L’Aquila e il Dragone vittime del capitalismo

L'Aquila e il Dragone vittime del capitalismo“Dopo la ‘Primavera araba’ e ‘l’Estate europea’, il mondo si è trovato a dover far fronte ad un ben più impetuoso ‘autunno americano’, culminato nell’occupazione di Wall Street. Eppure, nonostante sia stato bollato dall’ala più conservatrice come ‘movimento di massa’ e ‘lotta di classe’, secondo alcuni analisti, questo non sarebbe che il normale mezzo utilizzato dal popolo americano per esprimere, aspirazioni comuni. Ora sulla scia di questa mobilitazione altalenante, e in prossimità dell’arrivo dell’inverno newyorkese, l’occupazione di Wall Street sembra essere entrata in una fase di declino. D’altra parte, io ritengo che, dopo duecento anni di storia di capitalismo americano, il fermento degli ultimi tempi sia il primo sintomo di un risveglio, è la voce della democrazia di massa o, forse, è la prima avvisaglia di un’ondata di rinnovamento sociale che indica che il sistema capitalistico americano è quasi giunto alla sua fase conclusiva.”*

Con queste parole si apre “Il capitalismo americano verso un futuro migliore” (Meishi zibenzhui mianlin gailang), articolo dal titolo ingannevole- pubblicato il 1 novembre sul sito della “Tribuna del Popolo”, propaggine più moderata del filogovernativo “Quotidiano del Popolo” (Renmin ribao) – in cui Jiang Yong, direttore dell’Economic Research Center presso il China Instiute of Contemporary International Relations (CICIR), fornisce un’interpretazione tutta “in caratteri cinesi” delle recenti proteste di Wall Street e della fine del “sogno americano”. Secondo l’autore, il libero mercato e la politica economica del lasser faire hanno guidato gli Stati Uniti verso un vicolo cieco in cui la forbice tra ricchi e poveri ha raggiunto un’ampiezza ormai ingestibile.

D’altro canto, Jiang era già noto in Patria per aver scritto “I nostri giorni felici sono giunti alla fine?” (Women de hao rizi dao tou le ma), un testo il cui titolo non fa presagire nulla di buono e il contenuto ancora meno; l’opera, infatti, si snoda lungo il filo conduttore di un progressivo ed inevitabile declino. Sotto un turbine di minacce interne ed esterne, il futuro della Cina appare sospeso nell’incertezza: un mix letale di proteste sociali, inflazione galoppante, crisi ambientale e corruzione politica va a sommarsi alle numerose sfide che attendono il Dragone sulla scacchiera internazionale. Ora più che mai il titolo di “fabbrica del mondo” è sospeso ad un filo, continuamente corteggiato dai nuovi Paesi emergenti, India e Brasile in primis.

Ma dove va ricercata l’origine di questi mali che sembrano mettere a repentaglio il secondo posto sul podio delle economie mondiali, conquistato faticosamente da Pechino in trent’anni di riforme? Jiang sembra non avere dubbi: la bestia nera è il “capitale”. Meglio. “L’amore per il capitale”; un amore tanto profondo e insano da diventare una malattia (ai ziben bing). Tra le prime vittime del contagio, ovviamente, compaiono i funzionari e le varie diramazioni a livello locale della macchina governativa cinese, particolarmente suscettibili al fascino di quel flusso di investimenti che da oltremare si sono riversati generosamente all’interno dei confini della Grande Muraglia. Insomma, l’autore del libro dipinge l’immagine di una Cina, che schiava dei capitali stranieri e sedotta dalle multinazionali, venera il dio denaro, rinnegando i principi etici tramandati dai padri confuciani e dal socialismo maoista.

D’altra parte, volendosi appellare alla saggezza popolare, il detto “mal comune mezzo gaudio” potrebbe in questo caso lasciare uno spiraglio di luce al Celeste Impero: il Dragone e l’Aquila, secondo le proiezioni di Jiang, affonderanno insieme, trascinati negli abissi dal peso di quei lingotti d’oro che avevano accumulato con tanta cupidigia.

