Capitolo secondo: La nascita del male (Romanzo: La strada più breve – di Ester Eroli)

Capitolo secondo La nascita del male (Romanzo La strada più breve – di Ester Eroli)Mio padre agì in modo sconsiderato anche il giorno in cui nacqui. Venni al mondo una radiosa mattina di giugno. Il mio arrivo era atteso con ansia e trepidazione. Tutti indistintamente speravano, compresi i miei genitori, nella nascita di un primogenito maschio, che in teoria avrebbe dovuto mantenere intatto il nome dell’illustre casato. La nascita di una bambina poteva significare la fine di una dinastia, una specie di maledizione per il nostro famoso cognome. La nostra “razza” sarebbe venuta meno se fosse nata una bimba. Questo pregiudizio era legato anche a questioni strettamente economiche. L’eredità di una famiglia doveva restare nel suo ambito ed essere mantenuta solo dai suoi membri. Mio padre orgogliosamente mostrò a tutti il suo primogenito, facendo pesare ad altri parenti il fatto di non aver avuto un maschio. Penso che i figli siano doni di Dio, e sono tutti uguali. Tutto dipende da ciò che essi realizzano e costruiscono nella vita. L’unica soddisfazione che ho dato a mio padre forse è stata quella di poter umiliare gli zii che per destino non avevano avuto dei rampolli maschi e di brindare al neonato maschio. Anche ora il mondo è pieno di simili pregiudizi e c’è già chi pensa a una futura manipolazione genetica per poter predeterminare il sesso del nascituro. In Cina, dove per legge si può fare solo un figlio, vengono fatti nascere solo maschi. Spesso le femmine vengono abortite durante la gravidanza. Tutto questo avviene generalmente per presunzione e perché nessuno ha compreso la vera essenza della vita. Ogni individuo è influenzato dall’ambiente in cui vive. Non posso condannare la mia famiglia o la società in cui vivo di questi comportamenti dato che fino a un certo punto li ho condivisi anche io. Ho avuto il loro stesso modo di pensare e di essere. Il ravvedimento è per me giunto al termine, ed è avvenuto solo in una occasione del tutto particolare. Se no anche io ero inserito nel sistema e ne condividevo le posizioni. Quando una persona vive in una certa epoca, in un certo ambiente, ne assorbe tutti gli umori, anche suo malgrado. Così è accaduto alle generazioni della mia famiglia. Anche mio padre fu per certi versi vittima inconsapevole di un certo meccanismo, tipico delle famiglie benestanti. Tuttavia invece di ribellarsi, accettò passivo fino a toccare il fondo, fino a sfiorare il male con l’anima. Ho molti ripensamenti e dubbi sullo stile di vita della mia famiglia, stile che ancora oggi molti apprezzano e che anzi considerano un modello a cui attenersi per avere successo. E’ bene invece avere sempre degli scrupoli, non farsi mai illusioni, agire con calma e onestà, insomma avere dei valori. Il male si annida dentro di noi in modo subdolo, ci viene trasmesso geneticamente, ci viene iniettato nel sangue dalla società. Ci sono modelli di vita all’apparenza impeccabili ma che nascondono crepe, contraddizioni. Le famiglie benestanti hanno il potere dei soldi, della posizione e forti di questo potere manipolano i loro figli come creta. Siamo nati e non abbiamo chiesto noi di venire al mondo e siamo condannati a vivere in un ambiente che a un certo punto ci va stretto. Ribellarsi non è facile, cambiare rotta è complicato. Il male non è nato in me all’improvviso ma è legato alle mie radici. Le generazioni della mia famiglia si sono nutrite nel tempo di ozi, di silenzi, di angherie, di soprusi, mentre all’apparenza tutto era perfetto e regolare. La strada intrapresa dai miei antenati mi appare come quella del male, ma solo ora che ho aperto gli occhi dopo la scossa datami dal destino. La mia cecità non mi faceva vedere quello che era sotto gli occhi in evidenza. Intraprendere la strada del male per seguire una linea già tracciata, per raggiungere obiettivi che altrimenti non si potrebbero raggiungere. Il male resta comunque male e il destino prima o poi si accorge del male che facciamo, che ci portiamo dentro e ci punisce. Ma allora perché si sceglie la strada del male? Si può scegliere per ottenere tutto e subito per fare come gli altri come i nostri predecessori, i nostri antenati, per fare come mio nonno Vincenzo.
I miei nonni paterni Vincenzo e Marta vivevano in un paese nella provincia di Roma, nei castelli romani, immerso nel verde dei vigneti e degli uliveti. Appartenevano entrambi a famiglie di antica tradizione nobiliare, ricchissime e superbe, fiere del loro nome importante. Il loro matrimonio venne combinato per varie ragioni, non ultime quelle economiche. Marta era una donna energica, risoluta, superba ma sapeva farsi stimare dalla gente del luogo, per lo più contadini e fattori, che la chiamavano rispettosamente la signora, evitando di pronunciare il nome di battesimo. Mai nessuno si sarebbe rivolto a lei con tono aspro, ironico o addirittura irriverente. La sua stessa persona, alta e robusta, i suoi stessi occhi neri, penetranti, incutevano un certo timore specialmente fra i bambini più timidi. Era in realtà il potere della sua casata che la gente temeva. Le persone si sentivano schiacciate dal potere, dalla forza dei soldi. I soldi esigevano rispetto. Non contava la condotta morale, contava il possesso del denaro. Le famiglie più in vista, ossia più ricche, erano stimate da tutti, dal vescovo, dal maresciallo dei carabinieri, dal prete della zona, dai commercianti. Il denaro faceva scaturire una sorta di timore reverenziale, un stato di soggezione. Mentre interiormente la gente invidiava questa casata in apparenza li venerava come idoli, li salutava con una riverenza. Anche oggi è possibile sentire il peso di uno sguardo superbo e raggelante, lo sguardo altezzoso di una persona benestante, ed è inconfondibile. E’ uno sguardo che ci spoglia, ci umilia, ci devasta, ci fa apparire ridicoli, ci schiaccia, ci deprime. Il senso di superiorità che traspare nei gesti, nelle parole, nei modi. Sono soprattutto le donne quelle con la puzza sotto il naso, che tracotanti offendono con le frasi, con l’atteggiamento. E’ un comportamento impeccabile all’apparenza, ma che cela una derisione nei confronti del povero, una esclusione. Marta aveva tutta la superiorità di un cavallo di razza. Insegnava nelle scuole elementari come maestra, in un paese vicino al suo, dove, già prima della seconda guerra mondiale, esistevano delle classi all’interno di caseggiati privati. Era una scuola d’altri tempi con le bacchette e i vetri opachi. Una scuola selettiva che erigeva invisibili barriere nei confronti di caste inferiori. L’inferiorità non si dichiarava in modo manifesto si percepiva sulla pelle. A scuola Marta era esigente, severa non lesinava le bacchettate sulle mani dei fanciulli ribelli e più lenti nell’apprendimento. Il suo volto allungato si irrigidiva e il suo sguardo diveniva torvo, quando qualcuno sbagliava la pronuncia di una parola o un numero. Non sopportava i bambini sudici, poveri, semplici, invece aveva sempre un sorriso dolce per quelli che potevano regalarle delle uova, dei dolci, in occasione del Natale e di altre feste. Con l’andare del tempo diventò imparziale nei giudizi privilegiando naturalmente persone del suo stesso livello o di livello superiore, che potevano essere utili, dato che contavano nella loro cerchia. Era entrata nelle sue grazie una bambina di nome Giuseppina, che le era stata raccomandata da un suo amico ingegnere. Era la sua prediletta e godeva di particolari privilegi. Ad esempio, all’insaputa della classe, veniva interrogata dalla maestra soltanto quando era preparata alla perfezione, così non veniva mai sorpresa in difetto. Inoltre veniva sempre lodata e ricordate le sue molte doti e virtù. Durante le recite teatrali, le feste mascherate la piccola favorita aveva sempre una parte di primo piano. Anche la preside stessa dell’istituto apprezzava questa esile fanciulla e accettava volentieri i suoi regali d’oro, i suoi omaggi floreali, il dono di qualche suo disegno. La bimba aveva un carattere chiuso, diffidente e a complicare la situazione contribuiva la sua innata timidezza che la faceva apparire impacciata e lenta nei movimenti. La sua intelligenza era mediocre e quindi i risultati dovevano essere scarsi, ma stranamente era la prima della classe, i voti conseguiti erano alti. La piccola era aiutata in famiglia dai genitori che si impegnavano a spiegarle le lezioni per filo e per segno. Il metodo di studio era quasi sempre lo stesso: imparare tutto a memoria, anche senza capire i concetti. La maestra dal canto suo evitava di farle domande a trabocchetto e le faceva ripetere le varie materie a pappagallo senza interromperla. Marta invece si accaniva a perseguitare i fanciulli che andavano male a scuola. Rispolverando vecchi metodi didattici aveva persino fatto mettere orecchie finte di asino ai meno diligenti e li aveva fatti girare per l’aula esponendoli al ridicolo. I compagni di scuola si erano accorti dei favoritismi e nutrivano nei confronti di Giuseppina una sorta di invidia, gelosia ma anche rabbia, disappunto, disprezzo. Molti finirono per fare dei dispetti alla malcapitata, rompendo i suoi giocattoli, distruggendo i suoi disegni. Alcuni, più gentili di animo, provavano pietà per questa bimba insicura, fragile, meschina. Spesso i ragazzi più bravi mettevano alla prova la sua preparazione e constatando la sua incapacità, fra loro ridevano di gusto. Il modo di fare di Marta agli occhi dei bambini appariva disgustoso, il suo atteggiamento presuntuoso. Lei stessa forse era una bambina viziata a cui il destino non aveva mai detto di no. Era capace anche di slanci di affetto vero ma solo verso chi le piaceva. Era una creatura opportunista che sfruttava il suo insegnamento per mantenere i contatti con le alte sfere. Non era leale, prendeva posizione, si schierava da una parte, rifiutando di essere perdente. Schierandosi dalla parte dei potenti, dei suoi simili, si assicurava un posto nel bel mondo. Gli altri, gli umili non potevano aiutarla, non contavano, non servivano. La scuola era una palestra per educare spiriti elevati non gente comune, senza arte né parte. Tuttavia lei non si considerava fortunata, considerava il suo successo, la sua posizione come farina del suo sacco. Lei era l’artefice del suo destino e non dipendeva da nessuno. Non sapeva nemmeno di comportarsi male, per lei era naturale come bere un bicchiere d’acqua. I suoi metodi li considerava eccellenti, la sua cultura la considerava smisurata. Non si rendeva conto che c’erano persone che, pur essendo abili, non avevano mezzi economici per studiare. Era fanatica, superba, difendeva a spada tratta il suo modo di operare, come fosse il migliore. Il vero maestro è colui che guida i fanciulli nella via del sapere senza fare distinzioni di sorta, inculcando semmai gli ideali di fratellanza, solidarietà, lealtà, amore per il prossimo. Gli alunni avevano imparato da subito la lezione. Avevano capito che non conta la bravura, le capacità, contano le conoscenze nella scuola, come nel lavoro, come nella vita. Giuseppina era destinata a un roseo avvenire, infatti divenne, nonostante la più totale negazione, una perfetta insegnante. Le classi che aveva Marta non erano omogenee, erano attraversate da correnti forti. Odi, antagonismi, rivalità, malanimo serpeggiavano fra i banchi come la peste in tempo di guerra. Gli allievi finivano quasi sempre per guardarsi in cagnesco e per insultarsi e finita la scuola, non si salutavano nemmeno più. L’amicizia non era possibile, fili invisibili ma resistenti dividevano le varie classi sociali. Marta accentuava le differenze di classe, facendo