Capitolo quarto: Irina da giovane (Romanzo: Isole Perdute – di Ester Eroli)

Foto (282)Irina era nata a Settembre, in un caldo e afoso pomeriggio. Era nata nelle ore del tardo pomeriggio quando secondo i sensitivi più famosi, nascono i poeti malinconici e tristi. Nelle ore del crepuscolo nascono i saturnini che sognano di essere mercuriali, nati sotto l’influsso di Mercurio, il dio del commercio e degli affari. Chi nasce al tramonto non è portato forse per i calcoli, ma ha un animo sensibile e poetico. Forse non si nasce per caso. Era nata lo stesso giorno in cui era nato Dario, ma questo lo avrebbe saputo molto tempo dopo. Contemporaneamente a lei era nato un suo cuginetto maschio. L’attenzione dei parenti era tutta concentrata su di lui. A lui avevano fatto regali più sostanziosi. Con il tempo si sarebbe accentuata la predilezione che gli zii avevano per lui. I continui paragoni con lui, suo coetaneo, la irritavano enormemente. Lei era lei, con il suo carattere e il suo modo di essere, la sua intelligenza. Se sbagliava lei tutti i parenti si schieravano contro, se sbagliava suo cugino era perdonato, giustificato. Alla lunga questo comportamento la feriva. Si sentiva giudicata, esclusa, non amata. Suo cugino era sempre protetto, difeso, coccolato. Naturalmente se ne approfittava. Questo trattamento di favore lo rendeva audace, intraprendente. Per i parenti lei era la figlia di una donna che non era nata nel loro paese, proveniva da un’altra regione e allora andava tenuta a bada. Loro erano tutti uniti, erano un clan compatto. Era difficile contrastarli, contraddirli. Spesso si scontrava contro una barriera compatta. I parenti si difendevano, si proteggevano fra di loro, si coprivano. Con lei spesso mentivano. Facevano sempre vedere che a casa loro andava tutto bene, che erano benestanti, che erano felici. i I loro figli andavano bene a scuola, le loro suocere erano le migliori del mondo. In alcuni contesti si vedeva chiaramente che mentivano. Negavano persino l’evidenza. Nascondevano malattie, inciampi, problemi Dovevano dare l’immagine di gente perbene, vincente. Solo lei era quindi la perdente, quella sfortunata, quella idiota La facevano sentire inferiore, o forse lo era veramente. Se era inferiore perché non la aiutavano, invece di deriderla e scacciarla? Una sua cugina aveva fatto il compleanno di diciotto anni in pompa magna, aveva invitato tutti meno lei e la sua famiglia, ci era rimasta male. Un suo cugino era andato a fare il militare aveva riportato regalini a tutti meno che a lei, che pure era piccola e indifesa. Si era sentita un verme, un essere spregevole. Con il tempo si escludeva da sola prima che la invitassero a farsi da parte. Non partecipava più a cerimonie, rinfreschi, compleanni, si distaccava. In fondo loro la volevano lontano salvo poi accusarla di essere scostante, maleducata. Era stata accusata più volte di essere maleducata. Una sua cugina dopo averla accusata davanti a tutti di essere maleducata, il giorno dopo era andata in gita con il suo cugino preferito, quello nato con lei. Alla gita non l’avevano invitata. E lei il giorno dopo si era sentita come un fantasma. Si era sentita girare la testa, la bocca amara. Tentava di distaccarsi dai parenti ma suo padre, molto attaccato a loro, lo impediva. La costringeva a rispettare chi con le parole e i fatti la oltraggiava. Per suo padre, per quito vivere, faceva buon viso a cattivo gioco e si allontanava con delle scuse. Allora lei si richiudeva in se stessa, diventava taciturna. Non poteva comunicare con persone che mettevano paletti, che non la comprendevano, che non la capivano. Le zie si facevano trovare sempre insieme, sedute vicine, schierate, e la guardavano con sguardo critico, non amorevole. Lei voleva abbracci sinceri, saluti affettuosi, baci caldi di affetto. Tutta quella freddezza gli gelava il cuore. Loro sembravano comprendersi, fondersi. Solo lei era l’elemento spurio, lo sbaglio di natura, la nota stonata in quella famiglia dall’armonia perfetta. Lei alterava un equilibrio perfetto consolidatosi con gli anni. Lei da sola non poteva mutare quel sistema. Non aveva nemmeno un fratello o sorella che potesse aiutarla in quella situazione. Bisognava dare una spallata per farsi accettare. Quella bimba, che non piangeva mai, che dormiva tutto il tempo, che passava il tempo a mirare il soffitto della cameretta, che sgambettava al sole, rossa in viso, con un ciuffo di capelli scuri sulla fronte, ignorava il destino che l’attendeva. Era serena e beata, come tutti i bimbi che ignorano le brutture del mondo, e che prima o poi, devono per forza conoscere. Un giorno qualcuno ci avrebbe avuto da ridere sulla sua tranquillità nei primi giorni di vita. Le persone scaltre infatti quando sono piccole sono veri pesti. Sono scatenate, vivaci e prendono in giro quelli che ai loro occhi “dormono”. Irina non si era preoccupata di guardarsi intorno, di scoprire il mondo con occhi curiosi. Aveva tenuto gli occhi chiusi, dormendo per tutto il tempo il sonno dei giusti. Spesso durante la vita aveva pensato che il momento più bello era quello del sonno incosciente. In alcune circostanze non avrebbe voluto svegliarsi mai, aprire gli occhi su una realtà inaccettabile. Alcuni risvegli diventarono dolorosi come una via crucis. Da piccola colpiva la forma dei suoi occhi. Molti adulti si erano soffermati estasiati per guardare l’espressione di quello sguardo. Una volta cresciuta l’interesse degli uomini per quegli occhi andò scemando. Per loro contavano altre parti del corpo, come il seno e le gambe. Per loro contava un altro tipo di carattere più deciso, più forte. Ma Irina nel suo piccolo era forte, era riuscita a sopportare situazioni che avrebbero mandato gli altri al manicomio. Invece lei, a parte qualche crisi, era sopravvissuta quasi indenne. A settembre si godeva i giorni di sole non sapendo che forse quelli sarebbero stati in assoluto i giorni più spensierati. Non aveva mai goduto pienamente il suo tempo, sempre proiettata al futuro, sempre ripiegata a progettare il futuro. Aveva rinunciato a momenti di felicità per costruire paziente il suo futuro. Aveva rinunciato a molte cose, quelle rinunce le erano costate, ma poi il destino non l’aveva ripagata, aveva anzi falciato gli ultimi barlumi di speranza, distrutto le sue convinzioni, le sue certezze. Il futuro si era rivelato un campo pieno di mine inesplose. Era la primogenita e nel suo cuore, sin dal primo vagito, aveva pensato che avrebbe avuto una sorella o un fratello. Invece rimase a lungo, per sempre figlia unica. Fu la sua prima sconfitta, la prima delusione, la prima bastonata, il primo sogno infranto, il primo incubo, la prima croce da portare con dignità. Giocava sola, a casa ballava sola al centro della stanza, rideva sola, parlava da sola. Quella solitudine le stava appiccicata addosso come una tuta da sub. Per lei che era timida significava crescere selvatica come una cerbiatta impaurita. Lei trovava rifugio solo fra le braccia amorevoli della madre. Gli altri sfumavano sullo sfondo. Stravedeva come tutte le bimbe per suo padre. Con il tempo però il suo carattere burbero, taciturno, rendeva il rapporto più difficoltoso. Con il tempo essere da soli, per questioni strettamente economiche, poteva anche essere vantaggioso in quanto aveva più soldi da spendere per sé. I compagni di gioco non sempre erano schietti e sinceri come lei avrebbe voluto. Alcuni le rubarono dei giocattoli come una bambola d’epoca, una collezione di pentole piccole di rame, palloni, cucine, ecc. Altri non volevano giocare con lei e anzi la mordevano con denti aguzzi come quelli di un cane rabbioso. Si trovava meglio a giocare con i bambini, che erano meno maligni e più spontanei e che l’aiutavano a realizzare giochi creativi. Probabilmente, suo padre, come tutti, avrebbe voluto un maschio. Il maschio garantisce la sopravvivenza della razza, del cognome, si realizza meglio di una donna, ha maggiori libertà. Anche lei avrebbe voluto essere un uomo, avere la libertà di un uomo, la libertà di non truccarsi, di girare di notte senza paure, di fare tutti i lavori, di avere la forza muscolare, di divertirsi senza pensieri. A un uomo era concesso quello che a una donna era proibito, almeno per l’educazione rigida che aveva ricevuto. Suo padre era abbottonato, austero come un gesuita. Un uomo di grandi principi, di grande valore ma di vedute ristrette. Non concepiva che le donne guidassero un’auto, un aereo, che baciassero in pubblico un amico, che girassero con una minigonna ridottissima, che girassero il mondo in autostop. Lui aveva una mentalità antica, non si era evoluto, non stava al passo con i tempi. Rimaneva ancorato al suo mondo chiuso dove le donne rimanevano a casa a fare la maglia, a