Avvampando sentiva che nella sua vita alleggiava la felicità duratura, rassicurante. Si accontentava di quell’amore rivelato con parole piene di dolce torpore, di indulgenza. Lei stravedeva per lui, sommersa dall’amore, invasa da brividi le obbediva senza avere la forza di respingerlo. Aveva una bufera dentro di sé ma per scaricare la tensione, per avere il controllo della situazione, per prendere tempo gli toccò una guancia con una carezza come un normale gesto di cortesia, in un atteggiamento prudente. Sapeva che non sarebbe mai stata con lui cattiva e irrispettosa. Lui intanto assecondava il destino, ricomponeva le sue spaccature in modo dinamico. Capiva che aveva condotto le trattative del fidanzamento con il padre della sposa nell’alveo della tradizione ma in modo troppo freddo, come forzato, approssimativo. Mascherava come poteva l’assenza di sentimenti anche se in alcuni frangenti era faticoso. Obbligava il suo cuore pieno di lesioni al compromesso. Eppure quella ragazza era appetibile, integra, paladina dell’onestà, affidabile, compatibile con lui, appartenente a una famiglia di grido, esageratamente ricca. Nella sua fantasia distorta la respingeva, si sentiva un guscio vuoto incapace di amare. Non voleva spaventare la ragazza, farle provare l’esperienza del rifiuto. Si sforzava caparbio, ostinato, preciso di tenere il passo di quel fidanzamento, di dargli tepore e calore. Solo sul suo diario, in alcuni punti esatti, annotava la sua paura con messaggi sibillini e dava una versione evasiva di quell’amore e in alcune frasi,come per giustificarsi, sottolineava il potenziale pericolo dell’amore vero fatto di giochi troppo forti di luci e ombre. Ormai lui voleva condividere la vita con un ‘altra persona e trincerarsi dietro la cortina scura e opaca del matrimonio perfetto. Il suo istinto predatorio, presente nel suo sangue come retaggio ancestrale, lo spingeva a non disperdere energie, a inglobare le ricchezze della moglie, a non desistere, a rispettare il suo ruolo. Rincuorato sapeva che doveva portare a termine il suo compito positivo senza smentirsi, senza curarsi degli altri, doveva ultimare il suo percorso, la sua ricerca era alla fine. In fondo bastava esibire oscenamente davanti agli altri, senza celare, l’amore, quell’amore che invece a mala pena lo lambiva. Nel diario naturalmente filtrava la scontentezza, erano ammassate parole incoerenti, strettamente personali, spesso piangente malediceva la sfortuna, si ripiegava su se stesso, si accaniva, percuoteva la sua anima tribolata. Nessuno avrebbe letto quelle pagine. Ognuno dovrebbe avere un diario dove sfogare i propri crucci. Spesso però i diari finiscono nelle mani dei figli. Un giorno avrei letto quelle pagine come avrei letto le struggenti poesie di Marco. Le poesie di Marco le avrei raccolte tutte in un unico, grande volume. Giovanni ovviamente non voleva disperdere le sue energie, danneggiarsi si sarebbe arreso molle alle nozze, del resto tutto scorreva senza appigli, senza inciampi. Aveva il benestare dei parenti e di suo padre. Non c’era niente da capire, doveva solo attendere il palese risultato finale. Con tratto maturo, come un adulto, ogni dubbio riusciva a dissiparlo con brillanti idee e grazie anche a tutta una serie di affascianti coincidenze. In fondo era giovane, la morte era indefinita e lontana, un puntino sullo sfondo quindi poteva trovare una nuova dimensione di vita magari simulare amore per la moglie e dopo trovarsi un’amante e renderla invisibile agli occhi della moglie e il cerchio si sarebbe chiuso.

