Capitolo terzo: uno strano incontro (Romanzo: Isole Perdute – di Ester Eroli)

DSCF0237_miniOramai Dario usciva da solo. Si era chiuso a riccio, rifiutava contatti con il mondo. Si copriva il volto con le mani per non vedere, per non sentire, per proteggersi. La sua storia con Violet l’aveva segnato. Rifiutava contatti umani per paura delle delusioni. Non voleva una vita piena di sacrifici, rinunce, scosse, di sofferenze. Non voleva più soffrire. L’attaccamento per Violet era stato forte, viscerale, morboso. Era entrata nel suo sangue, nella sua pelle, faceva parte di lui, come un arredo è parte integrante di una casa. Non avrebbe guardato un’altra donna come guardava lei. Di questo era certo. Lei era il sole dopo la pioggia, il sorriso della speranza dopo il dolore, l’alba di un’altra vita, quella che avrebbe voluto vivere con lei. Lei più passava il tempo più sfumava nel ricordo e più penetrava nel suo cuore come una spada subdola e violenta. Il suo cuore era violato, lacerato dall’amore. Quella che sembrava un’amicizia era diventato un affetto profondo, sincero, passionale, una dolce ossessione. Non sapeva reagire, trovare la forza di andare avanti. Non sapeva trasformare le sconfitte in punti di forza. Non sapeva risalire dagli abissi, dagli abissi delle sue sconfitte. Sprofondava nella sua stessa sabbia come un’isola che si estingue. Il male secondo lui andava estirpato alle radici. Se le donne non trovavano nulla di esaltante in lui doveva per forza evitare rapporti con loro. Non c’era via d’uscita. Poteva concedersi solo amicizie femminili, ma mai sentimenti. Doveva estirpare l’amore dal suo cuore. Del resto l’amore scaturiva solo davanti alla bellezza e allora bastava evitare le donne particolarmente belle. Non si sarebbe mai innamorato di una donna brutta e scialba. Con i colleghi non andava d’accordo. Aveva provato ad uscire con qualche collega ma si era trovato male. Inoltre non aveva molti soldi da spendere in discoteche, cinema, mostre ecc. I colleghi erano quasi tutti uomini, ma erano scaltri, vivaci, con l’argento vivo, intraprendenti, vispi, allegri, superbi. I loro discorsi erano banali come acqua di fiume: lavoro, donne, calcio. Lui voleva parlare del diario che teneva nascosto sotto il cuscino, del profumo che metteva ogni Lui era troppo malinconico per i loro gusti. Così Dario di recava in un bar vicino casa, in periferia, e si sedeva e guardava i passanti. Ogni tanto si concedeva il lusso di sedersi in un bar affollato del centro. Un pomeriggio di tardo inverno, nel mese di febbraio, in un bar del centro storico, elegante, mentre guardava i tavoli intorno a sé aveva notato una donna dall’aria misteriosa e originale, non era una persona comune. Era più grande di lui di età, questo lo si vedeva, ma elegante, di una eleganza ricercata la stessa che piaceva a lui. Le ragazze vestivano tutte in modo provocante, quasi volgare, con colori vistosi. Lei invece era austera e sensuale allo stesso tempo. Aveva un cappotto nero con collo di pelliccia e bottoni luccicanti, una sciarpa di seta panna, calze nere che fasciavano gambe lunghe, scarpe lucide nere, borsa lucida nera, smalto rosso alle unghie, dal cappotto aperto si intravedeva una camicetta di seta lucida panna rifinita di brillantini d’argento, leggermente trasparente, gli orecchini erano lunghi brillanti d’argento, gli anelli erano d’argento e oro luccicanti, i bracciali erano cerchietti d’argento, la gonna era di velluto nero con un merletto alla base, rifinita con piccoli fiocchi di raso nero. Un’aura di freschezza, di semplicità circondava quella magra, eterea creatura. Non era sofisticata, nella sua eleganza era dolce come una torta di cocco appena sfornata. Non aveva forme, era esile come un giunco. Ci si aspettava che una folata di vento lo portasse via. Non era fanatica, altezzosa, anche perché non aveva la bellezza di una diva, ma aveva il fascino strano di una gatta morbida. I capelli castani ricadevano morbidi sulle spalle, con sfumature rossastre, che brillavano al sole, gli occhi leggermente a mandorla ricordavano quelli di una