cucinare per la famiglia. Per lui una donna doveva fidanzarsi con un solo uomo e poi sposarsi con lo stesso. La donna non poteva concedersi avventure, divertimenti anche innocenti, non poteva ridere in pubblico per una barzelletta e quindi non poteva per nulla al mondo raccontarla lei stessa. Per lui una donna non poteva andare in comitiva con gli amici, uscire la notte per andare a teatro, frequentare un circolo da sola o una mostra, fare il report in paesi di guerra, semplicemente viaggiare per il mondo. Se lei sgarrava lui si metteva con il muso, la guardava con sguardo duro, la rimproverava aspramente con parole taglienti facendole arrotolare l’intestino per lo spavento. Lui non ammetteva errori, sgarbi. Non era un uomo allegro, ma triste come una poesia di Leopardi. Trasmetteva a lei una visione cupa della vita. Apparentemente la sua sembrava una famiglia felice, armoniosa, minata invece da tensioni. I suoi genitori spesso avevano liti violente anche davanti ai suoi occhi. Forse suo padre da giovane aveva amato qualcuna che non era poi riuscito a dimenticare e così sfogava la sua rabbia su lei e sua madre. Aveva saputo che suo padre da ragazzo aveva avuto molteplici relazioni, su cui taceva. Era una cosa normale per lui solo gli uomini dovevano fare determinate esperienze sentimentali. Sul suo scabroso passato di play boy incallito gettava a protezione un velo pietoso. Come tutti gli uomini voleva conoscere i suoi più intimi pensieri ma era avaro di racconti che riguardavano il suo privato. Ogni uomo è tremendamente geloso del suo passato. In certe stanze recondite del proprio io possono accedere solo loro e pochi amici fidati. Con gli amici si confidano, fanno battute salaci, si sfogano, raccontano senza problemi. Con lei e sua madre lui era riservato al punto di non mostrarsi mai in pantaloncini corti. Quell’educazione rigida per educante era soffocante come una campana di vetro chiusa ermeticamente. Il suo spirito libero mordeva il freno. Lei non sapeva, dentro quella caserma, quali erano le sue aspirazioni, le sue inclinazioni, i suoi gusti. Tutto era stato appiattito, livellato. I suoi gusti avevano finito per coincidere con quelli del padre, ma non erano quelli autentici. Lei a differenza di suo padre amava la letteratura, non la matematica, amava viaggiare e detestava la vita sedentaria, amava passeggiare, amava il mare e non la campagna, amava l’arte pura non il giardinaggio. Quando ritornava dal lavoro stanco, suo padre era nervoso, distratto, pronto a dare battaglia, a farla stare sulle corde, sulle spine. Quando era molto stanco non parlava e si metteva davanti alla televisione ignorando completamente gli altri. I dialoghi erano sporadici, le parole poche come i petali di un fiore strappato. Il lavoro lo assorbiva totalmente come i suoi hobby. Era ombroso e spesso se stuzzicato per qualcosa, andava su tutte le furie. Essendo rigido, formale non instaurava mai con lei un rapporto di cordiale complicità. Sembrava più un rapporto tra superiore e subordinato. Spesso la obbligava a fare cose che lei deplorava. La rimproverava per ogni disattenzione. La costringeva a studiare sodo e Irina capiva che doveva farlo molto seriamente se voleva l’affetto di suo padre. Successivamente vide lo studio come una forma di riscatto. Tutti la prendevano in giro per la sua costituzione esile, per la sua fragilità e lei voleva dimostrare che valeva qualcosa. Poteva essere apprezzata per altre qualità. Anche la cultura poteva essere una illusione, una sirena ammaliatrice per naufraghi sperduti. In alcuni casi infatti la cultura invece di agevolarla, di aprirle le porte, la ostacolava. Gli uomini non sopportavano le donne dotte, le amiche non accettavano le sue intelligenti intuizioni. Molti battevano la larga da lei, si allontanavano come una nave dal porto. Sin da piccola si vide subito che non era una bellezza. Era minuta come uno scricciolo, sarebbe cresciuta poco, aveva i capelli ondulati di un castano banale. Lei avrebbe voluto capelli lisci e setosi, morbidi e soffici come neve, biondi, occhi verdi intensi come quelli di certe attrici che ammirava nei film. Voleva avere curve fantastiche, un seno sodo, gambe snelle. Invece sarebbe divenuta bassa, piccola, minuta, con capelli quasi ricci, gambe insignificanti e ginocchia magre come quelle di un ragazzo. Solo gli occhi erano luminosi e scintillanti come due stelle e avevano la forma delle mandorle. Nessuno però sembrava avere pietà di quegli occhi. L’unica cosa preziosa che aveva erano gli occhi, ma nessun uomo li avrebbe mai notati, tutto intento a guardare altrove. Per un uomo contava ben altro. Complessivamente non era brutta, era amabile, aveva per così dire una sorta di grazia sensuale. Gli uomini preferivano le donne forti e aggressive. Il suo carattere era però dolce e forte allo stesso tempo. Se da un lato sembrava indifesa e faceva venir voglia di proteggerla, dall’altro al momento opportuno tirava fuori le unghie e graffiava anche il cuore se ce ne fosse stato bisogno. Gli uomini li coglieva sul fatto come ladri di polli e li disorientava. Molti uomini la detestavano per il suo modo di stanarli. Le bugie degli uomini, a cui all’inizio aveva creduto, le fiutava a naso come un leone fiuta una preda. Da piccola era carina, era la parola più usata nei complimenti, ma a lei non bastava. Fu costretta a soffrire per tutta una serie di situazioni legate al suo corpo minuto. Soffriva perché aveva quel corpicino privo di membra armoniose, non come quello di molte altre bambine. I problemi iniziarono all’asilo. Mentre si recava all’asilo spesso incontrava altri bambini, anche più grandi, che la insultavano, la facevano cadere con dei sgambetti paurosi. Le sue gambette gracili erano oggetto di scherno, di turpi apprezzamenti morbosi. Molti le gridavano dietro parole sconce e irripetibili. Perché una persona che soffre deve anche essere oggetto di scherno? L’idea di non mettere al mondo figli, forse era nata proprio in quei paurosi frangenti quando lei tremava come una foglia per la rabbia, lo spavento e l’umiliazione. Doveva per forza interrompere quella catena, impedire la trasmissione di quel patrimonio genetico difettoso. Forse la selezione naturale stava operando proprio nella sua vita. Dovevano sopravvivere solo gli individui più adatti e perfetti. Lei che era imperfetta doveva soccombere, lasciare il posto agli altri. Quella esclusione le costava, era dolorosa, era uno strappo violento che la turbava. Allora invidiava la gente normale, quella che poteva permettersi tutto: avere dei figli, ballare sulla sabbia con gambe perfette, amare liberamente senza l’incubo di un corpo inadeguato. La apostrofavano con parole precise, con epiteti come rospo, topo, insetto. Persino la maestra si rifiutò di darle una parte in una rappresentazione storica in costume riproducente le scene di un matrimonio cinquecentesco. Non c’era una parte adatta a lei perché non era gradevole esteticamente ed era poi troppo timida. Non capivano che la timidezza era legata proprio a quelle continue esclusioni. Se la gente la respingeva lei avrebbe continuato a tirarsi indietro, a rimanere in disparte, silenziosa. Rimase per tutto il tempo a guardare in un angolo la coppia regale giungere all’altare, gli altri divertirsi di gusto. Invece per lei fu un giorno amaro, un giorno da dimenticare. Quelli che per gli altri erano giorni allegri e spensierati per lei si trasformavano in incubi. Nelle gite scolastiche veniva presa di mira, bersagliata con strali velenosi come frecce indiane. Nei giochi con le amiche a lei toccava sempre la parte della madre, della nonna, della negoziante. Le sue amiche nei giochi erano tutte mamme felici di pargoli biondi con gli occhi blu a cui davano nomi bellissimi. Molte di queste sue amiche riuscirono a realizzare i loro sogni e a chiamare i figli con quei nomi tanto amati. Tra i compagni di asilo trovava solo ostilità, molti non le rivolgevano la parola. Un giorno un gruppo di piccoli teppisti la prese anche a calci senza un reale motivo. I lavorini che lei faceva con la creta, con il filo da ricamo, i disegni che realizzava con i pennarelli, con l’acquarello venivano tutti fatti a pezzi e cestinati da bimbi perfidi. Li ritrovava il giorno dopo completamente distrutti. I lavori delle bimbe più belle venivano salvaguardati. Alle sue lamentele le maestre non rispondevano, non sembravano dare peso a simili comportamenti che pure erano ignobili e ferivano come spade affilate. Per le maestre erano tutte idiozie, sciocchezze. Un ragazzetto di una classe superiore arrivò persino a sputarle addosso fra le risa generali ma lei non era colpevole di nulla. Era solo bruttina, timida, insicura, fragile. Notava che le ragazzine battagliere che si