pesare ai più poveri la loro condizione di campagnoli senza futuro. Le grandi menti, i geni appartenevano solo alle grandi famiglie dal nome altisonante. Non si rendeva conto minimamente che se lei aveva studiato era perché nel palazzo dove abitava esisteva, già prima della sua illustre nascita, una fornita biblioteca che le aveva consentito di conoscere dei testi ancora prima di andare sui banchi di scuola. Se la sua famiglia poi aveva progredito lo doveva essenzialmente agli agganci e alle conoscenze che aveva nelle alte sfere del potere. Se non fosse stato per tutto questo lei certamente non avrebbe mai lavorato in quella scuola, dato che non aveva una vocazione spiccata. Il mondo si è sempre retto su questo sistema di poteri. I figli dei potenti sembrano tutti perfetti, in grado di realizzare splendide carriere in ogni campo. Bisogna nascere sotto una buona stella. Il successo, il lusso, il denaro tuttavia non mettono al riparo dalle bordate del destino. Per la gente semplice, onesta, normale c’è in effetti pochissimo spazio, solo lo spazio per tante speranze e poche illusioni. La gente comune può solo essere satellite di questi grandi astri luminosi del firmamento che mietono soldi e applausi, e che vogliono, incontentabili, sempre di più. Pensiamo ai portieri, gli autisti a tutti coloro che passano il tempo al servizio dei potenti, al servizio dei loro capricci. Persone inutili, che hanno sempre fatto il loro dovere e che nessuno ricorda. I loro nomi non compaiono da nessuna parte, sono folle anonime, masse senza volto, senza nome. Per gli umili non ci sono possibilità di riscatto. Si illudono di cambiare il mondo, mentre in verità, resta tutto uguale. Per fortuna anche il potere ha il suo veleno, che può essere così sottile da divenire, in taluni casi, mortale. E’ un veleno che agisce in sordina, corrode le radici, mina le basi, fiacca gli anima, distrugge la ragionevolezza, annienta il pensiero. La stessa vanità può essere un’arma a doppio taglio, insidiosa come una vipera. Anche i potenti qualche volta crollano, si schianta al suolo il castello di cartapesta che si sono costruito. Fra gli uomini ci saranno sempre spaccature, barriere sottili, divisioni, differenze. La persona di successo tenderà sempre a guardare dall’alto in basso tutti gli altri suoi simili. L’orgoglio è un nemico difficile da sconfiggere, specie se vive annidato nell’animo. La solidarietà diventa per così dire una parola vuota di significato. I potenti, che da un lato fanno beneficenza, dall’altro discriminano con sguardo altero. Non possiamo condannare, anche noi al loro posto faremo lo stesso. Non siamo stati educati al rispetto, e l’educazione comincia a scuola, in famiglia. Solo le persone che riescono ad emergere, contando solo sulle proprie forze, hanno il dono prezioso dell’umiltà, un dono piacevole e squisito come un vino raro. Quando si è raggiunta una posizione di rilievo nessuno dovrebbe diventare superbo. Il domani nessuno lo sa, la fortuna potrebbe rovesciarsi. Marta invece, forte della sua posizione sociale, si faceva valere in ogni ambiente come se nel mondo ci dovesse regnare eternamente. Un altro aspetto che tutti trascurano e che invece bisognerebbe tenere a mente è la brevità dell’esistenza. Coscienti di questo ognuno dovrebbe operare per il bene comune, senza commettere violenze e soprusi. Cosa rappresenta un nostro gesto maligno davanti all’eternità? E’ solo un granello di polvere che va a confondersi con gli altri. Certo il male fatto agli altri lascia una traccia profonda dentro di noi, non negli altri. Molti provano un gusto matto a infliggere la sofferenza agli altri ma non sanno che spesso il destino riserva anche a loro una buona dose di dolore. L’ascesa dell’uomo verso la felicità, verso il piacere non è indolore. Anche il successo racchiude la sua dose di veleno. Il successo ottenuto sulla pelle degli altri è ancora più insidioso. Non fare il bene equivale a condannarci ad avere a vita un cuore arido, senza prospettive se non quelle di soccombere alla falce del destino e della morte, che è uguale per tutti. La morte non risparmia i potenti, gli indifferenti, i disonesti, i furbi. Il successo è effimero, dura la spazio di un mattino, prima del buio della notte. Il potere assoluto procura solo solitudine. Quanti uomini potenti, re, imperatori alla fine si sono ritrovati soli davanti alla morte? Il potere condanna alla solitudine, alla aridità del cuore, all’assenza di sentimenti, anche perché per raggiungerlo bisogna scendere a compromessi, in alcuni casi bisogna addirittura vendersi. Il destino spesso condanna i superbi, ma non tutti i mali vengono per nuocere. Infatti nel dolore si riscopre la fratellanza, la solidarietà, il rapporto con gli altri. C’è un detto popolare che recita: la superbia partì a cavallo e tornò a piedi, ed è quando torniamo a piedi che cerchiamo una mano amica, umana che abbracciamo il prossimo, senza tante pretese. I pregiudizi si diradano, lasciano il passo alla comprensione. Perché aspettare la rovina? Non si potrebbe essere da subito disponibili con gli altri? Nella breve vita bisogna impegnare il poco tempo che ci è dato, non sappiamo nemmeno quanto, nel modo migliore, perfezionando noi stessi e dando aiuto concreto agli altri. La felicità non è data dal denaro, dal successo, dalla bellezza che subito sfiorisce, ma dalla serenità interiore. Affidarsi all’effimero significa seguire cose evanescenti come fantasmi, fugaci, lontane. Con la coscienza a posto si risolvono per incanto tutti i problemi e si è sempre pronti ad affrontare l’ultimo e estremo viaggio, quello che tutti rifiutano a priori, che tutti, a modo loro, esorcizzano e che devono fare per forza. Marta non sapeva, o fingeva di non sapere, che il male è la conseguenza diretta del peccato e sbagliando tutto sarebbe ricaduto automaticamente su di lei e sulla sua discendenza. La morte l’avrebbe colta nel momento inopportuno quando ancora le restava molto da fare e da vedere. Non si può puntare solo sulle proprie forze nella convinzione cieca di essere immortali. Lei era fermamente convinta che niente l’avrebbe scalfita. Agiva sempre come se non esistesse nessun traguardo ultimo, nessuna resa dei conti. La morte viene considerata in questa società moderna un semplice incidente di percorso, qualcosa di lontano da noi che generalmente colpisce gli altri, quindi ci lascia indifferenti. Quando colpisce la nostra famiglia ci sconvolge per qualche tempo poi siamo subito pronti a ricominciare come se niente fosse accaduto. Ci stordiamo con le lusinghe del mondo per dimenticare l’atroce realtà della morte. Come se l’attaccamento alle cose materiali riuscisse da solo ad allontanare lo spettro della signora in nero. La morte è qualcosa di più della fine di un’esistenza, è il momento cruciale del bilancio, dell’analisi, è il momento di saldare il nostro conto in sospeso prima di precipitare attoniti fra le braccia dell’eternità. Le persone oneste, pure sicuramente non hanno incubi di fronte a questo evento misterioso chiamato morte. Sono disposte a fare serenamente questo salto nel buio, anzi vivono tenendo costantemente presente questo limite e trascorrono ogni giorno come fosse l’ultimo. Chi ci assicura che vivremo fino a domani? La persona tranquilla cerca di giungere al traguardo finale pulita e migliorata. Marta abituata a commettere ingiustizie di ogni tipo e a vivere in un clima di menzogne e sotterfugi, esorcizzava la morte fingendosi immortale e finendo per crederci. A scuola aveva creato con le sue mani un clima di sfiducia e rivalità. Le menti dei bambini erano state plasmate per sempre in modo scorretto. Eppure l’infanzia, l’adolescenza sono momenti fondamentali, dove si forma il carattere. I traumi dell’infanzia ce li portiamo dietro per tutta la vita. I ricordi dell’infanzia, dolorosi e gioiosi, restano impressi nella nostra mente a lettere di fuoco, condizionano le nostre scelte, il nostro futuro. Gli spiriti ribelli sono quelli che tentano di reagire a un’infanzia negata, a un’infanzia infelice. Marta nella vita privata si comportava come a scuola. Voleva sempre averla vinta lei e concentrava le attenzioni su di lei. Il suo egocentrismo sfrenato la portava volentieri a eclissare il partner che aveva così poche voci in capitolo. Suo marito la lasciava fare tanto lui aveva altre distrazioni e doveva anzi farsi perdonare. La sua famiglia era come le classi della scuola: divisa, unita solo in apparenza, per far vedere agli altri, per dare l’immagine impeccabile di una famiglia perfetta. Del resto il suo matrimonio era stato un contratto sociale più che una unione dettata dall’amore. Abituata a vivere nel lusso, viziata oltre ogni limite, aveva accettato ben volentieri di divenire la consorte del ricco, possidente, conte avvocato Vincenzo. Il conte viveva quasi di rendita, infatti aveva dato in affitto molti appezzamenti di terreno e case coloniche nella provincia, e abitazioni, palazzi, nella stessa città di Roma. A Roma possedeva, proprio nel centro storico, numerosi appartamenti fastosamente arredati con oggetti di antiquariato e raffinate suppellettili. Non sapeva nemmeno lui la consistenza del suo patrimonio. Si recava nella capitale per svolgere alcune cause, saltuariamente svolgeva la professione di avvocato. Era un impegno a tempo perso, un diversivo per mostrare la sua bravura, il suo talento, il suo potere smisurato. Era l’avvocato dei potenti che potevano permettersi il suo onorario, non certo della gente comune che stentava ad arrivare alla fine del mese. La sua giovinezza ovviamente era stata spensierata e gaudente. Era stato un giovane avventato, presuntuoso, fanatico, irresponsabile. Si era calmato solo al momento dell’esercizio della sua professione e in occasione delle nozze. I suoi genitori gli avevano consentito tutto, gli avevano dato denaro per soddisfare i suoi capricci e le sue voglie. Mentre i suoi coetanei vivevano alla giornata lui poteva contare su un cospicuo gruzzolo di denaro che gli consentiva di intrattenersi a teatro, di trascorrere il tempo giocando a carte, di frequentare esclusivi club privati, di seguire straordinari concerti di musica classica, di uscire con ragazze appariscenti e frivole. La sua passione in verità erano le donne belle. Non disdegnava la compagnia di signore mature annoiate dal matrimonio, di fanciulle sole desiderose di avventure galanti, di innocenti creature a caccia d’amore. Le stesse donne lo cercavano, lo braccavano, lo perseguitavano notte e giorno senza scrupoli. All’età di venti anni aveva già collezionato precoce molte amanti, anche mogli di amici, di colleghi di studio, fidanzate di lontani cugini e di parenti. Ad attirare il sesso opposto era sicuramente il fascino di uomo di mondo, spavaldo e cortese, sicuro di sé e fanatico e il viso puerile simili a quello di un bambino. I soldi esercitavano sulle donne un fascino strano. Con i soldi comprava costosi gioielli e ornamenti, pellicce di ermellino e profumi. Regalava sempre alle donne fiori ricercati, profumi, anelli e diademi preziosi. Faceva di tutto per sedurle. Una volta conquistata la preda il gioco poteva dirsi concluso e lui era subito pronto a ricominciare nuove trame amorose. Vincenzo conosceva i tremori, le palpitazioni, i rossori dell’amore? La sua vita sentimentale era diventata una abitudine, un susseguirsi di storie strampalate senza importanza e senza futuro, intrecciate solo forse per dimostrare a se stesso di essere forte, valoroso e per verificare sul campo direttamente il suo carisma. Nel suo intimo più profondo era convinto di essere irresistibile, imbattibile e anche lui si comportava come se fosse immortale, per