Eppure al momento del trapasso siamo sempre immancabilmente soli. Al momento della verità, del congedo dal mondo, al momento della resa dei conti, del pagamento del debito, quando siamo più disposti a vuotare il sacco non c’è mai nessuno. Siamo soli davanti al male che avanza, con una espressione inorridita, corrucciata. Eppure davanti alla gravità della situazione non chiamiamo nessuno, nessuno deve sapere. Gli altri scompaiono volutamente assorbiti da altre faccende. Nessuno ode i nostri lamenti, le nostra grida isteriche. Sconcertati guardiamo il mondo proseguire la sua corsa, come niente fosse, come se noi fossimo già fantasmi, già niente. Così veniamo a sapere della morte di qualche vecchina molto tempo dopo, a funerali avvenuti. Veniamo a sapere che i nipoti non erano presenti alla cerimonia funebre perché in viaggio di piacere e non se la sono sentita di rientrare con il primo aereo disponibile. La vecchina ha portato avanti la sua vecchiaia solitaria e triste, con dignità e fermezza. Anzi gli ultimi giorni di vita li ha passati a parlare male degli altri, a ridere dei miseri, a scrollare le spalle sulle disgrazie altrui, a fare capricci, a maledire gli altri, a desiderare per invidia la loro rovina dando l’impressione di essere una roccia che niente può scalfire. In fondo anche lei ha sempre pensato che la morte è qualcosa che colpisce gli altri. La sua sparizione non genera profondo dolore, in fondo si può fare a meno della sua vita senza importanza, delle sue frasi pungenti.
Alcuni appaiono sollevati, stanchi mortalmente dei suoi soprusi. Siamo così inaccessibili, chiusi nelle nostre gabbie, da avere il coraggio di sparire senza una parola di commiato, un saluto, un ricordo. La prospettiva scioccante, agghiacciante è quella di morire senza parole, di sparire da un giorno all’altro senza ricordi, volutamente sostenuti fino all’ultimo quando indossiamo l’abito della festa per l’ultimo viaggio di rito. Al capolinea accettiamo quella solitudine della morte avvolta nel silenzio, nel riserbo. Non accettiamo discorsi, lusinghe, incontri. Per pudore, per timidezza ci sottraiamo agli altri e ci lasciamo prendere al laccio dalla morte. Intorno a noi solo desolazione, una squallida stanza di ospedale dove non c’è più nessuno a ascoltare il nostro respiro. Fino alla fine tormentiamo le persone, ci lasciamo tormentare, sempre pronti sulla breccia. Accettiamo la solitudine della morte perché ci sembra l’unica via d’uscita, l’unica soluzione per uscire a testa alta, per non uscire sconfitti. Chi non ci vede più a spasso per le vie del quartiere può sempre pensare che stiamo facendo una vacanza.
Dovremo ricominciare da zero, ridisegnare i rapporti umani, dovremo alla fine avere parole per gli eredi anche se pronunciate con un filo di voce. Dovremo decidere di parlare la mondo, di esporsi, pretendere di essere circondati fino all’ultimo di affetto. Dovremo impartire ordini, dare consigli, invitare alla pace, ammettere i nostri errori. Invece il destino ci condanna alla solitudine e noi decidiamo volutamente di essere soli. Moriamo come clandestini su una nave nel mare in tempesta, sconosciuti, irriconoscibili. Dovremo cambiare abitudini, educare l’anima, cambiare in fretta direzione prima che sia troppo tardi, prima che i funerali siamo fatti da un numero sempre più circoscritto di persone. Dovremo imparare a metterci più spesso nei panni degli altri, diventare altre persone, consapevoli di essere persone, mortali ma umane, gentili. Alla fine sarà il cuore a vedere, a capire la bravura di una persona. La decisione finale spetta al cuore, non alla morte, lei porta via il corpo, non l’anima.
Ester Eroli