Il matrimonio venne celebrato in pompa magna in un caldo mattino di Giugno. Il padre della sposa era elettrizzato, era stato conquistato da Giovanni. A vederli, genero e suocero, sembravano affiatati, legati da un feeling, da interessi comuni. La sposa fece il suo ingresso in chiesa con un abito color avorio, lungo, con un immenso strascico, ricoperto da perline luccicanti, le maniche velate e ricamate di fino. I capelli erano raccolti e sul capo sfavillava un diadema di diamanti. Il trucco era soffice, fatto con colori tenui e naturali. Lo sguardo era luminoso, gli occhi brillanti. In mano aveva un mazzo di rose panna e rosa pallido. Le rose erano il suo fiore preferito, forse perché avevano le loro spine. Lo sposo era molto elegante, aveva un vestito blu di seta lucida, una camicia bianca ricamata con le iniziali, sembrava un uomo fatto. La cappella della chiesa era gremita di una folla immensa di parenti e c’erano fiori e addobbi ovunque. La cerimonia fu sfarzosa, la torta nunziale di dieci piani, gli invitati numerosi. Fu un evento che suscitò un certo clamore. Ogni cosa era perfetta, messa al punto giusto, ma come insegna la vita, nessuna rosa è senza spine e ogni vaso ha la sua crepa. Giovanni aveva il volto teso, quasi balbettava fra le lacrime, sembrava non ragionare, si celava dietro un silenzio irritante. Pronunciò il fatidico si senza convinzione, come in letargo con un sorriso di sufficienza, forzato. Gli mancavano le forze per fronteggiare la folla degli invitati. Le loro risate fragorose erano per lui amare. Era tentato di far finta che non fosse accaduto nulla. In fondo nella vita niente diventa definitivo, eccetto la morte. Nel panico si metteva sulla difensiva, non mostrando la sua rabbia. Ignorava lo sguardo duro e fulminate del padre, che infieriva senza pietà. Guardava sprezzante le invitate che disgustosamente e in modo persistente si atteggiavano nei loro abiti lussuosi e si tormentavano a vicenda. Le giudicava in fretta come invitate scomode, presumeva che fossero ricche smorfiose. Era arrivato però a un punto critico in cui era impossibile desistere, arretrare, esonerarsi, ribattere, pungolare. Tuttavia si placò, non spiazzò gli ospiti con battute sarcastiche che pure gli venivano alle labbra spontanee. Il suo umore nero non divenne contagioso. Con la sua faccia pulita si era assicurato un percorso sul quale avrebbe resistito a lungo. Era spezzato nell’animo, intimorito, incredibilmente fragile dentro, ma convincente fuori, non si irrigidiva. Non perdeva la calma, non divagava, mostrava un placido sorriso insistente. Vibrava lievemente solo quando l’orchestra metteva antiche melodie struggenti. La sua tempra all’apparenza era solida. La festa gli sembrava spenta, credeva di non meritare quel lutto nel cuore. Gli sfuggiva il senso di quella serie di traversie amorose. Lo ferivano i ricordi dell’altra del passato, ma sapeva, ammetteva anche che il tempo modifica i ricordi. Comunque la mente pensava a Manuela il cuore all’altra. Nel viaggio di nozze gli sposi girarono molti paesi e città. Manuela voleva recuperare il tempo perduto. Per anni il padre non l’ aveva lasciata andare lontano. Nella sua mentalità solo gli uomini potevano viaggiare. Con lucida consapevolezza Giovanni sapeva di essere stato trasportato di peso in una realtà carica di tensioni, in una insulsa esistenza e persino con il suo consenso. Provava pena per se stesso che era stato complice di questo scempio. Non si dava pace. Si discolpava invocando il bene della famiglia. Lui avrebbe dovuto costruire il futuro della razza, era pronto a pagare. Con indignazione riconosceva il potere della famiglia. Lui refrattario al matrimonio si era sposato per adempiere preciso, incolume al suo dovere. A tempo debito avrebbe avuto la ricompensa, istanti di luce tutti per lui. La sua conversione al matrimonio era stata incredibile. Ogni tanto per sviare la mente, nelle pause di silenzio, ripensava alle immagini sfocate del suo passato amoroso e avrebbe voluto il ripetersi di certe esperienze. Impercettibilmente si sentiva avvolto in una bolla di invisibile tristezza. Un sottile diaframma lo divideva dal male di un esaurimento nervoso. Camminava su quel confine elastico sempre sul punto di cadere