Il Parlamento dei tanti partiti non previsti

Non è più il Parlamento del voto utile. Se c’era una caratteristica che aveva contraddistinto le elezioni del 2008 era il voto utile: votare cioè i partiti con le più alte percentuali di voto secondo i sondaggi (anche a costo di turarsi il naso) in modo che il governo scaturito dalle urne fosse duraturo e non dovesse sottostare ai diktat dei partiti più piccoli, com’era capitato al governo Prodi. Una prospettiva, secondo i promotori, atta a garantire quindi la governabilità del paese. Ebbene, subito dopo le elezioni, alla e al Senato c’erano soltanto 6 partiti (a parte il SŨDTIROLER VOLKSPARTEI che si rifà a una minoranza linguistica): Popolo della Libertà, Partito Democratico, Italia dei valori, Unione di Centro, Lega Nord e Movimento per le autonomie (quest’ultimo non decisivo per la maggioranza). Adesso? I tre deputati del Partito Repubblicano, confluito nel Pdl in occasione delle elezioni, hanno dato vita al gruppo misto Repubblicani Regionalisti Popolari. Rutelli, Tabacci e Di Leo l’11 novembre 2009 hanno fondato l’ApI, Alleanza per l’Italia, staccandosi dai partiti con cui erano stati eletti. Il più importante, in termini numerici, è ovviamente Futuro e Libertà per l’Italia: il partito di Gianfranco Fini è il nuovo ago della bilancia del governo. Senza dimenticare il gruppo misto che conta oltre 30 deputati e poco più di 10 senatori; le minacce di scissione da parte dei Radicali dal Partito Democratico e il documento di Veltroni firmato da 75 parlamentari.

 

Raffaele Zanfardino

 

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