2 settembre 2000 (Romanzo epistolare)

Una vita difficile romanzo epistolareVedo con piacere che sei intelligente, hai capito come andò a finire. Mi innamorai perdutamente di quel ragazzo, senza speranze. Sapevo chi era, sapevo come era la sua anima, eppure lo amavo. Sono sempre i ragazzi più spregiudicati a far innamorare le donne indifese, quelle dolci e remissive. Le donne per certi turpi soggetti fanno di tutto. Io vedevo tutti i suoi difetti ma l’attrazione superava tutto. Era un’attrazione irresistibile, disumana, violenta. Questa mia infatuazione mi faceva capire come fosse fondamentale l’aspetto fisico. Era bastato lo sguardo di quegli occhi neri profondi per farmi sprofondare nella disperazione più nera. Ero letteralmente perduta. Precipitai lentamente nella depressione. L’oggetto del mio amore era lontano anni luce e per giunta desiderato da molte altre donne che non erano me. Ero gelosa, invidiosa delle altre che potevano avvicinarlo, conoscerlo nel profondo. Essendo una donna poco appetibile mi dovevo accontentare delle briciole. La cosa peggiore in tutto questo era che anche io mi ero lasciata prendere al laccio dal demone falso, effimero della bellezza. Nonostante tutti i discorsi che mi ero fatta, tutte le teorie sulla bellezza interiore per consolarmi, ero caduta nella trappola, nella tagliola. I fatti davano ragione alla massa di persone che seguivano il mito della bellezza. Cominciai a dedicarle poesie, la mia vena poetica si fece più acuta, più penetrante, più interessante. Le pene d’amore mi facevano scrivere versi meravigliosi. La mia arte si irrobustì. Consolidai il mio stile, che divenne più fluido, più piacevole. Innamorata, acciecata dalla luce della bellezza, scrivevo frasi divine, capolavori. Non so se il mio fosse vero amore o semplice amore del bello. Io ero convinta di amarlo, di amare ogni espressione del suo volto, ogni piega del suo collo, ogni lampo dei suoi occhi corvini. Due sono le molle che spingono verso l’arte: il dolore e l’amore, che sono poi legati fra di loro in modo indissolubile. Infatti chi ama prima o poi soffre terribilmente. Io amando, o almeno così credevo, soffrivo. Soffrivo e nello stesso tempo vivevo in una specie di estasi. Forse la mia era solo un’attrazione fisica, ma comunque vi era anche un notevole coinvolgimento emotivo. Io non sapevo definire l’innamoramento, non conoscevo i reali sintomi della malattia d’amore, ignoravo le palpitazioni d’amore fino allora. Non sapevo classificare a pieno il mio sentimento. Non avevo mai parlato con nessuno di questo sentimento nuovo. Era come se fossi ubriaca, vivevo un’esperienza elettrizzante, fuori del comune, fantastica che mi faceva sognare e perdere il contatto con la realtà. Ero svagata, inappetente, insonne, incapace di concentrarmi, amorfa. Nello stesso tempo mi sentivo debole, languida, sensuale. Ero pallida, avevo palpitazioni frequenti, riposavo male, fantasticavo. Quell’amore era una specie di malattia, solo che non esisteva una valida cura. Rischiavo di divenire una malata cronica. Il mio era un sentimento doloroso perché non ricambiato. Sapevo a cosa andavo incontro ma continuavo imperterrita su quella strada. Mi illudevo in certi momenti di farcela, di liberarmi del peso crudele di quel fardello noioso. Ma io vivevo di quei momenti intensi e perfidi che mi dilaniavano. Sognavo di riuscire a conquistare l’oggetto del mio amore magari con la semplice grazia, con la gentilezza dei modi, con l’innocenza, con il sorriso, con la luce dei miei occhi. Credevo che bastassero delle qualità per far colpo su un uomo. Come ero lontana dalla verità! Nessun vero uomo apprezza le qualità di una donna, quelle caratteriali. Per l’uomo altre sono le cose che contano, fondamentali. Bisogna essere sensuali, voluttuose, capricciose, misteriose, piccanti, intriganti, svagate, sexy. Non conta essere belle, se questa bellezza è statuaria non dice nulla. Se la donna bella è timida non salta agli occhi e quindi è meno vistosa, meno appetibile. Le donne con il diavolo in corpo sono quelle che riscuotono più successo. Alcune donne perfide, maligne con le altre donne sono molto amate, perché magari con gli uomini sono pasta di mandorle. La donna deve essere focosa, accendere i sensi, provocante. Io ero una creatura angelica, timida, ingenua. Non potevo colpire il cuore di nessuno. Aldilà del mio problema di salute, ero banale, scontata. Non ero misteriosa. Il mio carattere era palese, evidente. Di me si indovinava tutto, solo le gambe non si vedevano bene. E questo a lungo andare poteva essere un problema. Ero pura, cristallina, un libro aperto. Non ero intraprendente, disinvolta, disinibita. Ma come potevo essere sbrigliata con il mio handicap? Mi trovavo chiusa in un labirinto, il mio cuore