alla minima brezza. Almeno nei primi anni di matrimonio doveva mantenere le promesse fatte davanti all’altare. Ma la vita in comune gli appariva piena di enigmi, di lati oscuri, scoraggiante, micidiale per la sua libertà. Disorientato, accorato guardava la sua metà e gli sembrava venire da un mondo lontano fatto di solitudine. Lei era troppo prevedibile, forse perché le cose che abbiamo sotto gli occhi non ci stupiscono più, lei era troppo ordinata, riservata, docile, goffa, seria, poco disinvolta, poco decisa, sempre con lo sguardo basso, era monotona e stancante. Non era allegra, giocosa, vispa aveva sempre quel sorriso sinistro sulle labbra. Gli uomini invece non vogliono vedere la durezza nello sguardo delle donne. Lui la lasciava parlare senza ascoltarla nell’incantesimo del silenzio della loro casa. Giovanni impotente recitava la parte del bravo marito. Doveva entrare nello status psicologico di “marito”, nel travestimento che si era dato per poter vivere quel pericoloso passaggio, per poter transitare agevolmente verso soluzioni ignote ma nuove. Giovanni si accorgeva brutalmente di vivere una situazione strana. Il matrimonio gli appariva come una progressiva discesa agli inferi. Opporre resistenza, magari con una forza imprevista, non serviva. Si era pentito, avrebbe voluto essere richiamato indietro. Intanto anche nei primissimi anni di matrimonio Giovanni compiva piccole incursioni nel bel mondo dove era sempre ben accolto, se non altro per accostamento alla sua famiglia. Manuela all’inizio si era sentita invadere da una inaspettata e pulsante voglia di vivere, che si espandeva a macchia d’olio. Dopo i primi litigi, le prime incomprensioni erano cadute le sue certezze. Nella sequenza dei giorni il cielo dorato, luminoso sopra di lei aveva assunto una colorazione rossastra, scura, un aspetto stanco. Il drappo che copriva la sua vita piena di grandi prospettive era crollato mostrando dubbi, bugie, menzogne. Viveva come reclusa, distratta, non voleva vedere nessuno. Constatava ogni giorno che il marito mentiva, era arrogante, presuntuoso. Si persuadeva alcune volte che Giovanni era solo un marito stressato, forse un po’ impunito, poco affettuoso, come sono molti uomini, come era suo padre, poi scopriva con raccapriccio che lui la accoglieva controvoglia fra le braccia, che si spacciava per innamorato perso e non lo era, che mentiva spudoratamente, che la faceva fessa ogni momento. Tuttavia insisteva su quel cammino, lasciava correre pur mostrando segni di disagio. Voleva proseguire il matrimonio a ogni costo, recuperarlo, per evitare pettegolezzi e insinuazioni e quindi assecondava quella situazione anche se le era riservato un misero trattamento. Il marito non le rivolgeva mai uno sguardo benevolo, l’accusava di essere amorfa, inveiva rabbioso, la colpiva a tradimento con gesti e parole, correggeva con strani ghigni i suoi sbagli, non le riserbava una calda accoglienza la sera. Manuela aveva la forza di resistere nonostante i colpi terribili che giungevano ogni volta. Suo marito era solo un uomo calcolatore, misurato, freddo e ora non le appariva più, irresistibile. Un uomo bello con il volto rabbioso può essere più mostruoso di un orco. I suoi occhi, che avevano la quieta dolcezza di un bosco autunnale, avevano capito che Giovanni poteva essere considerato da lei solo un collaboratore, un supporto, un punto di riferimento. Quel matrimonio era una fatica, da cui avrebbe voluto sgravarsi. Con il senno di poi comprese che avrebbe dovuto prendersi almeno una pausa. Ma lei si era regolata la sua vita e aveva scelto la strada che provocava meno conseguenze nefaste. Recitava la sua parte con noncuranza, ammutoliva nella morsa del gelo del suo cuore, che nel profondo conservava intatto il profumo dell’amore, il profumo di cose perdute. Ignorava persino i complimenti che le rivolgeva di tanto in tanto suo suocero. Sembrava irriconoscente verso quell’uomo che la adorava. Tuttavia per una questione di orgoglio appariva ai suoi occhi imperturbabile, non metteva in luce le sue debolezze, le sue sofferenze, le variazioni del suo umore. Non voleva la sua compassione, ne quella degli altri. Con un sorriso forzato seguiva con attenzione le parole del suocero, che spesso irrompeva