cerbiatta spaurita. Anche lei sembrava timida come lui, insicura nonostante l’apparenza. Quegli abiti eleganti le conferivano un’aria matura, ma dentro doveva avere un cuore di burro. Le sue mani erano piccole, si muovevano leggere, erano affusolate come le mani di una pianista, di una violinista, aveva le mani di artista, lo sguardo romantico, la bocca sensuale. Non era alta, era magrissima, priva di seno, di forme. Forse soffriva proprio per questo suo aspetto gracile. Negli occhi c’erano ombre scure di malinconia, sacche di incomprensione. Quella donna aveva però personalità, in mezzo alla folla spiccava per la sua presenza di spirito. Nella sua timidezza era un carattere tosto, razionale, che non si lasciava prendere al laccio tanto facilmente. Davanti a lei il ricordo doloroso di Violet era sparito, svanito, inghiottito dalle spire di quel fascino strano. Un fascino sottile come quello che emana una boccetta di uno strano profumo francese. Forse quel cappotto nero portato leggermente aperto apriva scenari inquietanti nella sua mente. Quella donna non gli piaceva ma lo affascinava, lo ammaliava come una musichetta ascoltata all’improvviso per la strada. Se Violet era l’alba radiosa, lei era l’aurora, era un tramonto infuocato fatto di luci violette, di lame di luce rosso-arancio che si incupivano allo scorrere del tempo. La sua maturità piena era fatta di frutti succulenti che a lui piacevano nonostante il loro sapore amaro. Lei era un frutto maturo pronto a cadere vizzo, che andava colto subito prima che sfiorisse definitivamente. All’apparenza sembrava invece, per la sua leggiadria, un fiore non colto, o appena colto. Sui petali c’erano ancora evidenti tracce di molle rugiada fresca. Al tavolo del bar lei era lievemente piegata in avanti e scriveva su un diario dalla fodera di pelle rossa, che si intravedeva appena. Ora Dario era curioso di leggere tra le pagine di quel diario che doveva contenere autentici segreti, come il suo. La donna alternava la scrittura alla lettura di quello che sembrava essere un romanzo, rilegato in pelle oro e marrone, faceva più cose contemporaneamente con aperta disinvoltura. Sembrava a proprio agio solo quando leggeva. Gli altri li sfiorava appena con lo sguardo, sembravano infastidirla. Non vedeva lo sguardo lascivo degli uomini, quello altezzoso e fanatico delle donne. Le donne belle la guardavano con un ostentato senso di superiorità. Ma lei continuava a scrivere imperterrita, incurante dei passanti, dei vicini. Gli uomini avanti con gli anni cercavano di sedurla, vedendola sola. I ragazzi la guardavano con indifferenza, non era il loro tipo, troppo rigida, troppo classica., troppo banale Non era una donna procace, avvenente, vistosa. Non aveva seno, gambe belle. Solo gli occhi erano tremendamente espressivi, ma chi avrebbe avuto il coraggio di leggere in quello sguardo? Non c’era tempo per chi era sempre alla perenne ricerca di avventure. Lei non era la donna di una notte, una donna facile. Per conquistarla ci voleva tempo, coraggio, e nessuno voleva perdere tempo con una donna dall’aspetto banale. Lei pretendeva un uomo intelligente, intellettuale, alla sua altezza. Sembrava una donna colta, celebrale. Solo il volto era grazioso. Ma per le donne contava più il corpo. Cosa potevano contare gli occhi? Cosa poteva contare l’intelletto? Gli uomini erano fortunati a loro non era richiesta una bellezza statuaria. Gli occhi di lei erano lo specchio di un animo inquieto, alla ricerca di una realizzazione, di un riscatto, di una soluzione al vivere che non avevano trovato fra le strade tortuose del destino. Tuttavia quel modo di vestire, quei movimenti del capo, delle mani tenere come quelle di un bimbo, quello sguardo vacuo, quel colore nero dei suoi abiti, delle sue calze lo avevano per così dire ammaliato. Non gli piaceva nel senso proprio del termine, ma lo attirava come una calamita. Voleva sentire la sua voce, se era sensuale come i suoi modi, accarezzare la sua pelle giovane, magari profumata di lilla, sbirciare nelle pagine color avorio del suo diario, vedere se magari ci