facevano rispettare erano più stimate, se non altro venivano temute. Lei caratterialmente non era in grado di imporsi, di mostrare i denti, di essere forte. Di fronte al male, all’invidia, alla falsità, si ripiegava su se stessa incapace di reagire,, di farsi rispettare. Non sapeva rispondere male quando c’era la necessità, non era in grado di attaccare, di rispondere al fuoco. Si lasciava sopraffare anche da gente mediocre. I suoi punti deboli presto capì quali erano: eccessiva fiducia negli altri, attrazione sconfinata per la bellezza, infatti se una persona era bella lei era completamente soggiogata, cuore troppo tenero. Si lasciava commuovere da gente meschina. Il cuore suo era burro fuso, si scioglieva come neve al sole. Il cuore era quello che puntualmente la rovinava, nelle amicizie, nei rapporti amorosi. Non sapeva, al momento opportuno, essere dura, intransigente, determinata. Davanti a un gesto di affetto, anche falso, cadeva come una pera matura. Ogni tanto il velo di comprensione, di compassione per gli altri, di amore, le cadeva dagli occhi e allora vedeva la realtà in tutta la sua crudezza. Le sembrava che tutti coloro che avessero un viso bello, un corpo perfetto potevano tutto. Da queste persone lei si lasciava fare tutto, anche calpestare nella sua dignità. La bellezza pura, autentica, la metteva sotto scacco. Delle donne belle aveva invidia, e disprezzava la loro superbia, degli uomini belli aveva soggezione e rispetto. Non sapeva dire di no allo sguardo implorante di un ragazzino molto carino, anche se questo poi tramava per la sua rovina. Di fronte alla bellezza lei si arrendeva con la facilità di un aquilone al vento. Le persone belle spesso la deludevano, la prendevano in giro, la maltrattavano. Gli uomini belli l’avrebbero ferita con lame acuminate. Il fascino della bellezza era irresistibile. La bellezza esercitava su di lei un potere enorme, sconfinato. Ogni volta poi ricadeva nelle stesse trappole. Gli eventi negativi non la educavano a diffidare delle persone maledettamente belle. Così frequentava la ragazzina con i capelli lunghi biondi, con il corpo scolpito da una mano sapiente non accorgendosi che lei rideva sotto i baffi della sua goffaggine. La sua ingenuità non era apprezzata, era oggetto di scherno. Scopriva la falsità dell’amicizia, si rendeva conto che le amicizie resistevano solo per interesse. Eppure l’amicizia poteva essere più importante e eterna dell’amore. Le delusioni dell’amicizia le viveva come un tradimento. Doveva concentrarsi solo sulle cose essenziali dell’esistenza, evitando divagazioni inutile. Invece la sua mente oziava fra paesaggi e scenari insoliti. La sua mente non era una mente razionale, riflessiva, ma una mente bizzarra che agiva di impulso. Gli altri la deridevano, la escludevano e lei continuava a fare totale affidamento sulle persone belle. Le persone belle difficilmente erano ricche dentro. Erano vanitose, piene di sé, spavalde, incapaci di provare sentimenti sinceri. All’asilo fu proprio una bimba molto vistosa a vomitare su di lei alla presenza di un gruppetto di amici, che non erano suoi amici. Avendo avuto un conato di vomito aveva pensato bene di utilizzare la sua spalla. In fondo lei oltre a essere brutta, era anche poco simpatica. Ma come poteva essere allegra se il comportamento osceno degli altri la rattristava? Come poteva saltare, ballare, essere felici se gli altri volutamente la tagliavano fuori dai giochi? Doveva inventarsi un mondo parallelo, alternativo, fantasioso dove vivere in santa pace, attingere a piene mani alle sue numerose risorse interiori. Intanto, non facendosi rispettare, induceva molti bimbi a ridere al solo suo passaggio. Molti le nascondevano la merenda, la borsetta, le strappavano le pagine del diario, le scarabocchiavano i disegni, riempivano i suoi schizzi di scritte oscene e volgari. Lei invece per natura odiava la volgarità, il turpiloquio, amava la grazia, la dolcezza, il rispetto degli altri, la serietà, il senso di responsabilità. Forse era troppo seria per essere presa in considerazione, ma in certi contesti, come quelli lavorativi, la serietà poteva essere un valore. Spesso su questo era stata smentita da fatti concreti e precisi, e a suo avviso, solo suo comunque, sconcertante. I vizi erano premiati, la virtù punita. I cattivi brillavano, le persone oneste messe nel sacco. Di fronte a strani episodi rimaneva allibita, senza parole. I valori che le avevano trasmesso i suoi genitori non solo erano respinti nel limbo ma messi in ridicolo. Come se per anni i suoi genitori avessero passato il tempo a raccontarle favole prive di senso, irreali e fantasiose come un film di fantascienza totalmente inventato. Film che non rispondeva più ai gusti del pubblico, completamente superato. Il suo era tutto sommato un andare volutamente controcorrente con tutte le conseguenze del caso. Era ogni volta era doloroso risalire la china, sforzarsi di vincere la corrente impetuosa, corrente che altri, spregiudicati, cavalcano alla grande. Gli altri tutti insieme come grandi amici distruggevano i disegni a tempera di lei. Le sue matite venivano mutilate, fatte oggetto di scempio. I suoi giocattoli venivano distrutti con violenza e crudeltà. Irina ogni volta rimaneva male, si lacerava per il dolore quasi fisico che provava. Ogni volta era una fitta al cuore. Se continuava così sarebbe divenuta cardioepatica. In occasione delle festività pasquali aveva creato, in effetti era creativa, una bellissima composizione con fiori e la maestra avrebbe voluto premiarla. Il giorno dopo la presentazione dell’opera, prima della premiazione, la ritrovò fatta a pezzi nel suo cestino dei rifiuti, non avevano neppure avuto la delicatezza di nascondere il misfatto. Un giorno avrebbe fatto qualcosa, si sarebbe vendicata, avrebbe denunciato questi comportamenti barbari. Scrivendo tutto forse avrebbe gettato finalmente luce su questo fenomeno presente nelle scuole, negli asili, nel mondo. La discriminazione razziale non era la sola forma di razzismo. Il razzismo aveva diversi volti e lei né aveva sperimentato alcuni. In futuro né avrebbe scoperti altri, più subdoli. Un giorno avrebbe spifferato ai quattro venti tutte queste cose, era solo una questione di tempo. Non avrebbe ottenuto nulla nel senso che nulla sarebbe mutato ma almeno si sarebbe sfogata e avrebbe fatto arrossire qualcuno che si sarebbe sentito chiamare in causa. Ribellarsi spesso era controproducente. Nessuno inoltre sembrava disposto a difenderla, nemmeno gli adulti, troppo distratti dai loro impegni. Persino all’uscita di scuola veniva inseguita e costretta a sopportare gravi insulti. Un ragazzino di nome Pino si era mostrato gentile con lei, e lei ci aveva creduto ma poi lo aveva scoperto mentre rideva di lei con gli amici. Una volta fu spinta pesantemente e lasciata cadere. Aveva scoperto che ad essere insultato c’era un altro ragazzino di nome Alberto, che aveva un leggera malformazione al piede. Avrebbe voluto essere amica di quell’essere innocente, ma non osava avvicinarsi. Temeva che lui si irritasse della sua pietà. Non si accetta un’amicizia per pietà. Ma a lei quel piccolo cucciolo faceva pena. Solo isolandosi trovava un po’ di tregua, solo nel silenzio trovava conforto. Stando lontano dalla gente provava sollievo. Cercava sempre di passare inosservata, di non farsi notare, così nessuno poteva accorgersi della sua presenza. Voleva vivere in punta di piedi per non disturbare, come una ballerina di danza classica. Riusciva quasi sempre a mimetizzarsi con l’ambiente. Se in una festa trovava un angolino nascosto lo prediligeva e finiva per passare lì tutto il tempo, magari piangendo in silenzio, lontano da sguardi indiscreti. Quando si sentiva proprio sola piangeva e le lacrime le scendevano sulle guance lentamente. Alcune volte singhiozzava. Piangeva per tutte le persone discriminate, per tutte le persone escluse dal banchetto della vita. Avrebbe resistito tutta la vita a fare la semplice comparsa? O un giorno si sarebbe stancata e avrebbe sputato fuori tutta la sua rabbia? La corda a lungo tirata si sarebbe miseramente spezzata. Si può vivere nell’ombra per anni? Senza che nessuno ti ami, ti consideri, ti coccoli, ti apprezzi ad eccezioni dei nonni e genitori? Un giorno sarebbe uscito il suo grido disumano, disperato. Riponeva la sua fiducia sempre su persone sbagliate che la tradivano, la vendevano al mercato delle pulci per poche misere lire, per due soldi. Era come un fantasma di cui nessuno né percepisce la presenza. Eppure lei era un essere umano in carne ed ossa. I bambini erano crudeli, furbi, scaltri, maliziosi, diabolici, perversi le bambine pettegole, perfide. Alcune di loro arrivavano a tagliarle i capelli con le forbici, a rompere i suoi