sempre giovane. Il male del mondo, la malattia, la morte non lo riguardavano minimamente era una cosa lontana, che colpiva gli altri. Sacrificava un sentimento puro come l’amore per inseguire frivole avventure da poco che non lasciavano traccia alcuna nel suo già arido animo. Non rifletteva mai sulle conseguenze del suo insano comportamento. A Vincenzo era accaduto semplicemente quello che accade a un chirurgo. All’inizio della carriera di medico ogni chirurgo prova un certo imbarazzo, specie le prime volte, nel toccare i ferri del mestiere, nel fare una autopsia, nel tagliare e ricucire una ferita, nell’operare per la asportazione di un tumore. Con il tempo però diventa più franco, più veloce, più sicuro. Subentra la pratica, l’abitudine, e tutto diventa più facile. Il chirurgo lavora imperterrito, la vista del sangue non fa più nessun effetto, le mani non tremano e sudano più davanti a un cadavere sfregiato, malridotto, tutto diventa prassi, procedura di ordinaria amministrazione. La lunga pratica sentimentale aveva reso Vincenzo arido, freddo, indifferente, incapace di provare sentimenti autentici, di innamorarsi perdutamente. Corteggiare una ragazza per lui era un obbligo, quasi un dovere per non sfigurare, non un desiderio, un piacere. Ogni sua azione amorosa era frutto di calcolo sapiente e veniva portata a compimento con molti sotterfugi e stratagemmi. Niente era affidato per così dire al caso e avveniva spontaneamente. In questo modo aveva perduto presto la freschezza, conservata solo nelle fattezze del volto, l’ingenuità tipica della gioventù e al loro posto era subentrata la furbizia, l’aridità. Spesso è vero crescere significa anche perdere la sensibilità e acquisire maggior disinvoltura, un carattere più forte e dinamico, più cinico. Andando avanti con gli anni è possibile raggiungere quella imperturbabilità dell’animo che ci consente di essere più freddi, più distaccati, meno coinvolti emotivamente. Lo stupore della gioventù non ci riguarda più, ma ci colpisce sempre un giovane arido senza sentimenti. Per fortuna la freddezza dell’animo adulto non riguarda tutti indistintamente. Le persone che hanno sofferto, lottato per raggiungere una posizione, che hanno avuto una vita difficile, sono, una volta divenuti adulti, ancora capaci di sentire le palpitazioni del cuore, di provare pietà e rimorso, di emozionarsi davanti a un tramonto o a un animale ferito. Vincenzo era abituato sin da bambino ad avere tutto e subito senza troppi sacrifici quindi non conosceva il sapore della disfatta, del fallimento. Fallire qualche volta può essere anche utile: ci aiuta ad essere combattivi, non passivi. Era stato tenuto lontano dal dolore, protetto sotto una campana di vetro, nessuno poteva togliergli ciò che possedeva per diritto naturale. Non sapeva, ignorava che il destino, la legge di natura se vuole, ci può togliere tutto con un solo colpo di bacchetta magica, il tempo di un battito di ciglia. In cinque minuti può precipitare un impero costruito nei secoli. Niente è sicuro, la gioventù stessa fugge via lasciandoci l’amaro in bocca, come un treno in corsa. Vincenzo era convinto che il mondo non poteva andare avanti senza di lui. Insensibile, distaccato guardava i suoi simili, i suoi coetanei lottare ogni giorno per pochi soldi, senza muovere un dito. Tutti i genitori dovrebbero, il condizionale è d’obbligo, instillare ai propri figli il dono dell’umiltà e insegnare il sacrificio, la fatica, il rispetto, la pietà. Nella attuale società dei consumi, in cui sono costretto a vivere, i figli crescono viziati perché si tende a dare loro tutto per paura che soffrano di complessi di inferiorità. Non è certo un’automobile di lusso, un vestito elegante a stabilire se una persona è superiore a un’altra. Non bisogna guardare alle apparenze ma alla sostanza delle cose. Invece si preferisce apparire che essere. I giovani crescono tracotanti, superbi, arroganti, poco disponibili. I giovani non distinguono ciò che essenziale da ciò che non lo è. Mi sono fatto per anni sempre la stessa domanda e ho cercato invano la risposta: perché quando si hanno dei soldi, non sempre farina del proprio sacco, si diventa superbi, sprezzanti, si guarda tutti dall’alto in basso e soprattutto si dimentica la malattia, la morte? Chi ha molti soldi spesso si monta la testa, si crede di essere qualcuno di importante. Non contano le azioni quotidiane, i pensieri, i gesti, conta solo il rango, la casta. Si può essere la persona più spregevole della terra, invidiosa e perfida ma se si hanno i soldi gli altri sono indulgenti, disposti a chiudere un occhio. Il rispetto che nasce dai soldi, i ricchi che vengono riveriti, non tanto per la loro bontà d’animo, quanto per il loro sostanzioso conto in banca. Anche i preti sono disposti a chiudere un occhio e magari il giorno del santo patrono del paese si fanno invitare a pranzo dalla famiglia più ricca e più in vista, perché si sa la mensa del povero lascia sempre a desiderare. In questa società del benessere dove si insegue solo il piacere fine a se stesso è difficile vivere perché la conseguenza diretta del benessere è la solitudine, l’indifferenza. Nessuno si abbassa più a salutare un altro, ad aiutarlo se è in pericolo. Ognuno si chiude nel suo mondo fatto di oggetti preziosi e confortevoli, di denaro e di benessere. Gli altri restano sbiaditi sullo sfondo, non sono nessuno. Anche l’amore diventa un’altra cosa. Si arriva a mercanteggiare i sentimenti, a mercificare il proprio corpo. Il corpo è solo uno oggetto a pari degli altri e quindi desiderabile, appetibile, invidiabile, vendibile. Come si rubano gli oggetti si ruba l’amore attraverso la violenza e lo stupro. L’amore che diventa solo ed esclusivamente possesso. La vita sentimentale diventa avventura, liberalità, capriccio, diventa divertimento come una corsa in moto, un ballo in discoteca. L’esperienza dovrebbe insegnarci che non è tutto rosa e fiori, che l’amore non può essere un divertimento a buon mercato, una risata folle. La vita, come l’amore, è un cammino lungo, erto, tortuoso, pieno di buche, di trappole che dovremo essere in grado di evitare, pieno di insidie. La vita come l’amore ha i suoi ritmi, le sue leggi, i suoi limiti. Dovremo arrivare all’eternità con l’animo in pace, con il cuore pieno d’amore per il prossimo, per l’amato, generosi, altruisti. Invece ci gettiamo fra le braccia dell’eternità con tanti nodi non sciolti, con tante parole non dette, con tanto affetto non dimostrato. Arriviamo alla fine con la coscienza oppressa da tanti compromessi, incomprensioni, odi, rancori. Non siamo capaci di un solo gesto generoso nemmeno nei confronti della nostra dolce metà. Perché siamo diventati così scostanti fra di noi, non ci sopportiamo più, ci respingiamo, non ci guardiamo più negli occhi? Perché non accettiamo il dolore, il successo degli altri, la morte? L’egoismo ci porta alla esaltazione di noi stessi e a soffocare la personalità degli altri. Per invidia arriviamo persino a danneggiare gli altri, a fare il male, puro, gratuito. Magari l’oggetto della nostra invidia non ci ha fatto nulla, ma noi lo perseguitiamo lo stesso, maltrattandolo, screditandolo, insultandolo. Ripensando al modo di agire di Vincenzo, almeno così come me lo hanno raccontato i suoi paesani, ho spesso azzardato queste riflessioni. Il carattere di Vicenzo, il suo stile di vita non sono poi così rari. Quante volte ci sarà capitato di incontrare un uomo come lui? Il mondo è pieno di gente vanitosa, intrigante, meschina. Rarissima è la stirpe dei buoni. Per molti essere buoni significa essere idioti, stupidi, facilmente raggirabili, bersaglio facile di pettegolezzi, di raggiri. I buoni vengono spesso derisi dai furbi. Vincenzo era cresciuto nella bambagia, non era stato educato alla bontà, al rispetto del prossimo, alla lotta. Lui naturalmente pensava che tutto sarebbe filato liscio fino alla fine dei tempi, senza uno strappo, e che i suoi discendenti sarebbero sempre stati protetti da una buona stella. Per raccogliere i frutti bisogna seminare, sudare senza intaccare gli interessi degli altri. Vincenzo viveva sfruttando la sua posizione sociale, i soldi dei genitori, la sua avvenenza fisica, le sue conoscenze per condurre una vita dissipata, senza criterio. Che cosa poteva pretendere a un certo punto? Che la moglie lo amasse? Che i figli lo rispettassero? Che la gente lo stimasse? Che la fortuna lo assistesse al momento del bisogno? Che tutto andasse sempre a gonfie vele? Una persone dabbene, lungimirante si organizza la vita e pensa sempre alle conseguenze delle sue azioni. Solo una cosa potente può stravolgere i normali binari di un’esistenza: l’amore. l’amore è un sentimento profondo, unico, speciale. Spesso però gli interessi tentano di distruggere irrimediabilmente questo sentimento e alcune volte ci riescono. La famiglia con le sue pressioni, le squallide questioni di soldi, la routine avvelenano un sentimento nato puro. Ci sono persone tuttavia che cercano di mettersi al riparo dal pericolo di cadere nella trappola dell’amore. Il loro cuore è arido, non registra sentimenti, non palpita di emozione. L’altro è solo una preda da conquistare. Vincenzo apparteneva alla categoria di persone che non si innamorano mai. Non solo per libera scelta, ma per una innata incapacità di amare. Nel profondo del suo cuore ovviamente non voleva certo sacrificarsi per la persona amata, non poteva impegnarsi al punto di rimetterci la libertà e la ricchezza. L’amore cieco poteva portarlo fuori strada, magari ad amare una donna povera, di basso ceto, una povera creatura, una derelitta. Non poteva permetterselo per nessuna ragione. Forse sposando una donna di bassa lega avrebbe fatto del bene a qualcuno. I suoi soldi sarebbero serviti a qualcosa e non solo per inutili capricci. Invece ammassava oro, argento e se aveva dieci cornici d’argento ne voleva cinquanta. Era diventato avido, avaro, meschino. La corsa all’oro era una corsa spietata. Era assetato di onori, di soldi liquidi. I soldi contavano più dell’onore. Nella sua scala di valori il denaro era al primo posto. Idioti erano coloro che mettevano l’amore in cima. Cosa era l’amore per lui? Un insensato batticuore destinato ad esaurirsi una volta avuto l’oggetto del desiderio. In lui non c’erano slanci emotivi, non c’era passione. Il matrimonio per lui doveva essere un affare, un investimento, un guadagno, un modo come un altro per vedere aumentato il prestigio della famiglia. La sua futura sposa doveva provenire da una casata rinomata, agiata, rispettabile. Non importava cosa si celava dietro la rispettabilità. Desiderava imparentarsi con gente onorata, potente. La sua donna doveva svolgere un lavoro decoroso ed essere indipendente economicamente da lui. Ma come mai lui, tanto ricco non poteva mantenere una donna? Perché chi ha i soldi cerca sempre di sposare gente benestante? Perché l’amore da solo non basta? Allora anche l’amore è un’illusione. Accanto a un avvocato come lui ci voleva un intellettuale, un insegnante, una scrittrice, una donna colta, presentabile. Le cameriere, le infermiere dovevano stare al loro posto quando si parlava di nozze, potevano servire solo per un’avventura da poco. La logica del potere, dei soldi è una logica spietata incomprensibile alle anime belle, alle anime sensibili che si nutrono di carezze e sospiri. Il suo denaro poteva essere messo a disposizione solo di una donna altolocata all’altezza della situazione. Ma se lei era già ricca di suo non poteva certo pensare al suo vile denaro. Forse una donna vuole l’amore dell’uomo che sposa, ma è un pretendere troppo. Sua moglie, secondo il pensiero di Vincenzo, se voleva togliersi dei