A quanto pare, sebbene divise da disuguaglianze ideologiche e da aspri conflitti d’interesse, Pechino e Washington qualcosa in comune sembrano pur sempre averlo.

*(Segue la traduzione dell’articolo “Il capitalismo americano verso un futuro migliore”)

“Il capitalismo del lasser faire, a parole, fa del concetto di libertà il suo baluardo, ma in definitiva si basa pur sempre sul capitale, secondo un contorto sillogismo per il quale più una persona è in grado di controllare ricchezze e capitali, più risulterà essere libera. In questi ultimi duecento anni, il capitalismo si è adattato a ogni tipo di assalto, proveniente sia dall’interno che dall’esterno, dando prova di grande vitalità. Punto di forza, un buon meccanismo di auto-organizzazione; quello che il famoso economista Schumpter ha definito ‘distruzione creativa’. Così, mentre il sistema capitalistico stimolava una grande forza produttiva, allo stesso tempo, accumulava anche un enorme potere distruttivo.

Ora come risultato del bilanciamento tra queste due nature contrastanti, solo una ristretta cerchia di persone può godere dei benefici derivati dal potere creativo del sistema, mentre sulla massa incombe l’onere di pagare il prezzo della sua forza devastante, che equivale a ciò che è accaduto in passato tra Paesi sviluppati e sottosviluppati. Ma adesso, con il fenomeno della globalizzazione, della finanziarizzazione e della informatizzazione, i Paesi più arretrati si sono destati dal loro torpore, i mercati emergenti sono in progressiva ascesa, e le nazioni sviluppate incontrano sempre maggior difficoltà nel trasferire altrove i costi di questo potere distruttivo, mentre cresce il peso sui propri cittadini, acuendo le contraddizioni sociali entro i propri confini.

Il capitalismo del lasser faire statunitense ha portato questa ‘distruzione creativa’ ai più alti livelli: la massa si è spartita una ‘libertà nominale’, mentre i più ricchi hanno goduto dei vantaggi derivati dalla ‘libertà reale’, massimizzando le contraddizioni all’interno del sistema capitalistico ed estendendole in più aree. Ma alla fine, sotto i colpi inferti dalla crisi finanziari, tutto ciò è, inevitabilmente, degenerato nelle note proteste di Wall Street.

Alla fine del XIX secolo, gli Stati Uniti avevano già effettuato il grande sorpasso sull’Inghilterra divenendo il Paese più ricco del mondo, ma la vecchia e nuova ‘aristocrazia ladra’, dall’inizio alla fine ha arraffato, con crescente cupidigia, sempre più fette di quella torta, lasciando al popolo porzioni via via più misere, con il risultato che oggi ai cittadini non restano che poche briciole. Secondo le stime di alcuni economisti, se il 1 gennaio 2000 il reddito reale delle famiglie americane corrispondeva a 100, oggi equivale soltanto a 89,4; in altre parole, rispetto a dieci anni fa, le rendite di una famiglia media si sono ridotte di più del 10%. Che è come dire che solo l’1% dei redditi è stato interessato da una crescita del 18%.(…)

Ora, negli Stati Uniti, il risultato della divisione della torta-capitalismo consiste nell’opposizione tra un’isola deserta di pochi facoltosi e un mare senza limiti di persone disagiate. Il governo, prigioniero delle risorse finanziarie dei capitali, vivendo nell’incubo del ‘too big to fail’ o di un rischio sistematico, ‘ha rubato ai poveri per dare ai ricchi’; ha utilizzato i soldi dei comuni contribuenti per salvare i predatori senza scrupoli di Wall Street, in modo da far sì che questi “piromani” potessero atterrare dolcemente sostenuti dal loro ‘paracadute dorato’, e dandogli la possibilità di impossessarsi di decine di milioni di dollari, se non di miliardi. Nel riflesso di questo tramonto di sangue, la recessione finanziaria ha dato il vita ad un fin troppo chiaro contrasto: quello tra il 99% della popolazione, che vive nelle più misere ristrettezze economiche, e l’1% che continua a mantenere ampia libertà di movimento, avvalendosi della totale impunità.