giocattoli più cari. Una volta trovò il suo orsetto preferito, color giallo oro, strappato e fatto a pezzi, con gli occhi rovinati con le forbici. Quelle forbici avevano allargato le sue vene e fatto affluire più sangue al cuore. Possibile che nessuno neppure i bambini avevano cuore? Cosa insegnavano i genitori a questi bambini? Il sopruso, la sopraffazione, la legge del più forte. Era meglio essere amica di un gatto, spesso anche lui però la graffiava. I suoi compagni poi maltrattavano anche il suo gatto per farle dispetto. Quando il gatto era nervoso e la graffiava si sentiva sola. Il suo migliore amico le voltava le spalle. Alcune volte anche il gatto le voltava le spalle. Come era possibile? Allora era vero che era un essere repellente, una specie di verde rospo squamoso, un topo grigio come la apostrofavano per la strada. Sola con il suo gatto, che e poi tanto suo non era, visto che spesso andava in altre case e con altri padroni, passava i pomeriggi sdraiata al sole e spesso il gatto le si accoccolava sulle ginocchia e si faceva accarezzare e coccolare. Faceva lunghe passeggiate da sola inseguita dal gatto che le correva dietro fedele e dolce. Passava i giorni con il gatto disdegnando la compagnia umana come facevano altre persone che lei avrebbe conosciuto tempo dopo. All’età di cinque anni imparò a leggere e trovò nei libri un grande conforto. Leggeva di tutto ma non amava leggere storie tristi e malinconiche come la storia della piccola fiammiferaia che moriva assiderata nella neve mentre la gente passeggiava impellicciata. Sin da piccola detestava la morte dei protagonisti e in generale la morte. La morte era un fenomeno che non si poteva arginare, piombava addosso come uno sparviero e distruggeva sogni e speranze, spezzava il futuro. Solo molto più tardi avrebbe compreso il fenomeno morte, il suo significato, il suo valore. Avrebbe avuto contatti con la sua realtà. Si sarebbe resa conto he non tutto finiva con la morte. Sapeva che sopravviveva il ricordo ma con il tempo comprese a sue spese che sopravviveva pure l’anima. Amava leggere libri che racchiudevano storie di fantasia, di avventure, di viaggi esotici in terre lontane come Giappone, Cina. La notte sognava anche lei di andare a Haiti, a Samoa. Se la vita era dura poteva sfuggire dei viaggi. Per viaggiare però ci voleva tempo e denaro, cose che non abbondavano nella sua casa. Tuttavia il viaggio come il libro potevano essere dei punti di riferimento per lei che era così sola. Per sopravvivere doveva trovarsi dei punti di riferimento, stelle luminose nel grigio del suo cielo nuvoloso. L’ostilità che incontrava nel mondo la spingeva tra le braccia del silenzio. Certamente preferiva essere sola che trovarsi con gente negativa. Le bambine con le loro frecciatine ironiche la facevano impazzire. Tutte alludevano al suo aspetto scialbo, al suo fisico minuto senza grazie, senza forma. Le facevano notare più volte che da grande non sarebbe stata una bella ragazza e nessun uomo di rispetto si sarebbe interessato a lei. Sin da piccola le avevano inculcato che le donne si realizzano solo attraverso il matrimonio. La donna si realizzava solo attraverso il matrimonio e naturalmente per accalappiare un marito doveva essere bella. Per le donne non era concepibile un destino diverso. Allora il suo destino era segnato: sarebbe stata moglie fedele e madre esemplare. In cuor suo sapeva che non sarebbe mai accaduto, troppe circostanze remavano contro. Agli uomini era consentito tutto: avere tante relazioni, fare tardi la sera, ecc. gli uomini erano sempre giustificati. Le donne invece dovevano rigare diritto. Lei capiva bene che il suo aspetto e il suo impaccio non le garantivano un successo con gli uomini. Non osava mai esporsi per timore di essere rifiutata, ogni incontro con gente estranea la spaventava. Amava vivere nel suo guscio, nella sua nicchia fatta di piccole cose di poco conto, ma per lei fondamentali. Collezionava a otto anni cartoline illustrate, libri, bambole di porcellana, francobolli. Passava i pomeriggi chiusa in casa leggendo riviste, ascoltando musica, mangiando dolci, non osando mettere il naso fuori casa. Fuori c’era il mondo con le sue asperità. A che serviva uscire se già sulla porta di casa c’era un gruppo di ragazzi ribelli pronti a deriderla, a usare parole offensive e irripetibili. Certi giochi poi non erano per lei, non aveva il fisico adatto ad esempio per certi sport. Non poteva fare danza classica, pallavolo. In alcuni giochi era talmente imbranata che la chiamavano menomata. Lo sport per lei divenne un argomento tabù. Non si intendeva di calcio, di atletica leggera, non sapeva nulla dei vari sport. In certe conversazioni era esclusa. In alcuni sport in cui si era cementata in tenera età era lenta, apatica, poco scattante. Quando si annoiava usciva a passeggiare senza meta. Solo l’arte la attirava. Imparò da subito l’importanza della pittura, la bellezza dei musei e delle mostre. Già da piccola si era abituata a vagare tutta sola nelle sale dei musei ricchi di arte Ammirava i quadri di Manet, di De Chirico. Seguiva accanita tutte le mostre come quella delle monete, dei mobili ecc. le compagne di giochi non amavano visitare le mostre. Molti rifiuti erano accompagnati da sonore risate. I divertimenti delle ragazze erano altri: ballare, fare shopping, truccarsi. La cultura non era una componente considerata, non contava. Gli uomini giovani non volevano donne interessate alla cultura, saccenti. Da grande avrebbe subito il rifiuto degli uomini per questo motivo, ma per lei era molto importante realizzarsi attraverso la scrittura, che era suo pane quotidiano. Scrivendo buttava fuori tutto quello che era racchiuso gelosamente nei recessi della sua anima. Non avrebbe rinunciato tanto facilmente alla sua realizzazione personale. Attraverso la scrittura si riscattava e inoltre segnalava tutto quello che per lei nella società non andava. Chi faceva del male con le parole, con i fatti doveva pagare in qualche modo. Se sfuggiva a tutti i tribunali terreni e anche a quelli celesti avrebbe fatto i conti con i suoi racconti, diffusi su riviste, su pc. Qualcuno si sarebbe riconosciuto fra i suoi personaggi e forse avrebbe avuto un ripensamento, un rimorso, un senso di colpa e pietà. Sicuramente all’uomo moderno mancava il concetto di pietà. Da piccola viveva per appartarsi e scrivere poesie, che le davano la forza di andare avanti, la spinta per non sentirsi smarrita e perduta. Il suo primo romanzo, una storia sentimentale, fu abbandonato in un cassetto e mai più ripreso. Il secondo venne bruciato tra le fiamme. Non era sicura di scrivere cose sensate. Mille dubbi assalivano la sua mente. La sua mente era curiosa e anelava alla conoscenza. Oltre la scrittura anche i viaggi erano un modo per conoscere il mondo. Anche le gite, i piccoli viaggi erano per lei innocenti evasioni, ma doveva farli sempre con poche persone selezionate. Non sopportava presenze di persone rivali. Il viaggio, sia pure per poco, la allontanava dalla realtà, le faceva conoscere altri paesi, altri stili di vita. Nelle città che visitava seguiva le mostre di antiquariato, i mercatini dove comprava oggetti particolari, porcellane per la sua collezione, bambole in miniatura. Quando doveva distrarsi ogni occasione era buona. Il viaggio era un tuffo fuori della routine, la liberazione della mente. A dieci anni già sapeva per certo che la sua vita non sarebbe mai stata come quella degli altri. Era uno spirito libero, che non amava costrizioni, obblighi, non accettava convenzioni, ipocrisie, malanimi, che non tollerava la morte e la cattiveria, e soprattutto le ingiustizie sociali. Per combatterle ricorreva a qualsiasi mezzo. La sua timidezza si trasformava in fierezza quando doveva combattere e sfoderare tutte le sue armi. Era una timidezza che quasi si dileguava scompariva quando la rabbia per una ingiustizia la faceva arrossire. Dietro la maschera della timidezza si nascondeva una bambina orgogliosa, aggressiva davanti al male, che metteva l’orgoglio al primo posto. Guai quindi a ferirla, si sarebbe vendicata nel modo più sofisticato. Dei nemici che teneva di mira stilava una lista e cancellava il nome quando si era vendicata a suo modo. La vendetta avveniva in vari modi e spesso puniva i suoi rivali ripagandoli con la stessa moneta. Se per esempio era stata volutamente esclusa da una gita in una città d’arte da i suoi parenti lei era capace di andare a visitare la città mandando a tutti una cartolina illustrata. Non si vendicava infierendo con parole insensate, ma in modo logico, lucido, razionale. Il suo cuore smetteva di sussultare solo quando la vendetta era compiuta. Che poi non era una vendetta nel senso classico del termine, ma un modo per rimettere