7 luglio 2000 (Romanzo epistolare)

Una vita difficile romanzo epistolareA quattro anni ero un amore, riguardo le foto di quel periodo e mi vengono puntualmente le lacrime agli occhi. Ero molto coccolata da mia madre, ma mio padre era sempre lontano, quando lo cercavo non c’era mai. Si assentava per lavoro per mesi, andava per convegni, conferenze, e quando tornava era stanco, spossato, intrattabile. Mi dava solo i soldi per comprare un nuovo giocattolo, ma io ne avevo già tanti di balocchi! Io volevo lui, le sue carezze, la sua vicinanza. Ricordo solo un uomo vestito di blu, con giacca e cravatta, la valigetta nera di pelle in mano. Questa è l’immagine frequente che mi ossessiona. Se stava in casa si chiudeva nello studio a telefonare, a scrivere e non voleva essere disturbato per nessuna ragione. Solo Matteo era ben voluto, qualche volta lo prendeva sulle ginocchia, ma lui era un maschio! Una volta portò Matteo nel parco e quando vide che anche io mi univo a loro mi disse secco a bruciapelo: tu non puoi venire, sei una femmina. Fu una coltellata. Mi sentivo un essere inferiore venuto al mondo per sbaglio, per scontentare tutti. Quel giorno mi rintanai nella mia stanza e piansi per tutto il tempo senza tregua. Le frasi di mio padre nei miei riguardi erano sempre taglienti, bruciavano come soda caustica. Mi diceva che ero troppo lenta, troppo pigra, ero troppo di tutto. Mi diceva che mancavo di intelligenza. Ero l’immagine della imperfezione, la natura mi aveva giocato un brutto tiro. A sei anni ero graziosa, avevo un bel sorriso angelico, una grazia particolare, un’aria ingenua. Le persone per la strada mi facevano i complimenti. Colpivano i miei occhi luminosi, intensi, espressivi, l’aria triste e malinconica. In realtà non ero vivace, vispa ma silenziosa e riflessiva. Intorno a me non c’era gioia di vivere, il mio stato d’animo era il riflesso. I figli sono il termometro di un matrimonio. Il matrimonio dei miei genitori era alla deriva, aveva già superato la sua fase acuta, ora non c’era più nulla da fare, solo constatare la rovina e le macerie. Dalle ceneri di quell’unione non poteva risorgere nulla, c’era posto solo per in immenso vuoto, un abisso nero senza futuro. Io ciondolavo per la casa, giocavo muta, con lo sguardo perso. Non avevo molti amici e mio fratello era sempre più impegnato con la scuola e lo sport. Faceva nuoto, scherma e usciva con i compagni. Matteo diceva sempre: non potevo avere un fratello! Le femmine sono tutte oche. Il suo disprezzo per il genere femminile era evidente, con me non aveva dialogo. Mi regalava ogni tanto una cartolina, una caramella e niente di più. Crescevo isolata dal resto del mondo, raramente mio padre mi portava nel giardino, per negozi, a fare una gita. Conoscevo poche persone e pochi luoghi. Mia madre era esaurita, prendeva pillole per dormire. Era diventata enorme, pingue e si vergognava ad uscire, andava qualche volta in chiesa per una funzione. Mio padre era quasi sempre in viaggio per lavoro. A chi rivolgermi? Quante volte nei miei giochi infantili avrei voluto un compagno, ma dove trovarlo? Mi inventavo di volta in volta un’amica e le davo nomi divertenti e dialogavo con il suo fantasma. La solitudine fu la prima esperienza di vita, ed è la solitudine ancora la mia migliore confidente. Imparai a convivere sin da piccola con lo spettro della solitudine. Andavo sola in luoghi affollati per sentirmi protetta dalla gente, ma in sostanza ero sola. Una volta mi sentii male nei giardini pubblici ma nessuno mi soccorse, mi lasciarono sola quasi al buio, dato che il sole stava calando. Nessuno si offrì di riaccompagnarmi a casa. Si parla tanto di solidarietà ma è solo una vuota parola. Vince sempre l’indifferenza e nei casi peggiori il sospetto. Chiesi aiuto disperata alla gente che fuoriusciva dal parco, ma le mie grida restarono inascoltate. Si avvicinò solo un uomo dall’aria truce, forse ubriaco e allora fuggii inorridita. Ritrovai a stento la strada di casa. Le prime esperienze di vita le feci da sola, anche se uscivo di rado. Imparai a camminare a piedi nudi sull’erba, assaporai i fichi colti sulla pianta, scoprii le formiche, gli insetti. Il mondo mi appariva variegato, variopinto ma a me ostile. C’era come una forza contraria, anche se facevo progressi, mi ricacciava indietro in una sorta di limbo opaco. Io intanto sognavo nonni affettuosi e sinceri, amici leali, genitori modello, fratelli meravigliosi, gente disponibile nei miei riguardi. L’ostilità veniva anche dalle mie coetanee, quelle poche che conoscevo in zona, magari perché erano invidiose di un mio nuovo abito, della mia bicicletta, di una bambola. Quello che conta per la gente sono le mode, gli abiti. Tutti pensano a accumulare soldi per poter comprare oggetti futili, che non danno la felicità. Più la gente mi respingeva, mi evitava più mi rinchiudevo in me stessa, rifiutando rapporti con gli altri. La gente mi era nemica, invidiava la ricchezza della mia famiglia, non sapendo che nella nsotra casa non c’era armonia, comprensione.

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