Il resoconto al capolinea della vita

Il resoconto al capolinea della vitaOgni giorno ci stordiamo con tuffi profondi nella quotidianità. Accettiamo di buon grado di comprare un regalo, di gustare un gelato, di ballare nel fracasso di una discoteca. Il mondo ci viene in soccorso con le sue meravigliose lusinghe, con i suoi insaziabili piaceri. Quando siamo felici, sereni il mondo ci appare tranquillizzante, mai freddo e brutale. Infinite possibilità ci consentono di essere allegri. Nella nostra visione riduttiva conta solo il carpe diem. Ogni giorno vendiamo fumo, siamo disposti a inventarci la felicità pur di non soccombere. Sappiamo che la vita deve continuare e la sera ci rigiriamo nel letto troppo stanchi per pensare, ansiosi solo di riposare. Alla sera nel buio ci assalgono le solite paura: perdere il posto di lavoro, l’amore, l’amico del cuore. Ogni situazione ci fa provare un po’ di paura. Affrontiamo sempre tutto con dignità dimenticando le brutte esperienze, l’indifferenza degli altri, l’esasperazione, l’aggressività dei giovani. Ci avventuriamo fiduciosi dimenticando le lotte vissute sulla pelle, le difficoltà. Guardiamo smarriti il passare degli anni. Abbiamo mille paure, mille tormenti ma non pensiamo mai al momento finale, al capolinea. La paura peggiore dovrebbe essere la solitudine della morte, ma nessuno ci pensa mai.

Eppure al momento del trapasso siamo sempre immancabilmente soli. Al momento della verità, del congedo dal mondo, al momento della resa dei conti, del pagamento del debito, quando siamo più disposti a vuotare il sacco non c’è mai nessuno. Siamo soli davanti al male che avanza, con una espressione inorridita, corrucciata. Eppure davanti alla gravità della situazione non chiamiamo nessuno, nessuno deve sapere. Gli altri scompaiono volutamente assorbiti da altre faccende. Nessuno ode i nostri lamenti, le nostra grida isteriche. Sconcertati guardiamo il mondo proseguire la sua corsa, come niente fosse, come se noi fossimo già fantasmi, già niente. Così veniamo a sapere della morte di qualche vecchina molto tempo dopo, a funerali avvenuti. Veniamo a sapere che i nipoti non erano presenti alla cerimonia funebre perché in viaggio di piacere e non se la sono sentita di rientrare con il primo aereo disponibile. La vecchina ha portato avanti la sua vecchiaia solitaria e triste, con dignità e fermezza. Anzi gli ultimi giorni di vita li ha passati a parlare male degli altri, a ridere dei miseri, a scrollare le spalle sulle disgrazie altrui, a fare capricci, a maledire gli altri, a desiderare per invidia la loro rovina dando l’impressione di essere una roccia che niente può scalfire. In fondo anche lei ha sempre pensato che la morte è qualcosa che colpisce gli altri. La sua sparizione non genera profondo dolore, in fondo si può fare a meno della sua vita senza importanza, delle sue frasi pungenti.

Alcuni appaiono sollevati, stanchi mortalmente dei suoi soprusi. Siamo così inaccessibili, chiusi nelle nostre gabbie, da avere il coraggio di sparire senza una parola di commiato, un saluto, un ricordo. La prospettiva scioccante, agghiacciante è quella di morire senza parole, di sparire da un giorno all’altro senza ricordi, volutamente sostenuti fino all’ultimo quando indossiamo l’abito della festa per l’ultimo viaggio di rito. Al capolinea accettiamo quella solitudine della morte avvolta nel silenzio, nel riserbo. Non accettiamo discorsi, lusinghe, incontri. Per pudore, per timidezza ci sottraiamo agli altri e ci lasciamo prendere al laccio dalla morte. Intorno a noi solo desolazione, una squallida stanza di ospedale dove non c’è più nessuno a ascoltare il nostro respiro. Fino alla fine tormentiamo le persone, ci lasciamo tormentare, sempre pronti sulla breccia. Accettiamo la solitudine della morte perché ci sembra l’unica via d’uscita, l’unica soluzione per uscire a testa alta, per non uscire sconfitti. Chi non ci vede più a spasso per le vie del quartiere può sempre pensare che stiamo facendo una vacanza.

Dovremo ricominciare da zero, ridisegnare i rapporti umani, dovremo alla fine avere parole per gli eredi anche se pronunciate con un filo di voce. Dovremo decidere di parlare la mondo, di esporsi, pretendere di essere circondati fino all’ultimo di affetto. Dovremo impartire ordini, dare consigli, invitare alla pace, ammettere i nostri errori. Invece il destino ci condanna alla solitudine e noi decidiamo volutamente di essere soli. Moriamo come clandestini su una nave nel mare in tempesta, sconosciuti, irriconoscibili. Dovremo cambiare abitudini, educare l’anima, cambiare in fretta direzione prima che sia troppo tardi, prima che i funerali siamo fatti da un numero sempre più circoscritto di persone. Dovremo imparare a metterci più spesso nei panni degli altri, diventare altre persone, consapevoli di essere persone, mortali ma umane, gentili. Alla fine sarà il cuore a vedere, a capire la bravura di una persona. La decisione finale spetta al cuore, non alla morte, lei porta via il corpo, non l’anima.

 

Ester Eroli

 

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