sfizi, soddisfare dei capricci lo doveva fare a sue spese. Inoltre doveva contribuire al bilancio della nuova famiglia con la sua dote e le sue terre. La dote era un accrescimento di ricchezza ed era fondamentale. Si poteva prescindere da tutto ma non da essa. In altre parole nessuna donna poteva vivere sulle spalle di Vincenzo. Un simile fardello sarebbe stato insopportabile per lui. I soldi a lui servivano come il pane per giocare al biliardo, regalare preziosi e dolci alle fanciulle irretite dal suo fascino, per comprarsi oggetti di antiquariato, quadri di valore, bambole di porcellana da collezione, cartoline e stampe antiche. Il suo stesso abbigliamento era ricercato, di classe e spendeva quasi un patrimonio ogni stagione quando si trattava di rinnovare il guardaroba. Aveva camicie di seta bianca e avorio, smoking rifiniti in raso, giacche gessate con la riga lucida, cravatte di broccato satinate, pantaloni di lino e velluto. Seguiva tutte le mode come una donna vanitosa, e spesso, per aggiornarsi, andava in alcune città del Nord Italia dove si facevano, anche privatamente, eleganti sfilate durante le quali lui faceva le sue ordinazioni. Nelle serate mondane, al teatro, nelle feste, nei ricevimenti, era sempre presente e impeccabile, con l’abito confezionato dal sarto più famoso, con la camicia all’ultimo grido. Conosceva anche le mode parigine e londinesi, ed era informato minuziosamente anche su alcuni aspetti dell’abbigliamento femminile come guanti, cappelli, ventagli, collane. Uscire con lui significava essere sottoposte ad una analisi accurata. Spesso faceva commenti poco lusinghieri mettendo in imbarazzo alcune signore. In fondo non era colpa sua. Tutto dipendeva dal suo ambiente, dall’educazione che aveva ricevuto. Tutti sappiamo che da una pianta di fico può nascere solo un dolce frutto e da una pianta malsana possono svilupparsi solo spine. La sua famiglia non aveva conosciuto crisi e lui era stato abituato sin da piccolo a pretendere il massimo in ogni campo. Tutto gli era permesso, tutto dovuto. Il sangue che scorreva nelle sue vene era aristocratico, non come quello dei comuni mortali. La crisi della prima guerra mondiale non aveva colpito la sua famiglia, che si era salvata dal naufragio causato dal conflitto. Le conoscenze influenti avevano dato i suoi frutti. Nella società elitaria, fra le classi alte qualsiasi ostacolo, specie di natura materiale, diventa superabile. Gli ostacoli materiali vengono rimossi con la velocità della luce. I problemi di cuore, le malattie, l’angoscia dell’anima, il fato avverso sono più difficili da combattere e non sempre si trova subito il rimedio adatto. Ci si può salvare dalla perdita dei soldi ma non dalla perdita dell’anima. Ci sono eventi che inducono tutti ad abbassare gli occhi, ricchi compresi. Ci sono persone disposte a salvarci dall’angoscia, dal rimorso? C’è un rimedio, una cura per il dolore, per il fato, per il timore, per la sconfitta? Ci sono amici potenti disposti a salvarci dal fallimento morale? Non esiste solo il disastro economico, ma c’è anche la disfatta morale e sentimentale. La famiglia di Vincenzo non aveva mai avuto preoccupazioni e in tempo di guerra aveva tratto dei guadagni anche considerevoli, aveva fatto affari vantaggiosi e lucrosi, investimenti prestigiosi. La guerra rovinosa che aveva portato intere famiglie sul lastrico aveva reso la famiglia di Vincenzo più ricca e intrigante di prima. Cosa c’era in fondo di male nel speculare sulle pelle dei miserabili senza futuro? Basta farlo con freddezza, con determinazione, con gelido distacco. In fondo la vita dei miseri, dei poveri non ci riguarda, è un puntino lontano anni luce, un mondo separato e disfatto che emana un putrido tanfo di decomposizione. Non si può interferire nella vita dei bassifondi. Un filo spinato, una staccionata, un muro invalicabile, un pannello divisorio, una linea di fumo dentro la nostra mente divide i due mondi, il ricco e il povero, che sono così nettamente separati. Non si può mescolare ciò che non si può miscelare, sarebbe un delitto. Scendere in basso, nei gradini più infimi della scala sociale equivale a contaminarsi, a perdersi, a corrompersi, anche se la corruzione morale talvolta è più micidiale di tutto il resto, ma la corruzione morale non si vede, è un tarlo interno che logora solo l’anima mentre la miseria si vede dal taglio dei vestiti, dal modello delle scarpe. Si può essere respinti solo perché privi di risorse, come se la povertà fosse una colpa, un marchio di fabbrica da eliminare. Ma come si può rimanere indifferenti di fronte alla povertà, al dolore? La lunga pratica, l’esperienza, l’amor proprio, il senso del possesso possono far scaturire nel tempo un atteggiamento di naturale distacco. In fondo sono gli altri che soffrono, che lottano, che cadono. Noi siamo al riparo nella nostra piacevole e confortevole nicchia. In certi casi è meglio attaccare che venire sconfitti e quindi durante la guerra tutto è lecito pur di salvarsi. Vincenzo e la sua famiglia avevano tratto dei profitti dalla guerra perché sapevano che tanto qualcun altro l’avrebbe fatto al posto loro. Ci sarebbero stati comunque dei perdenti, tanto valeva che fossero gli altri. La logica seguita è quella del detto popolare “mors tua vita mea”, perché l’uomo è lupo all’altro uomo. Gli amici potenti avevano dato il loro contributo perché a certi livelli dare significa poi avere. In questo modo si crea una catena di amicizia a largo raggio, fatta di compromessi, accordi, alleanze, tangenti. Per realizzare dei progetti si poteva vendere l’anima al diavolo, si poteva corrompere. Una persona retta ovviamente lo è in tutti i campi, una persona corrotta lo è nel poco e nel tanto, nel lavoro, in casa, con gli amici, con i figli. Quando non si è più recuperabili, si precipita nel baratro, anche se si pensa sempre meschinamente di salvarsi. Vincenzo non pensava che sarebbe precipitato nell’abisso, lui era giovane, aveva tutta la vita davanti, era forte e poi c’erano altre situazioni ancora da sfruttare. Era solo all’inizio di tutto, della carriera, del lavoro e c’era ancora molta strada da percorrere. Sarebbe arrivato molto in alto, su questo ci avrebbe giurato. Lo sentiva, lo percepiva, lo capiva dal modo come pulsava il suo cuore, come incuteva rispetto, come lo salutavano per la strada, come lo temevano braccianti e contadini. Gli amici, i parenti stretti lo avrebbero protetto, difeso, le donne si sarebbero immolate per lui. Chi stava meglio di lui? Era invidiato, del resto è meglio essere invidiati che compatiti, temuto, apprezzato, come un dio in terra. Nessuno lo avrebbe spodestato. Quando raggiungiamo certe posizioni siamo convinti di averlo meritato e quindi pensiamo che nessuno ci caccerà via. Diventiamo gelosi del nostro posto, non lo cediamo per nessuna ragione al mondo. Solo il destino disarciona i cavalieri superbi. Gli altri raramente vengono resi partecipi a pieno del nostro successo. Alcune volte tendiamo a escludere gli altri. La carriera, la ricchezza scaturita da essa, è solo nostra, gli altri non contano, non servono, intralciano i nostri traffici. Accettiamo solo l’appoggio di chi ci è utile per andare avanti, perché a un certo punto, come drogati, vediamo solo la fulgida ascesa. Vincenzo si era creata una sorta di casta e si chiudeva sempre di più nel suo mondo. L’intelligenza si valuta in base anche alla apertura mentale. A un certo punto bisogna per forza riconoscere che ci sono altri mondi, altri sistemi di vita, altri modi di pensare e di essere, altri lidi dove approdare, altre mete da raggiungere. Non ci si può fossilizzare nel proprio spazio e coltivare solo il proprio orticello. Bisogna per lo meno sapere che c’è gente povera che non riesce nemmeno a mangiare, ci sono volontari che accorrono negli ospedali, in regioni inospitali, ci sono persone che si nutrono solo di arte e poesia. Il mondo è un grande baraccone del circo, un pullulare continuo di fatti e eventi. Non si può rimanere a guardare confinati nel proprio deserto. In questo marasma si deve saper distinguere l’esempio da seguire. Bisogna confrontarsi con gli altri, accettare i loro consigli, prendere dagli altri gli aspetti positivi e tralasciare i loro difetti. I difetti vanno dimenticati, accantonati, non fatti pesare. Non si deve seguire il modello sbagliato, solo perché la massa lo considera vincente. Vincenzo era un leader nella sua famiglia, molti seguivano fiduciosi il suo esempio. Era una specie di astro nascente, vivace, luminoso, a cui non sarebbe mai mancato nulla. Un difetto dei comuni mortali è quello di dare una eccessiva importanza a persone del tutto insignificanti, facendoli diventare degli idoli. Lui era un modello da seguire per il semplice fatto che tutti lo stimavano in modo smisurato. Lui stesso aveva finito per credere alla sua superiorità, alla sua potenza. L’altezzosità di certe donne, di alcuni giovani nasce proprio dal fatto che sono molte le persone che li adorano. Pensiamo agli stessi divi del cinema che, anche se la loro condotta morale lascia molto a desiderare, sono osannati da folle di gente. Sono imitati, seguiti, apprezzati. La superbia aveva spinto Vincenzo a perdere una dote fondamentale: la capacità di ascolto. Saper ascoltare gli altri è un dono meraviglioso, che consente di entrare in sintonia con l’universo e con tutte le sue creature. Lui non poteva abbassarsi ad ascoltare, semmai erano gli altri che avrebbero dovuto sentirlo. Nelle conversazioni parlava quasi sempre lui, con enfasi, concitato, costringendo gli interlocutori a assecondare i suoi discorsi o a tacere. La sua stessa cultura lo portava a fare sfoggio di conoscenze e di sapere. Convinto di non avere lacune in nessun campo, con loquacità esponeva concetti a ruota libera puntando sugli argomenti a lui più noti. Generalmente conduceva i discorsi sempre verso suoi punti fermi, cose che lui sapeva alla perfezione. I dialoghi spesso servivano a lui solo per sottolineare ciò che aveva realizzato o per ironizzare sull’operato altrui. Ogni volta che incontrava un conoscente lo investiva come un ciclone raccontando per filo e per segno le sue prodezze, vantandosi oltremisura dei risultati ottenuti. In alcuni discorsi esaltava le nobili origini del suo casato. Era un modo per intimidire l’avversario. Ai nostri giorni avviene piò o meno la stessa cosa. La massa anonima non si saluta più, pur conoscendosi. Se si concretizzano dei dialoghi, sono dialoghi sterili. Ognuno racconta all’altro un mare di sciocchezze, di menzogne pur di dimostrare la propria superiorità. In alcuni casi si cerca anche di intaccare, con frasi velatamente offensive, la sfera personale dell’interlocutore. I dialoghi si trasformano in squallidi monologhi, dove prevale un solo pronome io, che sembra il più diffuso. Si dice: io ho vinto un concorso, ho comprato la villa al mare, sono stato in vacanza in Brasile ecc.. Quante volte avremo sentito queste frasi? Tutti i discorsi devono contribuire a esaltare il nostro io, a evidenziare il nostro benessere economico, a farci apparire grandi agli occhi degli altri. In alcune circostanze anche gli altri fanno altrettanto. Non sono più dialoghi, ma scontri condotti sul filo delle parole, che diventano proiettili vaganti pronti a colpire. Si può ferire, uccidere, annientare con le parole. La capacità persuasiva delle parole è notevole. Le parole possono fare il lavaggio del cervello, possono spingere al suicidio, costringere alla tregua, portare in paradiso a seconda di come sono pronunciate, dell’intonazione della voce, del calore portare all’inferno, dove non ci sono sconti, non ci sono sentimenti. Non rispettiamo più i nostri