fosse spazio anche per lui. Voleva trovare una traccia di lui in quegli occhi persi nel vuoto di un pomeriggio invernale. Forse era come luì, ferita nell’amore proprio, ferita negli affetti, dilaniata dalla paura del futuro, soffocata dalle incertezze, dai dubbi, timorosa di innamorarsi, di perdersi perdutamente nel mare dell’amore. Quello di lei era un cuore vuoto, di vetro in attesa di essere riempito anche solo di affetto. Era affine a lei, aveva anche lei sottili occhiali sul naso, un aspetto non bellissimo, negli occhi la dannata paura del futuro. Forse insieme avrebbero potuto fare un pezzo di strada insieme, o forse, con un po’ di buona volontà, tutta la strada insieme. Si era intanto avvicinato a lei desideroso di conoscerla. Sarebbe diventato audace, sfacciatamente impertinente. Lei lo aveva guardato come si guarda un cucciolo di gatto. Per lei così austera lui era solo un cucciolo indifeso bisognoso di protezione. La protezione forse poteva dargliela lei. Lei già con lo sguardo sembrava proteggerlo, avvolgerlo in una nube protettiva. Lei nella sua insicurezza aveva per così dire dei punti fermi. Non era totalmente allo sbando come lui. Lei sapeva destreggiarsi nel caos del mondo meglio di lui. Lei riusciva a comunicare con il mondo esterno, riusciva a trasmettere serenità nonostante il tumulto del suo cuore ansioso. Era impaziente di realizzarsi, di affermarsi, perché nel profondo del cuore era ambiziosa, nonostante la scarsa considerazione che aveva di sé. Sperava in un miracolo, in un evento che un giorno avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Un giorno forse avrebbe conosciuto un uomo innamorato o un editore disposto a pubblicare i suoi scritti. Erano tutte speranze che aleggiavano nell’aria, che volteggiavano nella sua testolina idiota. La sua laurea non aveva dato soddisfazioni lavorative, se non per qui scritti, per quegli articoli, per quel diario che ogni giorno scriveva con attenzione. L’unica cosa che le riusciva naturale era scrivere, per il resto incontrava enormi difficoltà. Non era una donna pratica, non era una donna tecnologica. Certi lavori manuali non facevano per lei, che a malapena riusciva a mettere una lampadina nel lampadario di casa. Non sapeva svitare una plafoniera, tagliare l’erba con il tosaerba. Era incapace di affrontare lavori strettamente manuali. Il suo cervello partoriva solo racconti, poesie, ragionava solo stimolato dalla letteratura. Era un cervello ottuso, idiota, come molti lo avevano definito ma era il solo che aveva. Il suo cervello poteva essere sfruttato solo per produrre prodotti letterari, molti dei quali erano stati premiati da vari concorsi letterari. Intanto Dario si era avvicinato a lei, da vicino sembrava una gatta sorniona in procinto di dormire. L’aveva osservata come si guarda un panorama nuovo, mai visto. Era una donna che non lo eccitava, che non lo coinvolgeva ma lo affascinava come un quadro di Matisse visto al museo. In fondo voleva quel quadro per appenderlo alla parete, per possederlo come un oggetto ornamentale, come un soprammobile, per toccarlo nei momenti di abbandono prima del sonno. Lui le aveva rivolto una frase audace: Come mai una bella donna trascorre il pomeriggio a scrivere e a leggere? Non era bella, quel complimento era falso, ma per lui in quel momento lei era bella, lei era luminosa. Aveva lo sguardo sincero, i modi gentili, il sorriso vivace, le labbra sensuali, l’ ovale quasi perfetto, le ciglia lunghe setose, i capelli vaporosi. Lei aveva risposto con un sorriso enigmatico. Iniziato il dialogo Dario scopriva che lei aveva una voce carezzevole come un sussurro, soave come il ronzio di un insetto. La sua voce giungeva alle sue orecchie come una melodia. Il pomeriggio era trascorso fra battute allegre e frasi felici. Lei tendeva a non parlare di sé. Il suo passato, il suo presente erano avvolti in una fitta nebbia densa. Non si poteva penetrare nel suo universo e lui voleva scoprire cosa si celava veramente sotto la nebbia scura. Il mistero stuzzicava il suo cuore avventuroso. Non si diedero nessun altro