ordine dove regnava il caos. In fondo voleva dimostrare che poteva anche da sola recarsi in una città senza bisogno di inviti particolari. Era come un messaggio in codice: mi hai rifiutato, non hai voluto la mia compagnia, ma io da sola sono riuscita ugualmente nell’intento. Se con le persone perfide si vendicava, con gli umili aveva un atteggiamento protettivo, voleva aiutarli, salvarli anche se nella maggior parte dei casi l’impresa era ardua. Quando veniva esclusa si cercava nell’immediato un’altra soluzione. Spesso passava all’altra parte della barricata come un audace soldato mercenario. Sua cugina l’aveva esclusa da alcuni giochi in comitiva all’interno di un giardino pubblico e lei si era legata, quelle rare volte che ci andava, a un altro gruppo che frequentava quella zona. I due gruppi si potevano vedere come il fumo agli occhi. Passava al nemico quando se la vedeva brutta. Una volta sua cugina l’aveva spintonata e lei si era sentita tradita, in suo soccorso era giunta l’allegra comitiva. Ovviamente nella comitiva di sua cugina c’erano bimbi benestanti, di un certo livello nella sua persone figli di operai, ma lei di questo era fiera. Il mondo l’avevano costruito gli umili con le loro mani, poi se ne erano impadroniti gli altri. il suo carattere si andava formando plasmato alla luce di certi accadimenti. Era in effetti un carattere definito da molti “strano”, ribelle, stravagante. Il suo umore era cupo, ombroso. Alternava momenti di tetra chiusura con altri più vispi, incapace di trovare da sola un equilibrio. Nessuno capiva che la sua era una naturale reazione a certi eventi. Spesso si comportava in modo anomalo, scappava da una festa di classe, si chiudeva in bagno per ore, cambiava strada, evitava marciapiedi affollati, non sapendo che non era la sola qualcun altro aveva le sue stesse problematiche, correva veloce per chiudersi a chiave nella sua stanza, rispondeva male, in modo sgarbato alle persone che la importunavano. Tutti si domandavano sconcertati il perché di quel comportamento ma ignoravano completamente il lavorio della sua mente, le sue amare riflessioni, il suo blocco psicologico. Lentamente nel cuore e nel cervello era entrato un veleno tossico, nel suo sangue c’era una unica certezza: era brutta e nessuno poteva farci niente, forse nemmeno il chirurgo plastico Del resto non aveva soldi per un intervento di chirurgia estetica. La sua timidezza era paura di non essere accettati, timidezza che irritava il mondo adulto disposto ad apprezzare i bimbi più vivaci e spensierati. Lei non poteva essere spensierata un’ombra pesava sul suo cuore. La sua serenità era solo apparente, dentro ribolliva e il cuore le martellava nel petto. I primi tempi aveva cercato aiuto, comprensione, affetto, nessuno era stato disposto ad ascoltarla. Lei annoiava, la sua presenza era scomoda. Irritava il suo carattere, la sua eccessiva serietà e cupezza, il suo pessimismo. Molti la evitavano, cercavano scampo altrove. Il suo aspetto dimesso, il suo corpo poco grazioso, i suoi modi troppo garbati e educati, la sua calma, i suoi modi un po’ impacciati saltavano agli occhi ed erano oggetto di disprezzo. Alle elementari non interagiva molto con i coetanei e la maestra aveva finito, con il suo comportamento, per esasperare le diversità. Infatti la sua maestra prediligeva una ragazzina raccomandata, a cui era concesso tutto. Apparteneva a una famiglia benestante, suo padre era un ingegnere famoso. Regali costosi avevano comprato l’insegnante. Lei veniva maltrattata, interrogata all’improvviso mentre la beniamina veniva interrogata solo quando era preparata. Questa ai suoi occhi appariva come una grande ingiustizia sociale. Irina per fortuna andava bene, la sua intelligenza era brillante, apprendeva le nuove nozioni con facilità. Lo studio rappresentava per lei il modo per riscattarsi, per imporsi. Era una ragazzina insignificante, inutile ma aveva una buona memoria, una ottima preparazione. Lo studio era un modo come un altro per farsi notare. Con il tempo aveva imparato a sue spese che i maschi non sopportavano le ragazzine troppo saccenti, preferivano le oche giulive senza cervello. Anche il suo riscatto si rivelò con gli anni una illusione. La sua cultura non era apprezzata. Il suo corpo informe, strano, non bello era oggetto di derisioni. Lei veniva costantemente umiliata. Alle scuole medie la situazione peggiorò notevolmente. Infatti era stata collocata in una classe tutta femminile. Si doveva scontrare ogni giorno con le perfidie, i dispetti delle colleghe. Gelosie, pettegolezzi, rivalità. Alle medie scoprì un universo sconosciuto. Il mondo femminile non le apparve più come alleato, solidale ma come un terreno minato dove lei si perdeva. Le donne erano sempre pronte a criticarla, a metterla in ridicolo, a ridere alle sue spalle. Alcune le facevano la parte davanti per poi colpirla alle spalle. Altre più sincere le parlavano in faccia, ma brutalmente. Alcune le facevano dispetti pesanti, le rompevano la borsa, le macchiavano i quaderni ordinati. Non era a scuola, era in un covo di vipere agguerrite. Per coprire il suo corpo sovente indossava larghi maglioni pesanti che erano ovviamente oggetto di scherno. Molte tra di loro alla ricreazione riproducevano i suoi gesti per riderci sopra a crepapelle. Se qualche volta, in occasioni particolari, come la recita di Natale, o un compleanno, si vestiva bene, la guardavano con occhi invidiosi, morbosi. Non capiva da che parte stare. Se si vestiva elegante era guardata con occhi invidiosi, se si vestiva male era derisa. Comunque era scrutata in modo impietoso, come fosse una nemica. Invece lei era amichevole, una pasta di mandorle, una pacifista nata. Solo davanti alle ingiustizie si imbestialiva. Purtroppo davanti a delle ingiustizie aveva abbassato la testa, si era rassegnata, in modo disperato si era rassegnata. Essendo una ragazza seria e poco appariscente alle medie non riscuoteva successi fra i ragazzi. Le ragazze bruttine ma spudorate era ben accette. Non era solo una questione di bellezza quindi ma anche caratteriale. Le donne sensuali era più richieste. Un giorno avrebbe rinfacciato a tutti gli uomini la loro ottusità. Andavano alla ricerca sempre di donne fascinose e aggressive, crudeli. Alcuni uomini si adattavano, altri soccombevano, pochi si ribellavano. Molti erano prede di donne vampiro. Il sesso per gli uomini era fondamentale. Per lei invece era un fatto secondario. Per lei il sesso veniva solo dopo l’amore. Il sesso era legato all’amore, era il coronamento di una storia d’amore. Al sesso si approdava dopo l’amore, dopo la passione. L’amore toglieva da solo i freni inibitori. Per i ragazzi invece era il contrario, tutto cominciava con il sesso e poteva finire con l’amore, ma non era detto. Intorno a lei solo sesso puro senza sentimento: pubblicità spiccatamente allusive, scene hard dei film, riviste pornografiche con scene eloquenti. Un universo fatto di perversioni, che aveva solo letto nei libri, di appagamenti strani, di tradimenti e trasgressioni. Vedeva immagini di donne vampiro, di gay, di boy toy, di play boy, di donne nude. Non comprendeva la depravazione, il piacere fine a se stesso, l’andare contro natura. Ovunque immagini di biancheria intima piccante, di ragazze provocanti, di lolite emancipate. Lei che voleva un amore puro era anormale. Lei che amava la tradizione era fuori del tempo, proveniente da un altro pianeta. Il suo sorriso infantile non seduceva, le sue mani sudate non erano mai accarezzate, il suo corpo non faceva impazzire nessuno e per questo non era amata. Il binomio amore e bellezza era un chiodo fisso del suo cervello. Alle medie una certa Luana con il seno enorme, il volto lascivo e le labbra al silicone era seguita da uno stuolo di fanciulli in erba. Le sue gambe facevano impazzire milioni di adolescenti grintosi. Alle medie molte coetanee erano fissate con i voti, si ingaggiava così una vera e propria gara. Se lei prendeva un voto più basso veniva messa al bando, additata come un fenomeno da circo. Non si potevano prendere sempre ottimi voti. Per il calcolo stesso delle probabilità capitava che qualche cosa andava storto. Nessuno comprendeva che ci poteva essere un calo di attenzione, un raffreddore in agguato, nessuno capiva. Contava solo la resa. Nessuno capiva come quando guidava una macchina e le suonavano quando lei rallentava per parcheggiare. Nella loro mente di guidatori lei doveva procedere nella corsa senza mai arrestarsi. Nessuno amava contrattempi, ritardi, ostacoli, rallentamenti. Tutto doveva essere spedito, veloce, rapido, senza tentennamenti. La sua lentezza spesso era oggetto di critica, era per molti sinonimo di stupidità. Nessuno comprendeva che anche l’intelligenza è lenta. Con