parenti, i genitori ma li usiamo quando dobbiamo vantarci alla presenza di estranei, di amici. Quindi lo scambio di opinioni diviene a un certo punto un vero e proprio gioco al massacro dove vince chi ha più parlantina e dice più bugie. Infatti si può fingere, si può mentire e raccontare di viaggi mai fatti, di promozioni mai ottenute, di pellicce mai comprate, di gioielli mai visti. L’importante è colpire l’altro, stupirlo. In alcuni casi siamo costretti a reagire, a raccontare di noi quando l’altro ci investe con tutto il suo corposo io. Al fuoco si risponde con il fuoco. Tutto il colloquio serve per vantarsi, per dimostrare agli altri che valiamo qualcosa, che siamo qualcuno. L’impero di Vincenzo non l’aveva costruito lui lo aveva ereditato, ma era difficile ammetterlo. Attualmente questo dichiarato egocentrismo non riguarda soltanto le persone benestanti. Tutti tendono a gareggiare con gli altri cercando di sopraffarli, di sconfiggerli. I rapporti umani diventano falsi, si deteriorano. Si cambia strada per evitare il fanatico di turno, specie quando siamo abbattuti, tristi. In certi momenti non vogliamo vedere e sentire nessuno, tantomeno chi vuole schiacciarci e metterci sotto i piedi. Non tolleriamo sconfitte, anche se solo verbali. Non siamo disposti a perdere, ad arretrare di un centimetro, a lasciar perdere. Alcuni ci vogliono vedere non per simpatia, per amicizia, per amore ma solo per ostentare. Molti non vogliono sentir parlare dei nostri successi, preferiscono cambiare discorso o allontanarsi con una scusa. Perché ci facciamo del male senza motivo? Guai poi in una conversazione a confessare i propri crucci, problemi, malattie, insuccessi si diventa subito bersaglio di critiche. Molti nell’intimo godono del male altrui, per rabbia, per invidia, per gelosia, per restare a galla quando l’altro sprofonda. Ci sono poi quelli disposti, di fronte a una cosa andata storta all’altro, a riderci sopra come niente fosse. La società ci vuole tutti sani, magri, belli, allegri, abbronzati, perfetti, come nelle scene idilliache della pubblicità e allora le cadute possono essere vissute come sconfitte anche quando non dipendono direttamente da noi. Chi non resiste si lascia andare. Una sconfitta, una perdita rappresentano la possibilità di mostrarsi agli altri vulnerabili, un lusso che non possiamo permetterci. La malattia, la morte sono traumi che vanno immediatamente rimossi, non possono e non devono lasciare traccia. La morte, la malattia è una sconfitta, un mostrare fragilità in un mondo di forti e arroganti. Vincenzo viveva veramente in una situazioni di sogno e per questo tendeva a ridere delle disgrazie altrui, e a snobbare persone giudicate mediocri. Ma chi sono le persone mediocri da evitare?. Forse sono quelle che disprezzano il lusso perché lo considerano inutile, che vivono tranquilli e si accontentano di poco. Chi non ha possibilità economiche spesso si lascia prendere dal demone dell’emulazione e vuole imitare a tutti i costi le classi elevate, che però lo riconoscono, e lo escludono comunque a priori perché lo riconoscono dall’odore. Il profumo dei soldi che trasuda è inconfondibile, il palato raffinato lo individua subito senza mezze misure. Il povero arricchito viene sempre guardato in modo bieco, è solo un volgare imbroglione che cerca di penetrare in un mondo dorato che non gli appartiene. Certe persone possono fare carte false ma non faranno mai parte di una certa cerchia selezionata. Tuttavia non sempre si sta sulla cresta dell’onda, la caduta è dietro l’angolo e non risparmia nessuno. Anche sulla Bibbia è possibile trovare ammonimenti in questo senso. Pensiamo a Geremia dove a un certo punto troviamo scritto: “Così dice il Signore: così io consumerò la grande superbia di Giuda e la superbia grande di Gerusalemme”. Non è necessario avere la fede in Dio, per comprendere questi concetti. Rispettare certi principi fondamentali è necessario come bere un bicchiere d’acqua. I dieci comandamenti possono essere validi anche per un ateo: non uccidere, non rubare, non desiderare la donna d’altri, basterebbe rispettarli, almeno in parte per essere non dico felici, ma almeno sereni. Non è indispensabile frequentare la chiesa e prendere per oro colato tutto quanto viene espresso dal pulpito. Si può essere laici, liberi ed essere contemporaneamente onesti, disponibili, amanti della verità. Ma cosa dicono di tanto trascendentale questi comandamenti? Perché non si può mettere in pratica il comandamento supremo: ama il prossimo tuo? Invece uccidiamo ogni giorno con il coltello, con le parole, rubiamo cose e idee, desideriamo la roba e la donna degli altri, dimentichiamo così di essere umani. In fondo chi di spada colpisce di spada perisce. La Bibbia in proposito parla chiaro: “chi è per la morte alla morte, chi è per la spada alla spada”. Come possiamo pensare di farla franca deridendo persino le persone di buon senso? Insani atteggiamenti portano alla perdizione. In materia di religione grandi personalità hanno sentito il dovere di intervenire dando vita nel corso del tempo, dei secoli a diatribe, dispute teologiche, a riflessioni filosofiche astruse. Un tipico difetto umano è quello di complicare oltre misura le banalità più sconvolgenti. I messaggi più chiari vengono, dalla critica ufficiale, resi oscuri. Un’opera spesso è bersaglio di analisi spietate, acute, di interpretazioni azzardate, spesso ridicole. Si vuole per forza evidenziare un concetto che magari non esiste nemmeno nel testo. Molti testi sacri sono stati oggetto di manipolazioni. A torto o a ragione si tende sempre a interpretare a proprio modo la realtà dei testi, alterandola, mutandola. La mente umana gongola davanti a concetti intricati e complessi. Invece niente di più semplice di un testo sacro, di qualsiasi religione, dove sono racchiusi validi insegnamenti morali. Il corano ci invita al rispetto dell’ospitalità. Negli ultimi tempi ci siamo dimenticati il modo di accogliere l’ospite nella nostra casa, lo consideriamo un intruso. Basta estrapolare singoli messaggi da alcuni testi sacri e applicarli nel nostro quotidiano. Forse saremo più sereni. Spesso per tornaconto personale fingiamo di non capire la reale portata di certi versi. Ci allontaniamo dal retto sentiero seguendo le fantasie intellettuali e astratte del pensiero evoluto. Le stesse prediche dei sacerdoti non servono quando sono pompose, altisonanti, ricche di richiami culturali e citazioni filosofiche. Le prediche sono puro esercizio oratorio. La vera saggezza è quella che nasce dalla semplicità. E’ come la vera bellezza, che non ha bisogno di orpelli, di ornamenti. La bellezza semplice, naturale è quella vera. La bellezza costruita a tavolino, creata ad arte dentro un laboratorio, artificiale è solo un appagamento per l’occhio, ma non nutre l’anima. Il mondo religioso con le sue leggi è un mondo oscuro dove è difficile avventurarsi. Ognuno deve essere libero di credere o di non credere in dio, è una scelta personale. Aldilà della scelta dovremo essere convinti di una cosa: nessuno è mai penetrato nel mistero della vita, dell’universo, della morte. Ci sono limiti oltre i quali è impossibile andare. Cosa c’è dopo la morte? Quale sarà il destino dell’anima, ammesso che esista? Nessun genio, filosofo, maestro, sacerdote è in grado di rispondere con esattezza matematica. Si possono avanzare ipotesi, fare supposizioni ma tutto resta avvolto nel fitto mistero. Come il filosofo Socrate dobbiamo sapere di non sapere, essere coscienti che il pensiero è limitato. Gli uomini danno troppa importanza a certi aspetti esteriori trascurando l’essenziale ossia la cura della propria interiorità. Siamo esseri fragili che un semplice virus può annientare, che un errore può portare fuori strada. La sapienza umana non è niente di fronte alla vastità dell’universo. Gli scienziati pensano di conoscere ogni angolo della via Lattea, pensano di scandagliare ogni frammento di universo, ogni pianeta non sanno che ogni giorno vengono scoperti nuovi astri e che esistono altri sistemi solari, altre stelle, altre galassie. L’uomo agisce da stolto si comporta come un bambino inesperto e presuntuoso. Ci sono ideali, principi che non tramontano mai e che bisognerebbe considerare invece di passare il tempo a contare i pianeti e le numerose stelle. L’uomo impiega le sue risorse in oziosi passatempi. Spesso si passa il tempo a fare del male agli altri per il puro piacere di farlo. Il genere umano dovrebbe invece cercare di stare unito e compatto contro il destino, contro la natura matrigna. La parola solidarietà dovrebbe sostituire la parola divisione. Siamo così fragili che basta un’eruzione vulcanica, un terremoto a mettere in ginocchio le nostre certezze. Quello che abbiamo costruito nei secoli, di cui siamo fieri, crolla miseramente al suolo in una nuvola di polvere. Ci sono monumenti, palazzi, fontane che non passeranno alla storia perché sono andate distrutte. Si possono ricostruire ma non saranno mai originali, qualcosa si è perduto per sempre. Alla nuove generazioni si consegnano teorie, governi, opere d’arte ma non si insegnano valori che possono rendere l’umanità migliore. Allora i fatti si ripetono perché si cade negli stessi errori. Si ripetono le guerre, le discriminazioni, gli abusi, le violenze, le corruzioni come in un copione prestampato, dove tutto è già scritto. L’umanità progredisce nella scienza, nelle scoperte, nella fede ma la vita resta la stessa, il dolore non viene alleviato. Tutto resta perennemente immutato. L’evoluzione è solo apparenza. Si conoscono i nomi di migliaia di comete, di stelle, di satelliti ma non si è in grado di tendere una mano a chi ha bisogno, di aiutare un uomo che non lavora. L’umanità in questo modo non salva se stessa. La fede in un essere superiore può essere una forma di salvezza per alcuni, ma non tutti hanno il dono della fede. La fede va vissuta interiormente, va coltivata ogni giorno. Vincenzo era legato al culto cattolico ma in modo superficiale. Faceva l’elemosina, digiunava in occasione delle feste comandate, partecipava ai riti, alla festa del patrono della sua contrada, frequentava la chiesa, si avvicinava ai sacramenti, si confessava periodicamente, pregava in caso di bisogno, accendeva candele, portava le statue in processione. Il suo matrimonio era avvenuto in chiesa fra fiori e applausi. Aveva ereditato la fede dalla sua famiglia come gli altri beni. Se tutta la sua famiglia si faceva il segno della croce anche lui doveva farlo. Era un obbedire alla autorità paterna, che non poteva essere messa in discussione per nulla al mondo. Lui aveva la responsabilità di garantire la continuità del nome. Non era intimamente convinto di quello che faceva, quelle rare volte che pregava lo faceva con le labbra non con il cuore. Era una preghiera sterile che non dava frutti, un recitare monotono frasi fatte. In fondo al suo cuore non credeva all’aldilà, ai santi, alla comunione, gli sembravano invenzioni senza senso. Con la morte per lui finiva tutto, non esisteva una vita ultraterrena, per questo si affrettava a godere dei frutti della terra. Sulla terra avveniva il grande banchetto a cui lui era invitato come ospite d’onore. Doveva freneticamente costruire per lasciare ai suoi figli una impronta di sé. L’immortalità era garantita da quel cognome che si tramandava nelle generazioni,che faceva tremare chi lo pronunciava. Per Vincenzo essere cristiano era andare alla messa alla domenica vestito elegantemente sotto braccio alla moglie e sentire suonare l’organo o cantare il coro. Lui andava nella cattedrale, si sedeva nei primi banchi oppure addirittura ascoltava la messa direttamente nella basilica