all’improvviso nella loro vita, senza fermarsi davanti a niente. Spesso molte relazioni finiscono proprio per la ingerenza dei parenti stretti. Al suocero diceva lo stretto necessario, non apriva il sipario sullo spettacolo della sua vita grama profondamente colpita negli affetti. Il comportamento che aveva davanti al suocero strideva visibilmente con quello che aveva nella malsana, stagnante vita domestica. Il suo ego ferito era andato in pezzi, viveva nella solitudine e nell’abbandono, nell’umiliazione e covava rancore. Nel privato della sua stanza con occhi assenti, inespressivi, con espressione rassegnata, rivolgeva una muta richiesta di aiuto a Dio nell’ingenua speranza di essere salvata. Dio si era preso gioco di lei senza lasciarle scampo. Non sapeva ancora che Dio non ascolta chi si lascia cadere tra le braccia del narcisismo, dell’ambizione e della ricchezza, chi si lascia irretire da cognomi vincenti, nobili e famosi. Manuela si era orientata silenziosa non verso il cielo ma verso i beni terreni per fare il grande salto, verso ambiziose mete allettanti. Aveva seguito l’orgoglio, oltre che il piacere dell’amore. Aveva solo cercato di placare l’istinto della sua razza, quello di ascendere verso vette eccelse, verso giuste piste, verso sentieri immortali. Lei dava credito alle parole misteriose, ai suggerimenti convincenti del suo sangue. Aveva sposato un uomo ricco come suo padre. Con piglio denso respingeva lo schiaffo oltraggioso del destino per riscattare la sua esistenza. In lei abitavano più personalità ma fece emergere a un certo punto la vena artistica. Si consolava con la musica che riempiva, ingombrava la sua vita. Gli antichi sospetti, i diverbi con il marito non li viveva più come drammi, non si abbandonava più ai ricordi del giorno delle nozze. L’amore non era più un nemico terribile, anche se il suo rapporto degenerava e lei si preparava al peggio. Aveva qualcosa in serbo di cui rendere partecipi gli altri, aveva la sua arte, il suo talento con cui godersi attimi di ininterrotto piacere. Il tassello mancante della sua vita era proprio forse la sua mancata realizzazione. Forse si sarebbe realizzata attraverso l’arte. Aveva in mente una cosa sola: colmare con la musica il vuoto improvviso della sua vita. Frenetica con la voce impostata, cupa seguiva il fremito della sua ambizione, cantava e suonava seria, senza saltare le lezioni di musica. Imperterrita seguiva solo il consiglio del suo cuore: ascendere nell’olimpo dell’arte. Ogni giorno lavorava sodo, si perdeva nei dettagli per avere una ricompensa, un trionfo. Rimetteva insieme i pezzi della sua vita inseguendo la moltitudine invisibile dei suoi pensieri, senza rivelare i suoi progetti a nessuno. Era un esempio di forza. Giovanni nonostante il rapporto matrimoniale fosse usurato, malridotto, quasi svanito come un profumo nell’aria voleva avere un figlio, un erede. Nella sua casa signorile, sfarzosa, mondana, di buon gusto voleva ascoltare il pianto disperato di un bimbo, di un neonato. Non voleva una casa spoglia, simile a una casa disabitata. Voleva anticipare a suo padre la notizia della nascita. Era ormai un’idea pressante non più occasionale. Volere restituire normalità alla sua vita, ormai alterata. Aveva svelato le sue intenzioni a sua moglie, aveva appurato che lei non era d’accordo. Questo suo atteggiamento chiuso su tale argomento denotava una autentica antipatia per la vita familiare. Il discorso sembrava irrecuperabile. Manuela seria e composta respingeva la maternità. I suoi silenzi a tal proposito erano indecifrabili, i suoi no dilagavano con lentezza. Solo la musica travolgeva la sua vita, destava scalpore nella sua anima, evocava per lei paradisi artificiali dove lei si rifugiava senza profanare troppo la sua vita domestica. Le riflessioni personali di Giovanni erano amare, le sue parole viziate di odio represso. Un pomeriggio di fine Aprile, piovoso mentre Giovanni riordinava la sua scrivania meticolosamente fu chiamato dall’avvocato di suo padre. L’uomo molto delicatamente lo informò che suo padre era deceduto con un infarto, per cause naturali, nella sua stanza. Tutto era avvenuto repentinamente, in un attimo. L’uomo potente, spregiudicato, viziato era andato via da questa vita