il tempo la sua cultura, dato che leggeva molto, le sue capacità di apprendimento irritavano le compagne di scuole e le amiche. Alcune erano visibilmente invidiose dei suoi successi scolastici. Leggeva di tutto: saggi, testi di filosofia, romanzi, gialli. Leggendo si estraniava dalla realtà, dimenticava la sua vita grama, sognava a occhi aperti, viveva la vita dei personaggi, si identificava, si perdeva fra strade sconosciute e città mai viste descritte in modo mirabile nei romanzi. Evadeva dalla realtà senza bisogno di droghe. Le coetanee generalmente erano ragazze molto truccate, sfrontate, vistose, che si sentivano superiori a lei in bellezza e fascino. Lei invece aveva dei complessi. In modo assurdo la invidiavano per gli ottimi voti e per gli elogi dei professori che loro non ottenevano perché andavano sempre in giro a divertirsi. Lei si divertiva poco, non aveva molti amici per andare a zonzo, e passava il tempo libero a leggere. Leggeva sugli autobus, dal dottore, dal dentista, persino in taxi e su una giostra. A scuola eccelleva nel disegno dove la sua fantasia si sbizzarriva. Creava surreali disegni astratti, paesaggi pieni di incanto, di luce e di colore. Era un artista che esprimeva a pieno il suo talento. Molti disegni esposti in classe li aveva ritrovati strappati dentro il cestino della spazzatura. Segno evidente che qualcuno per il disappunto, per rabbia li aveva fatti a pezzi. Lei era diversa, il successo degli altri non la infastidiva, esultava per le vittorie delle amiche. Nel suo animo non vi erano tracce di invidia. Era tranquilla come le acque di un lago. Forse era anormale e per questo veniva respinta, per questo il destino si accaniva con lei a perseguitarla. Ogni cosa che faceva era pesante, ogni rosa che coglieva era piena di spine. In ogni occasione prendeva schiaffi in faccia dal destino e dalla gente. Si mortificava a tal punto che si andava a rifugiare nella sua stanza, si rannicchiava in un angolo e piangeva. Le lacrime non le mostrava agli altri, aveva notato che molti godevano delle sue sconfitte. Andava bene in italiano, amava la poesia e la letteratura e scriveva. Aveva un diario in cui annotava ogni cosa che le accadeva. Tutti dovrebbero avere una rubrica, un diario. Amava le materie umanistiche quindi la storia, la filosofia ecc. Tuttavia nel campo scientifico era abile, in algebra era veloce nel fare i calcoli, in geografia astronomica era un asso. Le materie umanistiche favorivano certo lo sviluppo della sua anima e della sua sensibilità. I sentimenti che avvertiva in sé in modo latente si manifestavano studiando le materie classiche. La poesia in particolare alimentava sempre i suoi sentimenti più puri, le sue riflessioni più autentiche. Tali materie costituivano uno stimolo per la sua fantasia. Leggendo alcune poesie spesso piangeva per l’emozione. Si commuoveva leggendo brani in latino. I classici erano sicuramente i suoi preferiti. Leggeva le poesie d’amore di Catullo, di Tibullo, e si infiammava, il suo spiccato romanticismo volava alle stelle, per poi ricadere sulla terra con un tonfo sordo. Peccato che tutto quel romanticismo e passionalità fossero racchiusi in un corpo sgraziato e informe. Se fosse stata perfetta sarebbe stata una amante divina. Ma il suo corpo era un impedimento notevole, la tradiva, le voltava le spalle sul più bello. Solo un grande amore avrebbe potuto chiudere gli occhi sul suo corpo, solo una comunione d’anime poteva giustificare un qualsiasi tipo di amplesso. A frenare i suoi istinti non era solo il corpo, ma anche l’educazione rigida che riceveva in casa. Questa commistione fra educazione e mancanza di bellezza avevano creato la creatura timida che era lei. Tutti i romanzi d’amore la facevano impazzire e aveva sempre la testa fra le nuvole pensando anche alla possibilità anche per lei di incontrare il grande amore. Sapeva che era impossibile per lei toccare il cielo con un dito. Non avrebbe mai conosciuto l’amore vero, quello disinteressato. Le sue amiche già vivevano i primi flirt, erano avidamente osservate per la strada, corteggiate con assiduità. Molte in modo svenevole, da rivoltare lo stomaco, raccontavano elettrizzate dei loro incontri, dei loro appuntamenti, dei regali che ricevevano per san Valentino o per il compleanno. I suoi compleanni, quelli dell’adolescenza, erano solitari, mesti. Invitava solo qualche amica affine a lei, timida, indifesa, insicura. Solo con questo genere di amicizie si trovava bene. Odiava la volgarità, gli scherzi, le persone troppo superficiali. Nel branco si trovava male perché non si uniformava al gruppo. Nessun ragazzo la guardava, si interessava a lei, nessuno le regalava rose o braccialetti d’oro. Era assente da feste e divertimenti e il tempo lo passava a leggere, studiare, scrivere. Chiusa in casa, bianca in volto, con i capelli tirati su, con la tuta da ginnastica, leggeva e sgobbava sui libri. Non si guardava intorno, non parlava a nessuno si chiudeva come un verme nella mela. Assorta ogni tanto guardava dalla finestra e vedeva le sue amiche in minigonna in compagnia di ragazzi carini e rabbrividiva. Anche lei un giorno si sarebbe vendicata di quella esclusione e avrebbe avuto al suo fianco un uomo bellissimo. Nella sua voglia di normalità voleva essere come le altre. I libri erano i soli suoi amici discreti, che non la tradivano mai, anzi la arricchivano. La scrittura era l’unica valvola di sfogo. Quante volte era tornata a casa delusa e si era rifugiata sui libri! A confortarla c’erano sempre i libri e il suo tenero gatto. Ogni giorno faceva una specie di gatto terapia. Leggeva ovunque sulle panchine, sui tram, al cinema, ai giardini pubblici ecc. Al mare non si metteva mai i bikini per non fare brutta figura. All’età di quattordici anni a complicare la situazione contribuì la comparsa dei brufoli giovanili sul viso e sulla schiena e gli occhiali che la facevano apparire decisamente brutta. Era inguardabile, per anni non si guardò allo specchio per il panico. Il colpo di grazia fu indossare gli occhiali per una miopia. Sapeva che non se li sarebbe più levati. L’oculista l’aveva informata con distacco e freddezza. L’indifferenza dei medici l’aveva sempre irritata. Alcuni medici sembravano insensibili, privi di cuore. Anni dopo con la morte dei suoi familiari sperimentò una vasta gamma di spaventosi comportamenti irriguardosi da parte di medici e infermieri. Aveva finito per odiare la categoria dei medici, con quel loro senso di superiorità, con quel loro modo di considerare le persone come semplici pazienti o come salme. Lei agli occhi di un medico era solo un numero, non una persona con la sua anima. Appena vedeva un camice bianco si intimidiva, balbettava e cercava sempre di fuggire. Odiava i dentisti che spesso si prendevano la libertà di fare delle avance alle clienti belle, anche sposate. I medici le mettevano soggezione e quindi con il tempo finì per rifiutare molti corteggiatori medici, che lei giudicava insensibili. Nell’adolescenza sperimentò per la prima volta la gelosia morbosa, maniacale di suo padre. Lui non la mandava sola alle feste, a fare un viaggio, da un medico, da un dentista, le spiava le telefonate, le apriva la posta, il diario, le impediva di parlare con dei ragazzi. Le impediva di avere una adolescenza normale. Si era rassegnata ad essere seguita ovunque, a ricevere continui rifiuti, a vestirsi in modo classico. Il padre le impediva di mettere abiti scollati, calze a rete, minigonne, gonne con spacchi. Non c’era bisogno di negare tutto questo, era il suo corpo inadatto. Tuttavia le proibizioni le facevano venire voglia di trasgredire. Una volta era uscita con un’amica e si era vestita e truccata in modo eccentrico. Aveva coperto tutto grazie a un lungo cappotto e a un cappello. Era andata in un locale di nascosto di suo padre con i soldi della nonna. Vestita in quel modo aveva attirato stranamente l’attenzione di molti uomini, anche più grandi di lei. Tuttavia si era resa conto di essere considerata una ragazza di facili costumi. C’era rimasta male. Era fuggita inorridita, ferita. L’apparenza che ingannava. Gli uomini si lasciavano suggestionare dal contesto in cui conoscevano una donna, non sapevano distinguere. Lei era stata una ragazza seria che aveva giocato a fare la donna fatale. Ci aveva solo rimesso la faccia. Non aveva ottenuto nulla di concreto, solo una delusione in più. La gelosia di suo padre era pesante come pioggia battente, come grandine. Era una specie di persecuzione, di ossessione, che le faceva mancare il respiro. Si sentiva schiacciata, oppressa, la sua personalità compressa dentro certi schemi. Certe regole rigide le andavano strette. Suo padre pretendeva, con autorità, che lei rientrasse alle sette di sera e se ritardava