appuntamento. Lui avrebbe voluto rivederla per alzare il velo nero che copriva i suoi occhi stanchi. Per lei l’incontro finiva lì, rimaneva circoscritto, ancorato a un battito di ciglia, a un attimo di svago. Quell’incontro era stata la parentesi di un solo pomeriggio invernale. Si era distratta, si era divertita, ma nei giorni successivi sarebbe tornata volenterosa alle sue principali occupazioni. Viveva isolata dagli altri, come dentro una bolla di sapone. Guardava gli altri vivere sotto una campana di vetro, che se la riparava dalle scosse della vita, le impediva di godere pienamente delle cose belle della vita. Non voleva che gli altri invadessero i suoi spazi, aveva paura delle conseguenze. Non dava confidenza agli altri per paura di prendere delle delusioni. Ogni volta che si era aperta aveva dovuto ritirarsi precipitosamente nella sua nicchia. Lei non lo sapeva ma la stessa cosa era avvenuta a Dario. Forse erano troppo onesti, troppo semplici per vivere in un mondo di squali. Venivano puntualmente raggirati da parenti, amici più scaltri. Crescere isolati significava vivere in un mondo appartato pieno di sogni proibiti, di immagini audaci. Dario aveva sempre sognato di essere apprezzato, accettato, lei aveva sempre sognato di essere considerata, di essere amata. Invece tutto sommato le persone che la amavano veramente si contavano sulla punta delle dita. Non si era sposata forse perché non era come le altre, perché non si era sentita amata. Lei non era abituata ad accettare un uomo al proprio fianco solo per far vedere che era sposata, magari senza amarlo. Molte donne erano opportuniste e si sposavano con uomini benestanti, intelligenti per avere un futuro garantito. Molti uomini si sposavano per avere un punto di riferimento, una casa dove rientrare dopo le avventure e il lavoro del giorno. Lei non sopportava di essere tradita, di essere raggirata. Gli uomini tendevano ad essere bugiardi, meschini, a tradire anche dopo pochi anni di matrimonio. Poi il destino aveva fatto la sua parte. Mentre si aggirava annoiata in una mostra di pittura lo aveva rivisto. Si era sentita osservata, la sua sensibilità si era risvegliata. Il suo sistema di allarme aveva acceso una spia rossa. Si era sentita accerchiata, braccata, inseguita. Quello sguardo insistente su di lei l’aveva lusingata ma anche spaventata a morte. Cosa voleva quello sconosciuto che aveva conosciuto due giorni prima al bar? Ai suoi occhi era un perfetto e insignificante sconosciuto. Aveva qualcosa però in comune con lei: la timidezza, l’onestà dello sguardo, la voglia di riscatto, gli occhiali sul naso, un difetto fisico particolare. Lui era rotondo, lei era troppo minuta. Insieme erano una strana coppia. Lei vestiva elegantemente lui in modo sportivo e dimesso. Il loro animo aveva però qualcosa in comune: la pazienza degli umili. Erano consapevoli di essere degli esclusi e della loro esclusione né facevano un’arma per poter comunque salvarsi, tentare di emergere. Gli altri li snobbavano, li allontanavano volentieri. Nessuna donna avrebbe mai amato Dario sul serio, nessun uomo si sarebbe mai interessato a una donna scialba e troppo seria come era Irina. Erano due zattere alla deriva in cerca di felicità. Navigavano a vista nel mare tempestoso della vita solo per avere la felicità, avrebbero vinto la morte per averla. Invece lottavano nel vento, lo rincorrevano e restavano sempre persone sole in cerca di identità. Sfidavano le avversità con la febbre del coraggio e della curiosità ma la felicità restava un miraggio. La loro era una vita vissuta con la luce spenta. Gli occhi opachi erano aperti su un mondo assurdo che permetteva tante oscenità: delitti, sopraffazioni, ingiustizie sociali, maltrattamenti, omicidi, malattie, disastri, scontri, disumane lotte di potere. Tutte cose che mortificavano, che bloccavano, che uccidevano. Loro erano semplici spettatori impotenti. Il male si insinuava tra le pieghe della coscienza, penetrava come un dolce veleno dal sapore fruttato. Non c’erano spiragli di luce, solo brandelli di orgoglio fatto a pezzi dalla superbia