Ma, grazie alla crisi finanziaria, il popolo americano sembra aver finalmente aperto gli occhi, cominciando a scorgere davanti a sé una nazione che non combacia con lo schizzo realizzato dalla mano dei Padri Fondatori e dei grandi politici. E’ il Paese di quell’1% di ricchi, di quell’1% che governa e gode dei frutti e che ha messo fine ‘al sogno americano’ di milioni di persone. Secondo Larsen, editorialista della rivista canadese ‘Adbusters’, la società contemporanea ha subito un lavaggio del cervello da parte delle aziende pubblicitarie, e la libertà delle persone è stata rimpiazzata da un nuovo surrogato, definibile come non-libertà; chiari sintomi, questi, del fatto che il sistema capitalistico, in tutto il Pianeta, è ormai affetto da gravi problemi. Studioso dei movimenti di massa, Larsen ritiene che i frutti della prima Rivoluzione Americana – quella di liberazione dal dominio britannico – siano stati colti e assaporati soltanto dalla cerchia di Wall Street e dai più ricchi, mentre la maggior parte dei cittadini continua ad essere esclusa dal banchetto, divenendo sempre più affamata. La vigilia della seconda Rivoluzione è già alle porte e l’occupazione del centro finanziario di New York rappresenta il primo grido di battaglia.

L’etica della società confuciana considera operosità e frugalità eccellenti virtù morali, in netta contraddizione con il capitalismo del lasser faire di stampo statunitense, il quale può essere riassunto nella massima ‘essere avidi è bello’. Sotto l’impulso di questa irrefrenabile voracità, i valori morali diventano indefiniti: il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto vengono quasi tutti sovrastati dalla logica del denaro, mentre l’élite senza scrupoli, appena ne ha l’opportunità indulge in facili guadagni. Wall Street, che è il cuore del capitalismo finanziario, ha trascinato questa voracità ai massimi vertici. L’essenza della cosiddetta ‘innovazione finanziaria’ e lo schema Ponzi sono stati alla base di numerose frodi, permettendo la realizzazione di furti alla luce del sole, e perpetuando quella che può essere definita una ‘strage silenziosa’. Ma il meccanismo di auto-organizzazione del capitalismo, che si basa sul principio del ‘ti dò ciò che mi avanza, e mi prendo anche ciò che non ti basta’ – in altre parole quello che viene definito in sociologia ‘Matthew effect’- continua ad alimentare l’avidità sociale, con il risultato finale che questa amorale legge del capitale finisce per incrementare l’ingiustizia sociale, la quale, per sua natura, induce alla trasformazione del pensiero.

La storia della società umana prende le forme dall’interazione tra una natura ciclica e una natura tendenziale, la cui crescita ha una struttura a spirale originata dal dualismo tra ‘l’anello della ripetitività’ e la ‘freccia del progresso’. Il capitalismo che ha già sperimentato, a più ripetizioni, la circolarità, in quanto crisi e prosperità si sono, per secoli, alternate ciclicamente, ha finito per assumere le sembianze di una fenice in continua rinascita. Ma adesso, in seguito al malfunzionamento del liberalismo economico, al fallimento del sistema democratico, al degrado morale dilagante e alla sconfitta della ‘distruzione creativa’, il capitalismo americano si trova faccia a faccia con una crisi a tutto campo: ora che ‘la freccia del progresso’ ha surclassato ‘l’anello della ripetitività’, la storia invoca l’aiuto di un nuovo modello.”

 

traduzione e testo di Alessandra Colarizi

 

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