erano liti, musi, rimproveri, schiaffi, spintoni, parole rabbiose, insulti. Allora lei correva trafelata per poter arrivare in tempo, per non incorrere nelle ire di suo padre. Lui aveva un carattere forte, si faceva rispettare anche a suon di ceffoni. In questo modo però si perdeva visite ai musei, feste, incontri, cene con amici. A ballare doveva andare di nascosto nel pomeriggio con abiti indossati per strada, presi a prestito, con il soldi della nonna. Ogni volta che andava a ballare le sembrava di rubare, temeva di essere scoperta. Così appariva sempre malinconica, spaurita, indifesa. Suo padre non era allegro, non organizzava mai una uscita tutti insieme, un viaggio, una cena fuori programma. Non si ricordava nemmeno dei compleanni, delle ricorrenze. Una vita piatta, monotona, preimpostata, studiata a tavolino, preordinata, senza divertimenti, divagazioni, spensieratezze. Una cupezza scura, una specie di cappa di piombo aleggiava sulla casa, che non era una casa, ma una palestra dove ognuno svolgeva diligentemente il suo compito. Ognuno aveva il suo ruolo e nessuno poteva gettare la maschera e tentare di fare altro. Una persona non si poteva svegliare una mattina e avere voglia di cantare, di andare in bici, di fare colazione fuori. Ognuno aveva il suo ruolo preciso: suo padre lavorava, sua madre era casalinga, lei studiava. La vita quotidiana era scandita da ritmi precisi, la giornata tipo era sempre la stessa: colazione presto, pranzo all’una, cena alle otto, pochi pettegolezzi, poche divagazioni. Anche i tempi più lunghi avevano le loro tappe: visita ai morti per il due novembre, pasqua con i parenti. Era un copione già scritto in partenza dove non era possibile apporvi modifiche sostanziali, di rilievo. In altre parole non era possibile a Pasqua fare un viaggio, o a Natale andare una volta in montagna. I pasti erano sempre silenziosi, corretti, non si poteva parlare liberamente, fare commenti. Il tempo in questo modo scorreva lento, era monotono come il rumore pedante di un pendolo, ripetitivo, nauseante. Irina tuttavia era riuscita a superare la strettoia ricorrendo ai voli di fantasia, ai sogni, alla scrittura, alla lettura. Aveva creato la sua ancora di salvezza, che non le impediva però di essere triste, depressa, incompresa. Il modello uomo che aveva davanti era un uomo apatico, pigro, austero, pedante, pignolo, irascibile. Suo padre era nervoso, si irritava per ogni piccola stortura. Di suo padre apprezzava gli ideali, l’onestà, il rispetto degli altri, i valori, l’educazione. Se lei era così dolce, semplice, onesta, pura, educata lo doveva a lui. Se non si era drogata, non si era persa, se non era morta di incidente di auto lo doveva a lui. In un certo senso le doveva la vita. Se molti apprezzavano il suo carattere docile, la sua ostinazione, la sua puntualità, la sua onestà, la sua educazione lo doveva a lui, che l’aveva plasmata con i suoi insegnamenti rudi, ma comunque insegnamenti validi. Se ora aveva il fascino della grazia, l’eleganza di una farfalla, lo doveva a lui. Se ora parlava un linguaggio forbito, se aveva modi gentili, comportamenti educati lo doveva a lui. Quell’educazione pesante aveva dato i suoi frutti, come in tutte le cose ci sono i pro e i contro. Ora era una bella persona, senza grilli per la testa, con i piedi ben ancorati a terra. Sul suo volto ancora infantile non c’erano tracce di trucco pesante, i capelli erano naturali, le guance prive di belletto. Se era naturale, semplice, spontanea, ingenua, sincera, onesta, lo doveva a suo padre. Erano pochi quelli che la apprezzavano, il cruccio era questo. Gli uomini non la consideravano, preferivano donne aggressive con i tacchi alti, le donne la respingevano e criticavano. Le amiche stesse parlavano al suo passaggio, si mostravano superiori. Le donne belle si atteggiavano e la snobbavano. Oltre che erano belle, che stavano su un piedistallo si permettevano persino di deriderla. Se erano perfette perché la tormentavano con sguardi ironici? Perché non la lasciavano in pace? Le donne tra di loro non erano amiche, non erano solidali, ma erano invidiose, si sentivano superiori. Dalle donne, anche sconosciute, riceveva sguardi biechi. Con il tempo aveva imparato a rispondere al fuoco con il fuoco. Anche lei le guardava con severità, con astio. Alcune amiche era arrivata a odiarle, a respingerle, a farle uscire dalla sua vita. Lei si proiettava fuori alla ricerca di amiche vere ma poi ritornava su i suoi passi con la coda fra le gambe. L’amicizia delle donne racchiudeva insidie, come quella con gli uomini. Gli uomini pensavano subito al modo di circuirla, di sedurla anche se non le volevano bene, anche se non provavano nulla per lei. Lei era una preda da conquistare, un numero da aggiungere alla lista. Un giorno avrebbe scritto qualcosa di serio per denunciare il comportamento ostile delle donne e quello lascivo, egoista degli uomini. Per gli uomini lei non era dotata di personalità, per le donne era una potenziale rivale da eliminare, da tenere a bada. L’amicizia rimaneva in superfice, non scendeva nel profondo, non toccava l’anima. Si andava insieme al cinema, a teatro, al mare ma senza condividere una visione della vita, un sentimento, un punto di vista, una emozione. Le sue erano tutte conoscenze, amicizie a tempo destinate a esaurirsi. Spesso non si condividevano nemmeno gli stessi gusti. La vita di Irina si trascinava stanca, tra la scuola e la famiglia, tra due recinti dove non c’era comunicazione. Non aveva scampo e lo sapeva. Non era bella, inoltre non si rendeva graziosa con nessun artificio, con nessun intervento. Una volta aveva indossato un vestito più trasparente del solito ma non era potuta uscire, suo padre l’aveva costretta a cambiarsi di abito. Certi abiti provocanti sua madre li gettava nella spazzatura. Sarebbe rimasta eternamente sola, il suo destino era segnato. Se il suo destino era scontato è chiaro che non serviva vedere dove l’avrebbe portata. Nell’adolescenza, in quel periodo inquieto, turbolento un po’ per tutti, pensò più volte al suicidio. Pensava a un gesto eclatante, a una lettera di addio piena di allusioni alla cattiveria dei parenti e dei compagni di scuola, degli amici o presunti tali. L’idea di tagliarsi le vene tuttavia non la allettava, temeva la vista del sangue. Odiava vedere ferite, animali morti. Non avrebbe potuto fare il medico. La paura la fece desistere, era troppo vigliacca e troppo sensibile. Non voleva dare un dolore ai suoi nonni, a sua madre. Suo padre forse lo voleva punire per la sua eccessiva presenza nella sua vita. Non era crudele e non aveva la grinta sufficiente per sopportare le agonie del suo corpo ucciso dalle sue stesse mani. L’idea di sparire in verità le faceva piacere, nei momenti di sconforto, quando ripercorreva con la mente l’elenco delle possibili soluzioni a certi problemi, sognava di porre fine ai suoi guai con un gesto estremo. In fondo quanti adolescenti si erano fatti fuori per colpa della derisione dei colleghi, dell’incomprensione degli insegnanti, dell’aridità degli adulti, della crudeltà della realtà. Lei stessa non sopportava i giardini sporchi di siringhe dei drogati, le periferie squallide, le metropolitane affollate nell’ora di punta, gli scioperi, le crisi di governo. La vita era una strada lunga e faticosa, tortuosa, piena di pericoli. Ci si poteva salvare solo approdando su un’isola deserta. Vivendo sull’isola si rischiava di rimanere esclusi, isolati, di diventare delle isole in un mondo di relazioni. La comunicazione, anche quella tecnologica, le sembrava un bluff. La gente si scriveva in posta elettronica e poi quando si incontrava cambiava strada. Un modo tortuoso di volersi bene, o di odiarsi a seconda dei punti di vista. Irina sapeva per certo che i suoi scritti non avrebbe mutato nulla, sarebbero rimasti lettera morra, forse era meglio il silenzio. Scriveva alle istituzioni per denunciare, per sfogarsi. Ognuno aveva i suoi passatempi. La scrittura era la sua droga, l’elemento frenante che le impediva di fare un gesto folle come quello di togliersi la vita. L’idea di togliersi la vita veniva a ondate e quando le relazioni amorose finivano, l’idea diventava dominante. Perché era così timorosa, così timida, così debole, perché non era sprezzante del pericolo? Perché si lasciava intristire dalle rinunce, dai rifiuti? Se almeno avesse avuto un po’ di coraggio per affrontare il mondo sarebbe stato diverso. Invece si comportava come un coniglio spaventato, che si chiudeva a riccio alla prima difficoltà. Anche guidare un’auto le costava fatica perché era lenta, pigra e non sopportava la velocità, che le faceva paura. Spesso gli automobilisti la insultavano per la strada e suonavano il claxon, perché era lenta nel