dei potenti. Dario davanti ai potenti diventata piccolo, piccolo, si sentiva un moscerino, non riusciva a parlare, a esprimersi, balbettava come un bambino al momento di pronunciare le prime parole. Irina abbassava il capo sconfitta e proseguiva a denti stretti. Lei sola davanti al potere assoluto aveva sovente un moto di orgoglio, un guizzo di rabbia. Sapeva per certo che era impossibile ribellarsi al potere. Ribellarsi significava andare incontro a ritorsioni, ripicche, delusioni. Davanti al potere che schiaccia meglio tacere, fingersi indifferenti, restare come manichini imbalsamati. La rabbia accumulata davanti agli abusi del potere la portava ad avere spesso crampi allo stomaco, problemi di tipo psicologico. Per rimetterla in sesto bastava poco: un sorriso di un bambino, un regalo inaspettato, un fiore colto, il sapore di un gelato, un panorama campestre o marino. Sul lavoro, dove il potere si esprimeva più duramente, aveva imparato a rimanere come una statua di sale. Aveva scisso per così dire la vita privata da quella lavorativa. Uscita dal lavoro tornava ad essere se stessa. Se sul lavoro era obbediente, remissiva, silenziosa, vestita di tutto punto fuori era più vispa, assaporava tutti gli attimi, godeva del mondo vestita con vaporosi abiti a fiori, truccata con un bel rossetto rosso. Il mondo che incontrava fuori era a colori, quello in ufficio in bianco e nero. In ufficio la mania del potere contagiava tutti, persino gli usceri privi di cultura. Tutti indistintamente volevano gente sotto di loro, da coordinare, da seguire. Ognuno voleva fare il capo di qualcosa o di qualcuno. Gente senza cultura, maleducata, ambiva a divenire capi di dipartimento. L’ambizione spingeva molti a non salutare, a guardare gli altri con sguardo torvo. Se qualcuno prendeva una promozione veniva perseguitato. L’ossessione di tutti era la carriera e il denaro che poteva scaturire da una posizione di privilegio. Gli altri potevano benissimo andare all’inferno. Compagni di stanza che non facevano neppure gli auguri di compleanno o li facevano a denti stretti. In occasione del Natale i rinfreschi fatti per scambiarsi gli auguri diventavano momenti di tensione. Persino a Natale l’ascia di guerra non era deposta. Durante queste feste di ufficio i dirigenti parlavano tra di loro ignorando i dipendenti, guardandoli dall’alto in basso. I dipendenti passavano il tempo in insulse chiacchiere, in pettegolezzi di bassa lega. Il natale era l’occasione per ostentare, per sottolineare la propria posizione e ricchezza, per insultare gli altri. Ognuno parlava di favolosi viaggi, di vacanze sulla neve, di alberi di natale giganti. All’apparenza sembravano tutti ricchi ma poi ogni tanto si scopriva qualche furto in ufficio, e si scopriva che a farlo era sempre un rispettabile collega. Molti si appropriavano di oggetti dell’ufficio, di soldi dei colleghi. Il bello era che questi ladruncoli da strapazzo venivano anche premiati. Irina non capiva come mai persone disoneste avevano la meglio. Donne di facili costumi trovavano marito, ladri venivano difesi e protetti, premiati con sostanziosi premi produzione. Il male non solo non veniva punito ma era di esempio per gli altri. Se si fosse comportata da donna leggera forse avrebbe avuto l’applauso di tutti, parenti compresi, se fosse stata disonesta forse avrebbe fatto carriera. Era di fronte a un mondo corrotto, che valutava le cose con una prospettiva rovesciata. Irina realizzò che non era il caso di avere figli. Era incapace di insegnare la cattiveria, il sotterfugio, la furbizia e nello stesso tempo non poteva condannare un essere innocente alla sconfitta perenne. Suo figlio/a avrebbe dovuto fare i conti, come lei, con il sopruso, con l’ingiustizia sociale, con la sopraffazione, con la menzogna, con l’invidia. La sua personalità non contava, veniva stracciata, fatta a pezzi, ridicolizzata. Allora l’unica arma di difesa poteva e doveva essere la scrittura. Con gli scritti avrebbe denunciato, raccontato, sputato fuori il rospo. Gli scritti sarebbero stati i suoi unici figli, parti dolorosi in un mondo