di San Pietro a Roma. Andava in chiesa e metteva il timbro per assicurarsi della sua presenza come si timbra il cartellino sul lavoro. Non perdeva mia nessuna funzione importante come la celebrazione della Pentecoste,, del Corpus Domini anche se poi ignorava il significato di queste festività. Non si curava di sapere, non era curioso, non gli interessava la crescita spirituale. Vincenzo aveva semplicemente diviso la sua vita in compartimenti, in settori diversi fra loro. C’era il settore della fede, quello del lavoro, della famiglia, e così via. I compartimenti non interagivano fra di loro, non si integravano. La fede non permeava in blocco tutti gli ambiti. Non si uniformava al modello della fede. La teoria del catechismo non diventava pratica. La carità non era contemplata come tante altre cose. Il perdono non era presente nella sua forma mentis. Vincenzo non perdonava niente e nessuno. Il rancore, l’odio, la rabbia lo divorava. Agiva anche contro i parenti spinto dall’odio. Non si parlava più con un suo zio a cui aveva chiuso la porta in faccia, sempre per ragioni di interesse. Nei confronti dello zio era irremovibile. Si riteneva offeso, si riteneva nel giusto quindi non faceva un passo avanti. Quando lo incontrava non lo degnava di uno sguardo. In chiesa quando lo vedeva lo inceneriva con uno sguardo tagliente e altero. Persino nella casa di Dio. Si consegnava all’eternità con quel nodo non sciolto sulla coscienza. Spietato non aveva indietreggiato nemmeno davanti alla malattia dello zio. L’aveva visto tremante, pallido in volto, stanco, vecchio, malfermo sulle gambe, con lo sguardo implorante. Come un drago aveva continuato a sputare fuoco contro di lui, contro quelle quattro ossa malate, sofferenti, contro quella pelle trasparente, quegli occhi vuoti e spenti, quelle mani gonfie piene di vene, contro quella voce flebile, leggera come un soffio, contro quella schiena curva per gli anni. La vecchiaia aveva reso lo zio più malleabile. Lo zio si era ammorbidito, aveva capito di stare con un piede nella fossa e che non serviva tutto quell’odio cieco e rabbioso. Il cuore di Vincenzo non aveva provato pietà, non aveva pianto calde lacrime di sangue. In fondo era un essere umano malato, debilitato, intristito, in fondo era suo zio. Nel suo dna c’erano tracce di quella razza, della razza di suo zio. Vincenzo aveva continuato a ignorare suo zio, senza lasciare spazio a una possibile riconciliazione. Un giorno suo zio era morto, ma lui non era andato al suo funerale. Aveva lasciato lo zio solo ad attraversare il cancello di ferro battuto del cimitero sotto una fitta pioggia battente. Non lo aveva rivisto nemmeno prima della dipartita, del commiato finale dal mondo. Il suo comportamento era stato coerente fino alla fine. Il senso della giustizia lo spingeva a pensare cose strane: lo zio aveva pagato per i suoi errori. L’accanimento di suo zio contro di lui era stato ripagato dalla sua indifferenza. In effetti suo zio non si era comportato egregiamente, accecato com’era dal demone della roba, della proprietà.Come se tutte quelle ricchezze dovessero seguilo anche durante l’ultimo viaggio. Invece l’ultimo viaggio l’aveva fatto quasi da solo. Nel suo sangue purtroppo scorreva lo stesso impulso vitale, lo stesso demone perverso. Non si era piegato, non aveva chinato la testa neppure di fronte alla morte. Non aveva posato l’ascia di guerra, deposto gli arnesi di combattimento, allontanato i pensieri negativi, ossessivi, pensieri fatti di rimpianto, odio e rancore bruciante. Vincenzo non aveva assolutamente un buon rapporto con i suoi parenti. I rapporti correvano sul filo degli interessi, delle invidie, della pura gelosia, della competizione rivale. Con alcuni di loro apparentemente vi erano rapporti pacifici, che nascondevano un ginepraio di sentimenti inespressi. Le origini della sua famiglia si perdevano nella notte dei tempi. La ricchezza era scaturita da tutta una serie di attività commerciali. Molti suoi parenti erano sulla cresta dell’onda grazie al possedimento di importanti imprese di costruzioni. Molti nipoti, cugini, zii, erano ingegneri, architetti. Una leggenda sulla sua famiglia parlava di un uomo spiantato che aveva fatto la sua fortuna sposando una nobile vedova. Probabilmente le origini erano oscure, avvolte nel mistero di un passato nebuloso e poco cristallino. Ma che importanza poteva avere? Attualmente la famiglia era benestante. Invece era proprio quel passato che pesava su di loro come un macigno. Il male, la cattiveria annidata nel sangue, nelle cellule si trasmetteva ai discendenti, si insinuava sotto la pelle, entrava nel cuore come sangue impuro. Quel passato fatto di corruzione, misfatti, compromessi aleggiava su di loro come un vento caldo. Non si sarebbero liberati tanto facilmente di quel peso. Se l’educazione ricevuta era perfetta, nei migliori collegi, il tarlo insito nel loro sangue consumava dall’interno come un cancro nascosto. Di quel passato non restavano tracce vistose, solo qualche palazzo acquistato. Le tracce di quel losco passato erano insite nel loro stesso sangue ed erano micidiali, brucianti come soda caustica. Il marchio della razza l’avevano impresso nella pelle. Essere buoni, avere buoni propositi non serviva quando la famiglia costringeva l’erede innocente a intraprendere certe strade, a fare certe scelte. Con alcune famiglie, con cui era apparentato Vincenzo, avvenivano amichevoli scambi di visite. Di solito si cenava insieme nella calda atmosfera riscaldata dal camino del salone o nei gazebo all’aperto del giardino di casa. La sua villa di Frascati era immersa nel verde. Erano incontri durante i quali si svolgevano insulse e informali conversazioni, normali scambi di battute che però racchiudevano insidie. In agguato c’erano sempre insulti, ostentazioni, rivalità. Dopo ogni cena come un rito si giocava a carte, a biliardo, si beveva un succoso liquore dolce. In verità l’invidia spingeva molti suoi parenti, anche stretti, a maltrattarlo, a criticarlo palesemente o alle spalle. Molti componenti della sua famiglia ostentavano lusso e ricchezza, come sentendosi superiori a lui. Tra loro si ingaggiava una gara muta e sottile per tutto. La gara per i viaggi era quella che andava per la maggiore. Se un parente era andato in America, l’altro replicava che sarebbe andato a Singapore. Si mettevano a confronto sul tavolo soldi, auto, amicizie, possedimenti. Si gareggiava anche per piccole cose e ognuno voleva mostrarsi migliore. Alcuni si vantavano apertamente con un fare borioso, che irritava. Altri preferivano umiliarlo con astute frasi create ad hoc, con tranelli sapienti e ben inscenati. Il dialogo aveva sempre due scopi: vantare la propria persona e umiliare l’altro. Vincenzo era disgustato da questo stato di cose perché comprendeva, anche nella sua confusione, una cosa essenziale e innegabile: i parenti non gli volevano bene. Non volevano a lui quel bene disinteressato, autentico, brillante, favorevole, puro, sincero che lui si aspettava da consanguinei. I suoi zii ridevano dei suoi fallimenti, lo prendevano in giro, ironizzavano sul suo stile di vita. I suoi successi non facevano brillare gli occhi dei suoi parenti, anzi offuscavano il loro sguardo, già torvo. Una sottile corrente di alta tensione dominava questi meschini rapporti parentali. Così lui trascinava questi rapporti come si trascina una catena al piede. Non poteva fare a meno di vederli saltuariamente ma evitata gli incontri ufficiali in cui erano tutti presenti. Preferiva vederli a gruppi, divisi per famiglia, erano meno nocivi. Da questi parenti non aveva mai ricevuto una parola di incoraggiamento, di conforto, solo critiche spassionate, aspre. Nessuno di loro l’aveva mai aiutato, difeso, protetto, appoggiato come si fa con un cucciolo di casa propria. In caso di bisogno si era dovuto rivolgere altrove. In particolare aveva un cugino della sua stessa età che aveva con lui un rapporto morboso ma sempre altamente competitivo. La competizione avveniva per ogni cosa, per la scuola, per lo sport, persino per i vestiti. Se lui comprava una giacca bianca dopo qualche giorno anche suo cugino la acquistava. Negli studi e in ogni campo suo cugino voleva far vedere di essere il migliore. Così lui nei suoi discorsi, era il più corteggiato dalle donne, il più apprezzato a scuola. Inventava, alcune volte, bugie su bugie per apparire migliore di lui. Se si sentiva oscurato dalla personalità di Vincenzo si difendeva sparlando di lui in giro. La madre stessa di suo cugino si adoperava a esaltare suo figlio e a sminuire Vincenzo. In fondo anche se suo cugino era superiore perché lui doveva per forza soccombere ed essere umiliato? A lungo andare questo gioco al massacro era stancante, deprimente, ripetitivo, ossessionante. Durante l’adolescenza suo cugino preferì lasciarlo a se stesso, non salutarlo nemmeno più. Così Marco dava feste, incontrava amici senza mai invitarlo. Passava davanti a casa sua senza nemmeno voltare la testa. Vincenzo aveva provato un senso di angosciosa solitudine accentuata dal fatto che a lascialo solo erano proprio persone con il suo stesso sangue nelle vene. Aveva trovato rifugio all’interno di altre comitive. Piano piano, passo dopo passo aveva preso le distanze dai parenti. Si era distaccato nel cuore prima ancora che fisicamente. Lontano dall’influsso maligno dei parenti si sentiva meglio, la testa meno pesante, il respiro più regolare, il cuore meno pulsante. Molti comportamenti l’avevano innervosito non poco. Come quando suo cugino aveva dato una sfarzosa festa a due passi da casa sua e proprio quel giorno dei parenti comuni erano venuti in casa di Vincenzo quasi a sottolineare con il rosso la sua assenza alla festa. Ci era rimasto male, aveva pianto in silenzio. Molte zie sembravano compiacersi di quella festa a sorpresa, come se erano contente della sua esclusione. A forza di escluderlo si era convinto che era meglio sparire, escludersi da soli per fare più bella figura. Così aveva volutamente smesso di partecipare a party, cerimonie, cene in pompa magna. Aveva capito di essere solo e voleva esserlo fino in fondo. Partecipare ai conviti non serviva, tanto nessuno prestava particolare attenzione alla sua presenza, alle sue parole, non lo ascoltavano, non volevano sentirlo. Così senza saper leggere e scrivere si era organizzato la sua vita lontano dai parenti, mentalmente si riteneva orfano, senza nessuno, in fondo era la sensazione di gelo che gli trasmettevano ogni volta a bloccarlo. La lontananza dai parenti l’aveva reso più libero, più audace, meno esposto a critiche. Aveva respirato un’aria nuova, frizzante, benefica. Aveva conosciuto amici divertenti, gente disponibile, e con loro si intratteneva. Sapeva perfettamente che tanto loro non sentivano la sua mancanza. Si era allontanato da quel circolo vizioso, da quell’ambiente chiuso. Le donne del suo casato erano quelle più insopportabile. Avevano un’unica ossessione: i vestiti. Si scrutavano a vicenda con occhio critico, gareggiavano in eleganza. Se una parente era vestita in modo impeccabile provavano invidia e la ignoravano se era vestita in modo dimesso la deridevano e respingevano. Con loro non si sapeva mai cosa indossare. Criticavano tutto, vanitose ostentavano senza pudori i loro favolosi gioielli. Le feste erano fiere della vanità, mercati di abiti. Difficilmente indossavano lo stesso abito nelle varie occasioni. Cambiavano sempre toletta e con le loro facce smorfiose si esibivano in ostentazioni senza eguali. Ignorarle non serviva venivano davanti a farsi ammirare, come farfalle impazzite svolazzavano intorno in attesa dei complimenti. Volevano essere lodate, ammirate, osannate. Le