16 settembre 2000 (Romanzo epistolare)

Una vita difficile romanzo epistolareMi annoiavo continuamente, a parte i libri, niente mi divertiva, mi entusiasmava. Come smettevo di leggere il mondo mi appariva in bianco e nero, privo di senso, caotico e assurdo. Solo mia madre mi sosteneva, mi incoraggiava ma il solo affetto di lei a un certo punto non mi bastava. Ero diventata assetata di amore e di carezze. Volevo di più anche se fingevo di essere serena. Mascheravo bene la mia ambizione di emergere, di essere qualcuno. Volevo che almeno il mio nome fosse conosciuto, stimato, difeso. Volevo la considerazione degli altri, degli studiosi, dei professori. Volevo un riconoscimento della mia dedizione allo studio. Ero brutta, non ero amata ma avevo fatto strada nel mondo. Il mio era orgoglio puro, ambizione, voglia di riuscire. Tuttavia nessuno sembrava disposto ad ascoltarmi. Mandavo le mie poesie, i miei scritti nei vari concorsi letterari senza essere notata. Mia madre mi proteggeva, mi spronava, credeva in me. Mi sarei suicidata se non fosse stato per lei, non volevo darle un dolore, lei viveva in funzione di me. Lei mi coccolava, mi faceva dolci e pietanze prelibate, mi portava, nei limiti delle sue possibilità, in posti incantevoli dove non ero mai stata. Io ero sempre un po’ imbronciata, non riuscivo ad essere totalmente serena. Un tarlo mi rodeva l’anima, volevo vicino i miei coetanei volevo il successo. I mei spostamenti con lei erano sempre limitati, era chiaro che non potevo andare dappertutto. Questa disfatta mi bruciava. Ero invidiosa delle persone che potevano girare liberamente da sole magari in città d’arte bellissime, le mie preferite. La mia meta preferita oltre il mare e l’America erano le città ricche di tesori artistici. Amavo la vecchia Europa, le città che si affacciavano sul Danubio, la Germania con i suoi castelli e palazzi. Non amavo le città caotiche, corrotte come Hong Kong per intenderci. Mi sentivo portata per i viaggi, nel sangue avevo la febbre del viaggiatore: una smania furiosa che non mi dava tregua specie quando il tempo era bello. Con le belle giornate di sole mi prendeva l’ansia, volevo girare il mondo. L’inverno con il suo gelo non mi ispirava. In montagna avevo spesso vertigini e mal di testa. La neve mi metteva malinconia. Mi piaceva la montagna in estate con i suoi colori, adatta per essere immortalata nei mie quadri. Amavo i laghi, amavo visitarli, dipingerli in tutto il loro splendore malinconico. Il lago mi dava uno struggimento languido che alimentava la mia vena poetica. Sulle rive del lago dipingevo, leggevo, meditavo. Mi perdevo a guardare l’orizzonte pieno di foschie e nebbie, tipiche delle zone di lago. Al lago dimenticavo persino chi ero, mi rilassavo, mi abbandonavo in una sorta di piacere amaro. Una gioia che aveva una punta di amaro, data da quella inspiegabile malinconia soffusa. Ero serena, sorridevo ma non ridevo di felicità. Il lago era solo un nido caldo dove potevo rifugiarmi per sfuggire alle grinfie del male di vivere. Mi ritempravo all’aria aperta, mangiando pesce, che adoravo e poi tornavo alla stancante routine. Il lago spezzava il flusso dei giorni tutti uguali. Dopo molto tempo anche al lago mi stancavo: le stesse facce, lo stesso bar, lo stesso paesaggio, Ero ansiosa di conoscere sempre posti nuovi e non potevo fossilizzarmi in angusto buco di periferia, seppure sulle rive di un ridente lago. Quando vedevo arrivare la primavera già mi sentivo in fibrillazione, pronta per un nuovo viaggio. Ero come un vino spumeggiante costretto a stare per anni chiuso in una cantina. Avevo sempre voglia di uscire a primavera, per vedere il risveglio della natura, ma mi trattenevo. Non avevo i numeri per girare tranquilla e spensierata con i capelli al vento per le vie della mia città. Pensieri funesti spesso mi attraversavano la mente. Ora ero giovane e avevo vigore nelle membra, ma da anziana cosa avrei combinato? Chi mi avrebbe accudito? Dove sarei finita? Avrei fatto ancora qualche gita o viaggio? Ogni tanto ora viaggiavo con mia madre, ma dopo che ne sarebbe stato di me?

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