stretto per la prima volta in una morsa mortale. Il ragazzo non mi degnava neppure di uno sguardo, per lui non esistevo come donna, esistevo solo come persona, di sesso indefinito, per lui non avevo sesso. Un giorno accadde l’irreparabile. Al posto di lui venne a prendermi Giulia una ragazza molto carina del gruppo. Lui era impegnato in una recita nel teatro parrocchiale. Mi sarebbe piaciuto vederlo recitare, o forse lo faceva già vivendo. Giulia era l’opposto di me in tutti i sensi, fisicamente e caratterialmente. Lei era formosa al punto giusto, garbata, con lo sguardo altero. Aveva uno sguardo sensuale, lascivo e non credo che ne fosse consapevole. Aveva un corpo etereo, magro e nello stesso tempo aveva le forme al punto giusto. Aveva il volto di una diva con tutto quel mascara nero e quell’ombretto azzurro lucido. Le gambe snelle comparivano sotto una gonna attillata di pelle nera. La camicetta velata nera lasciava intravedere le grazie. Forse si era vestita così casualmente o lo faceva di proposito. Il suo abbigliamento era stabilito a tavolino, studiato. Io mi vestivo il più delle volte come capitava. Non davo importanza alla forma, ma alla sostanza. Giulia poteva far girare la testa a un uomo. Arrivati in chiesa il mio lui la baciò in modo inequivocabile. Sicuramente era la sua ragazza, non l’avevo capito al volo. Avevo il difetto di non notare i particolari, di non riflettere. Lui sembrava stordito, trasognato, pazzo d’amore, inebriato. La guardava come si guarda una statua greca pregiata. Aveva fatto la sua scelta ed io ero di nuovo esclusa dalla sua vita, dalla vita. La immaginavo già vestita da sposa arrivare sul sagrato della chiesa con gli occhi puntati addosso. Avrei dovuto in quella circostanza mostrarmi felice, serena, allegra. Fingere allegria e morire dentro. Avrei voluto gridare, urlare, strepitare. Ero arrivata a un punto morto, dopo ci sarebbe stato l’abisso, il fosso. Avevo visto abbastanza per sentirmi mancare la terra sotto i piedi. La testa mi girava veloce, immagini sfocate mi danzavano davanti agli occhi, mi tremavano le mani, mi sudava la fronte. Non ero in grado di controllarmi, di ragionare. A un certo punto spinsi da sola la sedia a rotelle e uscii nell’atrio della chiesa, dovevo prendere aria. Lentamente grosse lacrime come gocce di pioggia mi scendevano sulle gote. Per non farmi vedere piangere decisi di tornare a casa da sola. Lo sguardo sfacciato di Giulia mi aveva tramortito. Non cedevo che in amore si potesse essere così audaci, così insistenti. La gente per la strada mi guardava sprezzante, quasi irritata dal mio pianto. Era tutto così logico, preciso, scontato. Un giovane attraente aveva fatto colpo sulla ragazza più carina del gruppo. I due poli che si attraevano come calamite, avendo la gioventù dalla loro parte. Io potevo essere solo una spettatrice della loro immensa felicità. Sarebbero stati felici? Su questo avevo forti dubbi. Di solito in un rapporto dopo molti anni subentra la noia, la monotonia e gli uomini si concedono il lusso di qualche distrazione, di qualche avventura galante. Spetta poi alla moglie stabilire se perdonare o meno. Negli ultimi tempi anche le donne si stanno comportando come gli uomini, anche loro non disdegnano le relazioni extraconiugali. Molte coppie apparentemente sembrano felici ma nel profondo nessuno sa come stanno le cose. Molti fingono di essere felici per i figli. Loro ai miei occhi quel giorno incarnavano la felicità che a me mancava. Mi sembrava una coppia ideale, da invidiare. Io ero solo un’ingenua che non aveva ragionato, capito. Innamorata avevo perduto il raziocinio, la lucidità mentale. L’amore offuscava le idee, fiaccava le mie difese. L’amore era anche una forza che mi spingeva ora a lottare, a difendermi, a salvarmi. Avrei dovuto imparare a ragionare anche nelle passioni. Dovevo razionalizzare anche i sentimenti. Nella passione ero impulsiva, irresponsabile. Si può ragionare con il cuore in fiamme? Io non riuscivo a gestire la ragione e il sentimento. Quando ero in preda alla passione non pensavo. Se volevo salvarmi dovevo neutralizzare il cuore, metterlo fuori combattimento. Ci voleva una totale anestesia per bloccare i sentimenti sul nascere. Dovevo eliminare qualsiasi turbamento, qualsiasi sentimento. Solo restando impassibile potevo vivere, o per meglio dire, sopravvivere. Una vita senza passioni è scialba, senza senso. Dovevo fare in modo se non altro che la passione non mi toccasse più da vicino. Per ottenere risultati apprezzabili dovevo lavorare su me stessa, sul mio carattere. Dovevo fare uno sforzo sovrumano per liberarmi dai sentimenti, specie da quelli più deleteri, nocivi, capaci di intossicarmi il sangue, le viscere.

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