fare manovre e aveva una andatura piana, non veloce. Non capiva perché però tutti si accanissero con i più deboli. I furbi, gli scaltri i disonesti ottenevano il plauso della gente. Un ladruncolo da strapazzo, una ragazza facile avevano più amici di lei, erano più apprezzati, più stimati, più difesi. Conosceva una ragazza facile che si dava da fare ampiamente e vedeva che aveva molti corteggiatori, molti uomini ai suoi piedi. Conosceva una famiglia vicina di casa poco perbene e tutti la adoravano. In queste ingiustizie c’era il germe di un mondo a rovescio dove i delitti sarebbero stati impuniti e gli assassini liberati dopo pochi anni di carcere. Erano riportati sui giornali i casi di giovani che avevano ucciso i genitori e che in carcere avevano ricevuto le lettere di ammiratrici, di donne che si proclamavano innamorate di questi incalliti delinquenti. La gente abituava a vivere in ambienti malsani si trovava a proprio agio solo con i criminali non con la gente seria, che era costretta a vivere in disparte. La sua stessa amica Carla, con cui avevano condiviso molte esperienze, preferiva uscire con altre ragazze più smaliziate e preferiva farlo di nascosto di lei. Carla alla fine l’aveva abbondonata dopo che le aveva promesso eterna amicizia. Quando la incontrava per strada non la salutava più, come se lei avesse una malattia infettiva. Nemmeno un buongiorno, un saluto affettuoso anche se frettoloso. Tutti andavano di fretta e non si potevano soffermare, perdere tempo. Le amicizie erano legate a un interesse. Infatti Carla grazie alle nuove amicizie, a cui lei era stata esclusa, aveva conosciuto il suo futuro marito. Non si era degnata di invitarla nemmeno al matrimonio anche se abitavano vicino e si conoscevano dall’asilo. Irina non si era data per vinta e aveva scritto una lettera risentita all’amica. I loro rapporti non erano mutati, ma almeno aveva chiarito. Da allora aveva imparato a chiarire le situazioni o de visu o per lettera. Aveva scritto lettere importanti a amici, parenti e persino istituzioni, partiti. Non poteva tacere davanti a una esclusione, a una ingiustizia, a un problema. Sollevava sempre i problemi senza peli sulla lingua. Un’altra amica di liceo si limitava con lei a fare solo i compiti, visto che lei era preparata, e poi il tempo libero lo passava con altre persone. Aveva imparato ad essere selettiva nelle amicizie e a far uscire dalla sua vita quelle presenze scomode che la facevano soffrire. Alcuni li aveva proprio cancellati, soppressi non senza dolore al cuore. Soffriva di nostalgia, di rimpianti. Talvolta non riusciva ad andare avanti, si voltava sempre indietro rimanendo impantanata. Il passato la avvolgeva con le sue spire, anche se era un passato doloroso lei lo mitizzava, lo considerava un periodo perfetto. Una sua compagna di liceo, si era iscritta al liceo scientifico, aveva tentato di iniziarla alla droga. Lei stessa ne faceva un uso regolare. Lei era fuggita inorridita, se voleva buttarsi via poteva farlo al limite suicidandosi, ma mai avvelenandosi un po’ alla volta. Non voleva ridursi come una larva umana, pallida, con le braccia piene di lividi e il cervello vuoto come una lavagna senza scritte. La sua amica usava sostanze stupefacenti con disinvoltura eppure non aveva motivo di buttarsi via. Era ricca, viveva in una casa spaziosa, suo padre era un medico famoso, aveva abiti firmati. Forse lo faceva per noia, quel tarlo che uccide e corrode come ruggine molti giovani. Le brutture stavano tutte sotto i suoi occhi nonostante la sua indifferenza. I traumi segnavano ancora il suo cervello. Un trauma in particolare avrebbe condizionato le sue scelte future. Da piccola, all’età di quattro anni, aveva subito un tentativo di violenza carnale da parte di un adolescente. Ricordava ancora i suoi vestiti strappati, la sua mente inquieta, agitata, i suoi sogni simili a incubi. Le donne che erano oggetto di atti repellenti, di violenze. Una lunga scia di sangue nella sua mente se pensava a tutte le donne uccise per mano anche di fidanzati, di amanti, di mariti. La folle gelosia che armava la mano di uomini violenti. Dopo quel trauma non sarebbe stata più la stessa. Infatti dopo psicologicamente avrebbe preferito guidare lei i rapporti amorosi piuttosto che essere sottoposta a un uomo dalla forte personalità. Odiava il sopruso, la sopraffazione non solo fisica ma anche psicologica. I traumi erano come aghi conficcati nel suo cuore. Non aveva raccontato a nessuno l’episodio che si era tenuto dentro come un tesoro, come una cosa di cui vergognarsi. L’episodio a distanza di anni si era ripetuto. Nell’attraversare un giardino in pieno giorno era stata aggredita da un uomo anziano. Era riuscita a fuggire ma aveva gli abiti a brandelli e le lacrime agli occhi. Aveva gridato, la gente seduta alle panchine era rimasta impassibile. L’indifferenza della gente in giro la faceva rabbrividire. Una volta si era sentita male su un mezzo pubblico e nessuno l’aveva soccorsa, nemmeno il conducente. Allora le associazioni umanitarie, la solidarietà erano solo parole. Alla prima occasione si voltava le spalle al dolore, non si aiutava. Lei era come un animale spaventato che evitava volutamente il contatto con gli umani. Era paurosa per natura e certi episodi avevano aggravato il suo stato d’animo malinconico. Era una persona diversa, temeva la tecnologia, non sopportava le scale mobili, i pc, odiava gli aerei, le navi veloci, le giostre pericolose. I giochi spericolati in tutti i campi non facevano per lei. Invidiava le persone intraprendenti, che si cimentavano in imprese rischiose, che riuscivano in tutto con disinvoltura. Lei non era spregiudicata, disinvolta, audace, intraprendente. Era frenata dalla voce della coscienza e quelle rare volte che si era lasciata andare, che aveva messo a tacere la coscienza aveva fatto una brutta fine. Ogni sgarro, ogni deviazione, ogni inciampo, lo aveva pagato a caro prezzo. La sua paura di sbagliare la bloccava e quindi non frequentava sale gioco, posti pericolosi, balere, night club. Non amava il rischio e questo non giocava in suo favore. Qualche volta in amore soprattutto bisogna per forza rischiare. Molte sue coetanee si comportavano come maschi, erano molto aggressive, poco femminili, prive di grazia, eppure riscuotevano successo, specie tra gli uomini, ed erano corteggiate, uomini impazzivano per loro. Il rapporto uomo-donna per lei si basava sull’affetto, sull’amore, sulla comprensione, sulla stima reciproca, ma era lontana dalla verità. Ben presto comprese a sue spese che quello che conta è il corpo. Una donna con il corpo sinuoso, perfetto, è un modello per le altre donne, una preda per gli uomini. Non conta però solo il corpo, conta anche essere passionali, sensuali. Lei in verità aveva una sensualità latente una passionalità forte che nemmeno lei conosceva, era sepolta, era stata soffocata dall’educazione, dalla cultura, dalla paura. Non poteva dare libero sfogo ai sensi, doveva frenare. Quel continuo comprimere la sua sensualità le costava fatica. Era come imbrigliare i venti di un uragano in una gola stretta montuosa. Era mostruoso come teneva a bada i suoi istinti. Si reprimeva, senza sfogarsi. Una sensualità che traspariva nei gesti, nelle mani, nelle parole, nei movimenti della testa e che appariva visibile a un occhio esperto. La sua sensualità latente attirava uomini meschini, audaci. L’importanza del corpo l’aveva spinta a curare meglio il suo aspetto, il suo modo di vestirsi, ottenendo poco successo, dato che poi non poteva mostrare più di tanto. Le sue amiche intanto continuavano a tradirla. Una sua amica di vecchia data l’aveva liquidata addirittura per telefono con parole irripetibili, con frasi pungenti. Per giorni aveva pianto per questa perdita, non aveva dormito la notte era stata costretta a prendere dei sonniferi. Intorno a lei un deserto spaventoso che faceva paura. Ogni volta il vento spazzava via le sue certezze, i suoi punti fermi, i suoi amici e doveva ricominciare tutto daccapo. Ritesseva la tela delle sue relazioni con pazienza, con determinazione come Penelope e poi un soffio di vento gelido mandava in frantumi tutto il suo mondo. Schegge impazzite la colpivano inclementi. Si ricreava una comitiva, un giro di amici e poi accadevano cose che la sospingevano lontano, come se lei avesse la vocazione della solitudine, fosse nata per essere sola. Ogni sforzo per risalire la china era vano. Alcune volte si rassegnava alla solitudine, altre volte si ribellava. Nella solitudine rifletteva, non riceveva insulti, pensava, scriveva, sognava. La solitudine aveva i suoi aspetti positivi, stimolava la sua fantasia, illuminava i suoi pensieri.

 

Ester Eroli

 

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