donne fra di loro si combattevano, si facevano la guerra a colpi d’abito, si cambiavano due, tre volte al giorno con completi sempre preziosi e sempre diversi. Alcune copiavano le altre per non essere da meno. Bisognava sempre sfoggiare gioielli e abiti firmati. I matrimoni di famiglia erano sfilate in maschere dove non mancavano abiti eccentrici e damigelle. La superbia di certe zie era rivoltante. Per Vincenzo l’abito, specie delle donne, era un semplice involucro di stoffa. Quello che contava era il corpo per le donne e la mente per gli uomini. Lui amava l’eleganza sobria, classica. Preferiva le donne vestite in seta, velluto, con velo trasparente e provocante, raso lucido, damasco, broccato. Amava i vestiti impreziositi di ricami argentati, dorati, di brillantini. Anche Vincenzo in realtà era vanitoso come la sua stirpe solo che non lo sapeva, non ne aveva sentore, o forse lo ignorava veramente. I litigi con i parenti spesso erano avvenuti per questioni di interesse ed erano state discussioni accese, piene di offese e parole squallide. Allontanandosi aveva limitato anche gli scontri che inevitabilmente sorgevano. Vincenzo aveva organizzato la sua vita in funzione di se stesso, egoisticamente come del resto faceva il resto della sua famiglia, che in questo gli somigliava. Da solo aveva vissuto intensamente, da solo aveva deciso di sposarsi scegliendo oculatamente. La sua vita dissipata lo portava ad avere continue avventure, spese fra il gioco d’azzardo, fra le braccia dell’alcol. Giocava con gli amici perdendo ingenti somme. Beveva ogni tipo di liquore senza freni. La mattina era sempre uno straccio vecchio consumato dai bagordi notturni. Una moglie era necessaria per avere rispettabilità, per continuare la specie, per non essere solo. La ricchezza lo aveva sospinto verso la solitudine. Le avventure non scaldavano il cuore. Sposarsi in certi casi era un dovere. Vincenzo si era sposato nel maggio del 1936. Il corpetto della sposa era tempestato di diamanti, la chiesa era piena di orchidee, la torta era stata fatta in Francia. Un assurdo sfarzo per un contratto senza amore. Dopo alcuni anni di matrimonio ebbe la soddisfazione di veder nascere il figlio Giovanni. La gioia più grande fu di sua madre. Infatti il piccolo portava non solo il nome del padre di Marta, celebre imprenditore, nobile ma somigliava tutto a suo fratello morto prematuramente in un incidente di caccia. La madre lo venerava perché le ricordava il fratello, cui era legatissima, le ricordava l’infanzia spensierata. Era un attaccamento viscerale, morboso. Era orgogliosa di aver messo al mondo il sosia perfetto di suo fratello, fisicamente e forse anche caratterialmente. Era un bimbo robusto, forte, con la carnagione olivastra, gli occhi nerissimi dietro ciglia lunghe nere come la notte, setose come il raso, occhi che sembravano truccati tanto erano neri, con l’ovale del volto perfetto. Sembrava venuto fuori dalle mani sapienti di un abile scultore greco. Giovanni sarebbe divenuto un ragazzo alto, slanciato, con gambe diritte, muscoli perfetti, mani color avorio. Da piccolo era l’immagine vivente della bellezza e della salute, apparendo sempre florido, vivace. Il carattere emerse quasi da subito: ribelle, caparbio, presuntuoso, pestifero, tempestoso. Faceva qualsiasi raggiro pur di spuntarla, era capace di mentire, di piangere pur di arrivare allo scopo. Era suo intento primeggiare in ogni situazione perché voleva un posto al vertice e per questo lottava con accanimento senza arrendersi mai. Quello che meravigliava anche suo padre era la sua fermezza di carattere, il suo fegato, la sua intraprendenza. Non era timido, esitante, indeciso. Nei giochi di società, con i compagni era l’organizzatore, il promotore, l’artefice, l’inventore, il creatore. Tutti dovevano sottostare alle sue scelte. Se qualcuno protestava sapeva metterlo a tacere. In casa nessuno si sognava di rimproverarlo per questa sua megalomania, per quell’aria di capo. Erano tutte cose che lasciavano ben sperare. Si sarebbe distinto e fatto rispettare. Non che Vincenzo si occupasse particolarmente di lui. Alternava impegni di lavoro con incontri galanti. La moglie ingrassata dal parto non era più appetibile. La vedeva come una estranea, con quel seno sciupato dall’allattamento, con quei capelli scomposti sulla fronte, quell’aria trasandata. Con la moglie condivideva l’amministrazione del patrimonio, le questioni quotidiane, l’andamento della casa, l’organizzazione del battesimo del piccolo erede. La festa fu strepitosa. In giardino erano stati allestiti gazebo bianchi avvolti da fiori e rami verdi rampicanti. Nel salone erano stati messi numerosi tavolinetti di mogano che esponevano i regali ricevuti. Il rinfresco era stato allestito nel giardino vicino alla piscina e disposto su tavoli di marmo, ricoperti di tovaglie di lino celeste pallido e raso azzurro, tutte ricamate con filo lucido e brillante. Su ogni tavolo brillava una lampada che diffondeva una luce azzurrina e spiccava una composizione di fiori rigorosamente azzurri. Le tende del salone erano state sostituite da drappi di velluto blu per ricordare il colore azzurro della nascita. I colori erano tutti fantastici abbinamenti che ricordavano il celeste, colore simbolo del nascituro maschio. Le stesse bomboniere erano composizioni in tulle e pizzo celeste, accompagnate da un leone d’argento, leone che compariva superbo anche nello stemma di famiglia. La torta era stata realizzata artigianalmente da una nota pasticceria siciliana, ed era fatta con candidi, mandorle, panna, nocciole e pistacchi. Gelati alla vaniglia, cassate siciliane, torte paradiso, torte al cioccolato, torte al cocco erano state servite come dessert accompagnate da champagne francese e gustosi e frizzanti spumanti italiani. I vini prescelti erano dei migliori e abbinati a ogni pasto. Gli antipasti, anche di pesce, erano stati accompagnati da vini rosè molto delicati e prelibati, dall’aroma squisito. Gli arrosti avevano visto il trionfo dell’agnello, del maialino tenero, della cacciagione, delle faraone farcite, c’erano poi spigole, carpe. Tra i contorni spiccavano tartufi, funghi porcini, patate arrosto, radicchio. Il bambino era adagiato in una culla sontuosamente arredata, e indossava un vestito ricamato finemente a mano, unico nel suo genere. Era stato ricamato e confezionato appositamente da un gruppo di suore spagnole, famose in tutto il mondo per i ricami e i merletti realizzati. I regali furono molti, il bimbo ricevette un numero considerevole di cornici d’argento. La corsa all’oro, come io la chiamo, di molti spesso diventa ridicola. Si accumulano gli stessi oggetti, che alla fine giacciono inutilizzati nei cassetti dei mobili. Ma se una persona ha dieci cornici d’argento perché ha bisogno di altre? Perché questa avidità che non fa sconti, che non retrocede, che accumula tesori? A distanza di tempo nel palazzo era ancora possibile trovare cornici lavorate d’argento sparse un po’ ovunque, alla rinfusa nei cassetti. Vincenzo durante la festa si divertiva ad ostentare la sua posizione, a mostrare il suo orologio nuovo d’oro, di marca, i suoi gemelli di platino e diamanti, la sua camicia anch’essa di seta azzurra. La moglie Marta si era presentata alla cerimonia con un completo di zaffiri composto da anello, girocollo, spilla e orecchini, con uno smalto azzurro alle unghie, con un leggero trucco celeste lucido, con un abito blu di seta lungo ornato di pizzo e fiocchi di raso rosa con brillantini, con scarpe e borsa coordinate.Sembrava una dea scesa sulla terra esclusivamente per corrompere i comuni mortali. Non camminava, incedeva sul tappeto blu con ricami argento e oro. Le coppe per bere erano in cristallo blu rifinite in oro zecchino. I piatti erano tutti di finissima porcellana bavarese e avevano motivi floreali stilizzati blu. Gli invitati indossavano abiti eleganti. Le donne portavano scialli velati color avorio e champagne, con brillantini dorati, abiti lunghi color lilla, rosa antico, amaranto, acconciature realizzate con perle e rubini. Le collane brillavano alle luci soffuse delle candele. Le candele erano profumate di vari colori, ma su tutto predominava il celeste. Persino le scarpe erano curate, vi erano scarpe da donna in seta, ricamate, con fibbie d’oro e argento. C’è chi indossava anche boa di pelliccia, ermellini, manicotti di pelliccia di volpe, visone e altri rari animali. Sembrava di essere in un film dove il regista si era abbandonato a descrivere un mondo di fiaba con protagoniste delle autentiche principesse di sangue reale. Un fotografo professionista era stato invitato a immortalare l’evento e si aggirava per i tavoli facendo incetta di tartine, salmone e caviale. Alla fine era stato offerto a tutti un meraviglioso spettacolo pirotecnico all’aperto, di notte, con il cielo stellato. Fuochi d’artificio di colore rosa, rosso e soprattutto azzurro avevano solcato il cielo. Era stato uno spettacolo suggestivo. La musica di un’orchestra aveva reso la serata armoniosa, rilassante. Molti invitati avevano ballato walzer eleganti. I pettegolezzi si erano alternati a discorsi impegnati di politica, di arte, di cultura. Vincenzo era stato colpito dall’avvenenza fisica di alcune procaci invitate e da un pettegolezzo che era girato sovente fra i tavoli. Si diceva che un conte di Roma, che Vincenzo conosceva bene in quanto compagno di festini e bagordi, aveva perso la testa per una giovane bionda, slavata, insignificante. Una attrice di una pessima compagnia teatrale, di infimo ordine, che non né voleva sapere del suo focoso corteggiatore nonostante le insistenze. Si trattava di un pettegolezzo ghiotto, di un particolare piccante che a Vincenzo non era sfuggito. La sua fervida fantasia già aveva cominciato a lavorare. Immaginava questa fata bionda con gli occhi azzurri, la vedeva cantare avvolta solo da veli intriganti rivolta a una platea di soli uomini. Aveva sentito parlare di ritrosia, di rossore, di pudore riguardo a questa fanciulla. Si diceva che respingeva il conte e tutti gli altri uomini che volevano conquistarla. Una sfida, un impegno poteva essere quello di conquistarla, anche per far morire di invidia il caro amico conte, troppo sfacciatamente fortunato al tavolo da gioco. Mentre la gente del paese arava i campi, preparava per la semina, si dedicava alla vendemmia, e le ragazze raccoglievano la spiga nei campi di grano già mietuti, mentre gli operai si alzavano all’alba per guadagnare un tozzo di pane nei palazzi signorili si svolgevano feste da sogno. Come durante le persecuzioni razziali i generali tedeschi osarono allestire feste da capogiro La gente comune ignora dove può arrivare il vizio dei potenti, quello che accade la notte in ville silenziose immerse nel verde. Una domanda sorge spontanea: come mai tutta la gente di successo, importante finisce spesso per cadere nel baratro del vizio? I soldi aprono tutte le porte e qualche volta aprono le porte dell’inferno, del peccato, della lussuria, del vizio più abbietto. Uomini aristocratici, giudici, politici si aggirano nei luoghi più sordidi, nei posti più sudici in cerca di piaceri a buon mercato. A un certo punto non basta più la moglie, l’amante, la fidanzata, l’amica ma vogliono altro, vogliono di più, l’impossibile. Così la vita non si svolge più alla luce del giorno, ma di notte, complice il buio. La mattina serve per dormire fino a tardi avvolti in tiepide coperte costose, coperti da pigiami di seta pura. Di giorno si indossa il completo gessato, la cravatta, si fanno discorsi morigerati e di notte ci si scatena in giochi proibiti. La moglie perfetta nel suo ruolo deve rimanere al suo