in punta di piedi, nessuno si era accorto della sua assenza, eppure era un uomo che contava, eppure era un uomo che si curava con farmaci costosi. Era passato attraverso il muro del buio e del silenzio solitario, lasciando una debole traccia, come quella di una lumaca. La sua vita si era trasformata in qualcosa d’altro che nessuno sapeva, non c’erano spiegazioni, soluzioni. La morte l’aveva reso inerme anche nel barlume dorato del suo mondo. Ormai l’anima di Vincenzo si addentrava, si imbatteva nell’ordinato mondo dell’aldilà. Il suo sguardo fisso nel vuoto era vivido, quasi puerile. La sua anima probabilmente ignorava la freddezza terrificante della morte, quella che toglie ogni prospettiva. A suo carico c’erano mille peccati di gioventù, ma il peccato più grande era quello di superbia, la sfida che lui aveva ingaggiato con il mondo, il disprezzo folle che aveva nutrito per la gente comune, per il valore stesso del tempo, del denaro, dello spazio. Nella strana quiete della sua vita Vincenzo era convinto di essere speciale, esposto solo alla luce della vittoria, del successo. Vincenzo non aveva condotto un’esistenza piena di disciplina e abnegazione. Come un forsennato, senza emozioni, si era lasciato andare senza consapevolezza, senza motivo, nel mare della crudeltà fatto solo di distrazioni, di desideri. La sua vita fatta di compromessi inutili, si era adattata alle circostanze in cerca solo di conferme. Non era certo stato premiato per la sua condotta. Aveva vacillato ed era caduto fra le spire della morte. Non aveva potuto ammirare la continuità della sua stirpe, non aveva visto nessun nipote. Tutto questo significava un inatteso segno del destino, sbiadito forse, ma che destava allarme. La sorte non ammetteva repliche, concedeva solo fallimenti. La strategia del destino era radicale, repentina, non casuale. Vincenzo non era stato ligio alle regole del buon vivere e nella complessa catena di inganni rimanevano sospese nell’aria solo le dolorose domande di suo figlio, domande che avevano paura delle risposte. Giovanni giunse al capezzale di suo padre quando nell’atrio si era già radunata una folla di curiosi, senza lacrime. Nella stanza lontano dagli sguardi, ritirato per una volta, forse per la prima volta in vita sua, si era spento suo padre. Gli lasciava un cospicuo patrimonio, una eredità notevole. Ogni dettaglio della stanza di morte scatenava in Giovanni memorie e ricordi di vario tipo. Giovanni toccava con mano i punti oscuri della vita. L’aggressione della morte lo lasciava basito, disorientato, incapace di reagire. La morte, mancando di tatto, mandava in frantumi i vetri del suo mondo, lo gettava nel panico. Amaramente constatava che non serviva ribellarsi, protestare. Eppure nei percorsi mentali del suo cervello la vita aveva l’armonia perfetta dei fiocchi di neve che cadono come farfalle. La morte era confinata in un posto lontano. La vita per lui non aveva tanti segreti, memorie, era una magica alchimia dove lui era un uomo speciale come suo padre. La morte, aggressiva, invadente, gli procurava un insensato timore per il futuro, contaminava i suoi giorni, li riempiva di dubbi. La morte gli faceva l’occhiolino, ammiccava con la sua sadica fantasia, gli dava sensazioni di pericolo mai provate. L’ombra indefinita della morte aveva annientato suo padre. Davanti alla spoglia inerte di suo padre per la prima volta aveva la percezione netta che la vita era ostile, che il suo comportamento poteva essere irriverente. L’unica cosa certa era che lui era l’unico figlio diletto, erede universale e che l’eredità non era contesa. Poteva, con grande semplicità, senza strepiti, senza fretta lottare contro il tempo, ingannare la morte e accaparrarsi la sua fetta di torta, sfiorare la ricchezza assoluta. Doveva essere risoluto, non riconoscersi a livello mentale nella umanità sofferente. Se voleva salvarsi non doveva indagare, capire, doveva solo assopirsi fra le fragranze profumate della vita, come facevano tutti del resto. Doveva fermarsi sul confine della vita, in bilico e dilatare gli attimi di pace, stabilizzarsi nella maschera del suo travestimento per sfuggire alla morte, per passare inosservato. Bastava fingere di credere che suo padre fosse veramente in un possibile