in disfacimento, in perenne crisi di valori. Al posto del figlio avrebbe dovuto trovare una persona di cui occuparsi. Al lavoro l ’amicizia, la stima reciproca erano impossibile. Venivano bruciate occasioni importanti. Una amicizia sincera poteva dare i suoi frutti. Al lavoro contava solo chi aveva fatto in qualche modo carriera. Non importava come si era giunti a scalare le vette del potere, contava solo il titolo, il risultato. L’onestà per lei non aveva prezzo, per molti era un valore inesistente. Il destino stesso dava loro ragione. Venivano sempre premiati quelli più furbi, non quelli più onesti.. Il mondo era adatto per tutti quelli che avevano ottenuto dei successi. Le riviste di moda sottolineavano sempre il successo di persone dello spettacolo, del calcio, della politica. Mondi che tra loro andavano a braccetto. I calciatori sposavano sempre una ballerina, una attrice, mai una donna qualunque, una intellettuale, una insegnante, una persona semplice. La ricchezza di coniugava bene solo con la bellezza pura, assoluta. Loro, lei e Dario, stavano dietro le quinte o tra il pubblico ad applaudire il successo degli altri. Comparse destinate a scomparire come tutte le persone inutili. Un primo passo poteva essere quello di unirsi ad altre persone inutili, per fare una sorta di barriera contro il male, contro il veleno dei superbi. Con il tempo non passava giorno che non si incontravano. Si vedevano casualmente al supermercato, al cinema, nelle piazze, nei locali la sera. Era come se il destino favorisse il loro ritrovarsi, il loro farsi compagnia. Non si sopportavano forse tanto ma intanto non stavano da soli. Caratterialmente erano diversi, diverso il loro modo di concepire la vita, diverso il loro sentire. Dario era più pratico, meno colto, più distratto e superficiale. Irina era più raffinata, più amante della cultura, più sensibile. Lui come tutti gli uomini era razionale, non credeva ai sogni, ai sentimenti. Si incontravano spesso nelle librerie, nelle biblioteche, in circoli privati gratuiti, nelle mostre, nelle visite dei presepi nelle chiese durante il periodo natalizio, nei mercatini dell’usato. Avevano cominciato quasi per scherzo a frequentarsi nei soli fine settimana, per combattere la noia dei pomeriggi afosi d’estate, il freddo delle lunghe sere di Gennaio. Si divertivano insieme a loro modo. Lei poteva presentarsi agli incontri vestita come meglio credeva. Invece ogni volta che usciva con un uomo doveva bardarsi e vestirsi in modo adeguato. Molti uomini l’avevano rimproverata di vestire in modo sciatto, di non portate abiti provocanti e tacchi altissimi. A pretendere il massimo poi erano sempre uomini mediocri. E se avesse preteso lei il massimo una buona volta, dopo tante pene d’amore? Non compravano loro due oggetti firmati e tecnologici, non spendevano denaro inutilmente, non frequentavano locali esclusivi. Si limitavano a guardare le sfilate di carri a Carnevale, a mangiare una pizza la domenica sera, a fare una passeggiata rilassante. Forse si detestavano, Dario dimostrava segni di insofferenza, ma capivano che non potevano fare a meno l’uno dell’altra. Dario era il baluardo, l’amico con cui confidarsi e raccontare le sconfitte sul lavoro, Irina era per lui la fata che con il suo sorriso gli porgeva la porzione magica per andare avanti durante la settimana. Lei era la droga, una droga sintetica, costruita a tavoli, dal sapore strano, ma pur sempre un palliativo curativo. Lui era per lei un punto di riferimento sostanziale. Quando le donne la guardavano di traverso con sguardo indagatore, osceno, sospettoso, malefico, invidioso, perfido, superbo, quando gli uomini la corteggiavano in modo volgare, quando i superiori e colleghi la maltrattavano, rivolgendole parole offensive lei pensava al suo punto fermo, al momento che avrebbe rivisto il suo amico, lontano da casa, lontano dall’ufficio, lontano dal mondo. Si era creata la sua nicchia, il suo nido caldo e non avrebbe permesso a nessuno di entrarci. Se anche per caso avesse trovato un fidanzato avrebbe dovuto sempre fare i conti con la