Un ritorno

Siamo cresciuti al liceo con i versi di Montale dedicati alla Liguria, ci siamo nutriti dei versi del poeta Saba dedicati alla sua Trieste. Il nostro paese, le nostri origini ci sono rimaste bene o male nel cuore. Spesso siamo tornati dopo tanti anni al nostro paese. Ci siamo guardati intorno spaesati, smarriti come animali condotti al macello. Lo sguardo spaurito che si soffermava sul nuovo, la mente in febbrile fermento, agitata. Mille pensieri contorti hanno attraversato la nostra mente stupita. In apparenza tutto ci è sembrato normale, garbato, perfetto, anzi soddisfacente. Il sole che trafigge come in passato i vetri dei mosaici della cattedrale, la luce tersa che si scompone nei colori dell’arcobaleno, i rintocchi delle campane risuonano come un tempo, le logge assolate e le vecchie finestre di legno. Tutto intorno però sembra mutato: palazzi, case, giardini, prima un po’ nel degrado, ora sono stati ristrutturati. Case diroccate per la seconda guerra mondiale ora sono rinnovati. A distanza di anni i paesi si sono abbelliti di fontane zampillanti di acqua fresca, di nuove chiese, di interi palazzi ristrutturati in stile antico, di giardini con aiuole piene di fiori, di ponti nuovi di ferro in stile moderno. I privati hanno tutti ristrutturato di sana pianta le proprie abitazioni, le seconde case, con balconi pieni di gerani, con statue e gazebo in ferro battuto collocati nei giardini. Orti rigogliosi fanno la comparsa vicino alle case abitate. Gli occhi del paesano percepiscono quasi sempre un mondo lindo, pulito, coretto. Non ci sono oggetti fuori posto, sentieri molto dissestati. Eppure tornare al paese significa sentire una certa inquietudine anche davanti alla armonia più perfetta. Il cuore sussulta, freme perché sa che non è più come prima. Solo i profumi dei biscotti, l’odore delle frittelle è lo stesso. Una volta però il bar era pieno di anziani, giovani donne sorridenti si parlavano dalle finestre, gruppi di donne anziane, sedute sulle panche di legno, si parlavano a ogni ora del giorno. Ora se ritorniamo ci accoglie un silenzio scandito dai soliti rumori e dalla televisione. Tutti sono chiuse nelle case. Gli incontri sono più frettolosi, si limitano a poche strette di mano. La bellezza del luogo non viene condivisa con altri, viene vissuta in solitudine. L’edonismo sfrenato spinge ognuno a vivere per conto proprio come se gli altri non esistessero. Giovani del posto partono in groppa a lucenti moto in cerca di locali senza nemmeno salutare gli anziani soli seduti davanti alle porte di casa. Una desolazione, un’assenza di rapporti umani che prende alla gola, alla bocca dello stomaco, e procura una nausea notevole, una vertigine. Ognuno fa una vita avulsa dal contesto, una vita individuale, egoista, chiusa fra lo splendore di una casa rimessa a nuovo. Guardando dalla finestra della propria casa si può sognare di sentire voci di donne al mercato, chiacchiere di giovani ragazzi, grida di bimbi, sorrisi di ragazze amiche. Il paese del passato è un angolo caldo e unico che trova posto solo nel nostro cuore, perché nel frattempo è andato distrutto. Si conservano i ricordi fino alla fine dei nostri giorni. Dopo forse nessuno ricorderà più niente.

 

Ester Eroli

 

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