luogo di pace. Mille riflessioni accompagnarono suo padre durante le esequie. Guardava la bara di legno, uguale per tutti, senza gli orpelli della vita, senza filtri e registrava nel suo cuore una collera infinita per la vita, collera sterile. La vita euforica, piena, cortese si riduceva in un buco di cemento nel muro dove entrava la bara e dove tutto era acqua passata. Era deprimente nonostante i buoni propositi, bisognava difendersi. Giovanni con il volto tirato, con sussiego, con espressione assorta seguì il funerale di suo padre. Esaminava le personalità presenti con distacco, tutta quella distinzione non lo riguardava. Tentava solo di resistere alla disumana tristezza, con la fiducia che vacillava. La morte era un’intrusa che gli contaminava il cuore. Durante il funerale aveva anche focalizzato alcuni dettagli stonati, fuori posto, anomalie. Molti partecipanti, che si erano definiti amici del defunto, avevano sul volto una nota di sarcasmo, nei tratti delicati del volto avevano un ghigno come se provassero un piacere segreto. In quel mondo pieno di ombre importanti la gente era distratta, senza nostalgia, senza un barlume di pietà. Molti indugiavano a guardare le corone, altri sembravano infastiditi da quello spettacolo spiacevole. Dove si annida la morte si ha premura di fuggire, è l’ultima difesa. Molte erano le persone presenti, alcune inattese. Manuela aveva le guance accese, lo sguardo concentrato a scandagliare il silenzio, alla ricerca di un riparo nel buio, mentre sussultava fra le lacrime. Non poteva fermare il tempo e quindi doveva congedare suo suocero fra le folate di vento, la nebbia e il rumore sordo dei rami degli alberi, le uniche cose che le garantivano un contatto con il mondo. La bara liscia caricata a spalla dagli amici si avviava veloce verso la fine, fra l’odore dolciastro dei fiori. Per un malvagio disegno superiore, disegno di morte, suo suocero era caduto nelle pieghe oscure della morte pericolosa, nel suo mondo segreto e terribile. La sequenza logica della vita, la sua corsa impetuosa aveva trovato un inciampo non da poco. Scoraggiata si immedesimava in tutte le persone morte, inconsapevoli, che con le loro storie consumate alle spalle, senza lasciare tracce visibili, erano cadute nel segreto invisibile della morte, male antico e eterno dell’umanità. Provava pena, compassione per loro. La morte nel mondo era fuori posto. Mentiva a se stessa quando diceva che la vita era un approdo sicuro, un piccolo regno felice. Procedeva a distanza di sicurezza dal feretro con un fardello nuovo di consapevolezza. Bisognava avere una forte capacità di recupero, trovare calde parole di conforto, mantenere il controllo, senza esitazioni. Per rimanere nel tempo senza essere dimenticati c’era la possibilità di realizzarsi nell’arte che garantiva l’immortalità, almeno sulla carta. Attraverso l’arte si possono lasciare tracce del proprio passaggio sulla terra. Una scultura, una poesia si sottraggono all’usura del tempo. Lei poteva sfuggire all’occhiata feroce della morte, alla sua pozza scura, con la musica. C’era però un’altra possibilità per allontanare la viscida morte, per salvare la vita, per dimenticare albe incompiute di una vita sprecata: generare un essere fatto di carne. Questa era una consolazione esaltante, quella di ricreare la vita su nuove basi. Nel silenzio del suo cuore, immobile, assimilò lentamente l’idea di essere madre. Il desiderio di maternità non aveva una giustificazione, era tipico delle donne. La maternità era pur sempre un obiettivo, che aveva un senso Pochi mesi dopo il funerale ebbe la precisa sensazione di essere incinta. Quell’attesa allentava le inutili tensioni in famiglia, le gelosie di Giovanni, il suo comportamento scorretto, le sue piccole vendette volgari che le procuravano un forte disagio. Con la mente svuotata, con l’aspetto un po’ trasandato, senza particolari reazioni aspettava confusa l’esito delle analisi. Non sapeva molte cose della gestazione, il suo procedere, non conosceva scientificamente tutti i dettagli. Con il foglio delle analisi in mano guardava quasi senza vedere il responso. Scorreva veloce con gli occhi velati, i risultati della prova sentendo dentro di sé già i sintomi, i malesseri della gravidanza. Dentro