presenza ingombrante di Dario. Avrebbe dovuto conviverci come si convive con altre persone sotto lo stesso tetto. Non avrebbe mai più fatto lo sbaglio di abbandonare tutti per lanciarsi a capofitto dentro una relazione sentimentale, che una volta finita, l’avrebbe lasciata completamente sola e vulnerabile. Gli uomini facevano presto a rifarsi una vita. Bastava che si guardassero intorno per avere subito a portata di mano la sostituta. Per le donne, per lei così sensibile, era difficile ricominciare, voltare pagina. Il fidanzato di turno avrebbe dovuto farei conti con questa realtà: non sarebbe stato totalmente al centro dei suoi interessi, dei suoi pensieri. C’era sempre l’ombra grassoccia di Dario. In fondo era la giusta punizione per aver lasciato al suo destino una donna piena di risorse, delicata, educata, onesta anche se non bella, non aggressiva. I fidanzati, se ce ne fossero stati, ma gli uomini si guardavano bene di avvicinarsi a lei, come avesse la lebbra, avrebbero dovuto condividere, generosi, la loro conquista, la loro preda. Nessuno poteva più toglierle i suoi punti di riferimento, i suoi silenziosi compagni di viaggio: la scrittura. l’amico Dario, la lettura. Aveva pochi hobby ma amava coltivarli in disparte con devozione, con coraggio, con intenzione. Collezionava cartoline illustrate, bambole di porcellana, francobolli di diversi paesi, foto di gatti. I felini erano la sua passione, forse perché erano l’immagine della libertà, della fierezza, dell’autonomia. I gatti non si potevano tenere al guinzaglio, andavano e venivano in casa a loro piacimento e avevano sempre bisogno di attimi, di spazi liberi. I gatti erano capaci di assentarsi per poche ore, ma che erano decisive per il loro svago, per il loro equilibrio. Anche lei per la sua stessa salute mentale aveva bisogno di respirare, di spazi liberi. Odiava le costrizioni, le regole rigide, i paesi dove tutti sapevano di tutti, difendeva l’anonimato, la libertà personale. Era uno spirito libero che amava l’aria aperta, il mare, i viaggi, i voli della fantasia. Aveva una accesa fantasia, una fervida immaginazione. Aveva molti difetti che sapeva che solo lei e Dario potevano sopportare veramente: era rabbiosa, a tratti vendicativa, distratta, molle alcune volte, collerica, svagata, disordinata, priva di fascino, maldestra, ingenua, sempre stanca. Infatti la stancavano le offese della gente, i pettegolezzi maligni, le guerre fratricide, la volgarità gratuita, l’invidia manifesta, i raptus di follia, la disonestà accompagnata dalla furbizia, le mancanze di rispetto, l’idiozia di un mondo in cancrena. Sentiva l’odoro stantio del mondo nelle amicizie false, nelle faide familiari, negli intrighi di palazzo, nelle morti repentine, nelle malattie violente, nello stesso destino avverso, lo stesso che aveva a più riprese, colpito lei, senza motivo. Ma cosa era stata veramente la sua vita? Se non un cadere sotto i colpi del tradimento, della menzogna, del dolore. Si era sempre risollevata grazie ai suoi punti di riferimento, ai quei punti che si era creato a costo di enormi sforzi. Aveva dovuto vincere la sua naturale diffidenza per uscire con Dario, aveva dovuto violentare la sua anima per riuscire a scrivere tutto quanto riguardasse la sua vita da vicino. E ogni cosa ha un prezzo. Lei aveva buttato sangue per ottenere un posto nel mondo, aveva pagato a caro prezzo la sua onestà. Se si fosse comportata in modo più leggero, più disinvolto avrebbe ottenuto di più, o forse era una pia illusione. Il destino riservava brutte sorprese anche alle persone scaltre, solo che queste tendevano a mascherare. Nessuna persona fanatica racconta mai le sue sconfitte. Eppure le sconfitte rivelano il lato umano di una persona. Irina aveva perso il conto delle sconfitte che aveva accumulato, ed ora cercava un riscatto anche solo attraverso lo sfogo di una pagina scritta, una carezza data a Dario in tutta fretta. Irina si domandava sempre da dove erano cominciati i suoi guai, forse dalla sua stessa nascita.

 

Ester Eroli

 

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