di lei quel feto incompiuto viveva una vita filtrata, ovattata, ma libera priva di ossessioni, di dolori. Forse la vita nel grembo materno era il momento più esaltante. La vita idilliaca del feto alla luce del sole avrebbe mostrato le sue crepe. Le fratture sottili della vita avrebbero portato sul suo finire al crollo totale dei valori, del corpo, dei sentimenti, alla esasperazione dell’anima stanca. Quel piccolo essere violava l’intimità di Manuela con la sua semplice presenza, con l’immagine di sé. Manuela seguiva scrupolosa la dieta, le direttive del medico di fiducia. L’evento generò una piccola apocalisse domestica. Giovanni rimase folgorato, incapace di rimanere a guardare. La sua rabbia, la sua accidia erano scomparse. Era un evento che scatenava il suo entusiasmo. Era lui che prima di addormentarsi dava l’ultima carezza al piccolo. Il suo sogno lontano e dimenticato, avvolto dalle brume della lontananza, quello di essere genitore, si avverava. Era inesperto, guardingo, ma desideroso di imparare il mestiere di padre. Seguiva l’istinto di padre con spavalderia. Accettava la sfida con un sorriso dolce negli occhi. Nel silenzio assoluto sentiva il piccolo agitarsi veloce, svelto e gli rivolgeva parole incomprensibili. Quel viaggio verso la paternità gli sembrava come un circuito di formula uno, emozionante, pauroso, misterioso. Il tempo passava inesorabile e si avvicinava a grandi passi il momento del parto. Una lontana nostalgia, complice la tristezza, gli faceva rivedere suo padre nella buia profondità dei suoi sogni. La sorte era stata poco tenera con lui. Con rabbia mista a dolore ricordava come suo padre avrebbe voluto vedere un nipotino. Manuela viveva quell’evento come un dono leggendario, favoloso. Per la strada adocchiava completini per neonati e li comprava senza badare a spese. Obiettava per i capi più costosi, per i camicini di seta. A una prima impressione suo marito sembrava pacificato, anche se con lei aveva sempre un riso forzato. Si illudeva di poter cambiare le cose, lui non aveva crisi di pentimento. La sua musica per fortuna le era vicina. Anche se capiva bene che l’arte, la musica non aprivano la sensibilità del marito. Aveva fiducia solo nelle sue possibilità. In fondo non aveva nulla da perdere, era una donna facoltosa che poteva permettersi il lusso di oziare nel mondo ardito dell’arte. Era temeraria, astuta, abile. La sua arte aveva un fine nobile. Se alcune volte la vita era pesante come una scure, umiliante, poteva smaltire la sbornia nell’eccitante mondo musicale. La musica era la nota positiva della sua vita. Solo la musica poteva beffare per alcuni istanti la morte. Nelle veglie notturne, dovute alla gravidanza avanzata, suonava e ascoltava musica. Con la forza impressa dalla musica avrebbe partorito con coraggio, senza fare drammi. Si era cimentata a capofitto in quella impresa e voleva far nascere quel figlio a tutti i costi. Suo figlio sarebbe stato un amante della vita, drogato dal sapore dolciastro della gioventù. La musica cullava il feto che vibrava nell’ascolto. Il giorno in cui le vennero le doglie fu condotta all’ospedale con una fiammante Mercedes dal colore chiaro. Manuela salì sull’auto con un largo sorriso stampato sul viso, nonostante i dolori delle doglie, e un’aria sprezzante. Nel suo mondo fatto di pizzi, ricami e gioielli c’era posto solo per l’indifferenza verso tutto il resto del mondo, verso gli indigenti. Giovanni nel gran giorno era esageratamente allegro, goffo e un po’ insicuro. La sua famiglia non era finita, non fuggiva via sulla strada del tempo. Aveva un erede, stava tramando alle spalle del destino. La maledizione non avrebbe colpito la sua discendenza. Molti sogni premonitori, anche se lui ci credeva poco, gli avevano indicato con segni precisi che era un maschio. Sarebbe stato un maschio energico, attivo. Si sarebbe laureato come lui, sarebbe stato arrogante, presuntuoso, ben voluto, apprezzato, competitivo, tagliente come una spada. Avrebbe amministrato il suo patrimonio. La stanchezza matrimoniale ormai non era più un problema. La puerpera ricevette la visita di molti conoscenti, regali, fiori e andò in brodo di giuggiole.

 

Ester Eroli

 

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