posto, custode di un focolare che non esiste, di un’apparenza che nasconde la turpitudine. Spesso anche le mogli, specie quelle trascurate, si lasciano andare e intrecciato relazioni clandestine. I figli non si possono imbrigliare, vanno dove vogliono. Gli esempi che hanno davanti sono più eloquenti di qualsiasi altra cosa. La faccia ipocrita di giorno cerca consensi, applausi, si mostra benevola, di notte diventa una maschera dedita al piacere. I rampolli di grandi dinastie cercano lavori autonomi, liberi, lontani da vincoli di orario. I lavori notturni, mattutini, impegnativi non sono adatti. Per la vita notturna ci vuole un’occupazione da libero professionista. Si tira fino all’alba nei locali della movida fra drink e frasi sconce. Il potere, i soldi che portano alla degenerazione, al cancro dell’anima. Nessuno si accorge di sprofondare nella melma, nel fango. I consensi della gente non aiutano a capire. Gli eroi negativi, i trasgressivi, vengono osannati come divi. La gente imita, invidia, protegge, difende, non rifiuta. I requisiti morali non sono richiesti, non contano. In certi ambienti conta il nome che si porta, i soldi che si hanno in tasca. Per denaro si è disposti a tutto. Con il denaro si ottiene tutto: abiti firmati, ville maestose, interventi di chirurgia plastica, viaggi intercontinentali, cure confortevoli in centri termali. Ma l’anima dilaniata dai dubbi, dai rimorsi, chi la cura? Dove è possibile trovare una fonte d’acqua pura, dissetarsi dopo il sapore dolceamaro del veleno, della sconfitta, della perfidia. L’anima assuefatta non distingue più il bene dal male, pensa solo che tutto sia lecito. Del resto nessuno crede all’esistenza dell’anima e la coscienza viene messa a tacere con piccole beneficenze saltuarie. Grandi personaggi, sia uomini che donne, si distinguono per straordinarie opere di beneficenza. Certi ambienti corrompono, distruggono e una persona si ritrova priva di valori senza accorgersene. E’ come una sedia di torture che si stringe intorno al corpo lentamente centimetro dopo centimetro, guadagna terreno e alla fine soffoca, uccide. E’ come una pianta carnivora che in silenzio compie la sua strage quotidiana. Solo con il tempo ci si accorge, se avviene, di essere morti dentro. Tanta vita ci circonda, tante luci, tanti colori ma non c’è stupore, gioia, trasalimento di fronte alle piccole cose della vita: un prato fiorito, un tramonto, un sorriso di bimbo. Non si ammira più la luce limpida del giorno, la freschezza dell’acqua appena uscita da una sorgente, le trasparenze di un placido lago, i tormenti teneri e struggenti dell’amore, i rossori di un volto pudico, il sapore del pane appena sfornato, le corse su un prato fiorito di primavera. Si vive pensando che tutto ci sia dovuto, che le azioni turpi non sono illecite, che gli altri sono esseri inferiori. Ci sono intellettuali famosi, poeti che hanno finito per cedere alle lusinghe dell’alcol, della droga. I più grandi geni hanno condotto vite sregolate, al limite della follia. Vite prive di buon senso, di rispetto di sé, di rapporti umani. Vite sprecate, spericolate, svendute per poche lire, stritolate in ingranaggi ferrosi. Ci sono poeti, pittori, scultori che sono morti giovani traditi dal proprio vizio come quello di bere, del fumare. Grandi pittori in segreto erano fumatori di oppio, cocainomani, pedofili. Come se il successo assorbisse per intero il cervello, lo risucchiasse verso una terra sconosciuta piena di promesse. Ci sono casi anche di persone perbene, ma sono rare come le mosche bianche. Una volta raggiunta una posizione si potrebbe anche aiutare gli altri, guardarsi intorno, condividere, mostrarsi disponibili. Invece magari si finisce sotto un ponte per aver guidato ebbri un’auto veloce o in un locale equivoco, o magari all’ospedale per essersi tagliati le vene. La noia che disturba, che uccide, che divora l’anima. Ragazzi di buona famiglia che finiscono per fare i vagabondi, i teppisti per noia, perché non hanno nulla da fare, non sanno a cosa pensare, cosa sperare, cosa chiedere a un destino che è stato generoso. I fatti di cronaca ci mostrano questa realtà. Avere tutto e finire su una strada sbagliata, per tentare di non avere più niente, per distruggere in un attimo quanto costruito nei secoli, nelle generazioni. L’egoismo che divora le viscere come un drago famelico. Accumulare ricchezze per perderle in un giorno, in un sol colpo per disattenzione, per capriccio, per ripicca. Perdersi nel mare del male senza aver fatto un briciolo di bene. Rovinarsi, puntare il coltello contro se stessi con la disinvoltura leggera, con la rapidità di un felino. Allora il successo a cosa serve se non sappiamo gestirlo? Se basta un niente per precipitare nel baratro della sconfitta. A cosa serve finire sui giornali, intervistati, fotografati se poi nostro figlio muore solo in un appartamento per overdose? Forse siamo così intenti a scalare le vette del successo che tutto sfuma, passa in secondo piano intorno a noi. Non vediamo niente, accecati dalle luci della ribalta. Quando ci rendiamo conto del fallimento, non possiamo più rimediare. Nessuno riporta in vita nostro figlio o i nostri sentimenti agonizzanti. Ci sono porte chiuse che non possono essere più riaperte. Le persone che abbiamo lasciato sulla strada per inseguire il nostro sogno di gloria le abbiamo perdute per sempre. Non si può recuperare l’amore perduto, la giovinezza sprecata, gli amici lasciati a se stessi. Durante la corsa speravamo di recuperare, credevamo di avere altre possibilità, pensavamo di cavarcela. Speravamo nell’immortalità del nostro pensiero, delle nostre idee, delle nostre prese di posizione. Credevamo di riuscire comunque a crearci la nostra nicchia, invece il tempo ci ha traditi e corrotti e siamo finiti come tutti gli altri, vittime del processo rovinoso del tempo. Tutto passa, anche l’ambizione. In mano ci resta solo una manciata di polvere sottile come sabbia del deserto. Vicino a noi la solitudine come compagna di viaggio, perché gli altri, presi nel gorgo della loro vita, si sono dileguati, allontanati perché magari non sopportavano il nostro successo. Il successo che scatena invidia, che porta alla solitudine dello spirito, dell’anima, del corpo. Nel successo i rapporti umani diventano labili, si consumano come saponette, senza lasciare traccia come le storie d’amore. Può capitare allora che una attrice famosa, bellissima, finisca sola, senza un compagno, senza soldi a vivere in un appartamentino angusto in un luogo sperduto. Dove sono tutti i suoi amanti comparsi su riviste di moda e giornali? Dove è quell’amore ampiamente descritto negli articoli? Se fosse stato amore tutto sarebbe diverso. Vincenzo non conosceva l’amore, conosceva solo l’orgoglio, la presunzione. In cuor suo fece una scommessa audace: far capitolare la bella attrice. La sua mente aveva una nuova, dolce occupazione. Non stava nella pelle. Il pensiero della conquista gli metteva la febbre addosso. In un mondo dove le donne gli cadevano ai piedi come mosche impazzite, una donna misteriosa, che si negava, era un bocconcino appetibile. Nell’amore vince chi fugge. Si sarebbe impegnato, avrebbe perso tempo, denaro, ci sarebbe riuscito. Pregustava il momento culminate dell’amplesso, quando quella donna sfuggente, tenera, giovane, sarebbe stata sua. Sarebbe finita fra le sua braccia, perché lui l’avrebbe braccata, inseguita come si fa con le cerve, le volpi nelle battute di caccia. La tecnica doveva essere la stessa, di logoramento, di sfinimento. La fanciulla si sarebbe sentita al centro dell’attenzione, lusingata avrebbe ceduto. Le avrebbe regalato fiori, collier, anelli, profumi dalle fragranze orientali. Avrebbe usato tutte le arti seduttive in suo possesso, tutti gli espedienti. Avrebbe usato la sua arma segreta: il fascino e la voce bassa, suadente. Era un suo segreto, per anni aveva irretito il gentil sesso con un tono di voce basso, con frasi appena sussurrate. Riuscì a scoprire in quale teatro lavorava semplicemente contattando il suo amico di sempre, che ingenuamente si confidò con lui. Il suo amico aveva gettato la spugna, si era dichiarato sconfitto. Una sera Vincenzo si era presentato in un piccolo teatrino di provincia agguerrito come non mai. Alla moglie aveva inventato una scusa, non era la prima volta. Bastava inventare una cena fra amici, un impegno di lavoro improvviso. Per l’occasione aveva usato un potente collirio che gli faceva rilucere gli occhi verdi, una camicia bianca, immacolata con dei brillantini sul davanti che brillavano alle prime luci della sera, un abito nero perfettamente stirato, un seducente profumo. Non era una bellezza, ma aveva fascino. I capelli scuri contrastavano con gli occhi verdi, di un verde bottiglia scuro che a tratti sembrava nero e con la carnagione chiara, mediterranea, luminosa. Di media statura, austero, tenebroso aveva mani morbide e piccole per essere quelle di un uomo. La sua presenza generava soggezione, timore reverenziale. Fece il suo ingresso trionfale come un felino al circo esce dalla gabbia dei leoni per esibirsi in pubblico. Il portamento tracotante, sicuro raddoppiavano il suo immenso fascino. Cristina stava esibendosi in un numero mediocre vestita da fioraia, con un abito corto e discinto, i capelli raccolti in una acconciatura floreale e volgare, cantando una canzone spenta. La sua grazia traspariva solo dai gesti delle mani. Alcune donne hanno il raro fascino della grazia. Molte sono quelle che non sanno di possederlo. I suoi occhi blu oltremare vagavano inquieti per il teatro senza soffermarsi in un punto preciso. Aveva superato l’imbarazzo, la paura del pubblico. Il bisogno di soldi l’aveva spinta ad uscire di casa come un lupo montanaro viene sospinto verso il centro abitato dalla fame. La sera si aggirava per le strade, dopo lo spettacolo, come una fiera in cerca di cibo. Non avendo trovato nessun lavoro senza raccomandazioni, aveva sfruttato la sua avvenenza fisica. Erano stati molti quelli che avevano proposto uno scambio vantaggioso: il suo corpo acerbo in cambio di un onesto lavoro ben retribuito. Aveva rifiutato sdegnata con la forza della gioventù. Si era rassegnata, si era rimboccata le maniche, aveva chiuso gli occhi e aveva accettato quel lavoro. Non era una parte difficile tutto sommato. Sapeva cantare, lo faceva tante volte da piccola, ballare, suonare. Orfana era stata in collegio dalle suore. Dove aveva appreso il canto, l’arte del ricamo, dell’intaglio del legno, del cucito. L’unico inconveniente, nessuna rosa è senza spine, era tenere a bada gli uomini che le ronzavano intorno come vespe ebbre davanti all’uva. Gli uomini amavano la sua fresca gioventù. Si sarebbero gettati nel fuoco per lei, avrebbero fatto qualsiasi pazzia. A volte le sembrava di essere come Nanà la protagonista sfortunata del romanzo di Zola, sempre circondata da ammiratori pronti a mantenerla. Gli uomini non amano le rughe, gli sguardi opachi, i capelli striati di grigio, gli occhi appannati, le mani ricoperte di vene. Per questo senza pietà guardano altre donne, tradiscono la propria consorte ormai avanti negli anni. L’amore che dovrebbe andare oltre, superare tutte le barriere si trasforma in un lago ghiacciato dove non soffia mai un filo di vento. Doveva affrettarsi, sfruttare gli anni pieni della gioventù se voleva farsi una posizione, realizzare qualcosa di concreto. Lei invece sotto sotto, non lo confessava a nessuno, era romantica e nel suo cuore credeva ancora nell’amore, che non si incontra forse nei teatri, fra la gente frivola. Si illudeva ancora che un uomo potesse perdere la testa per lei e sposarla senza tante pretese. Sarebbe stata una donna sposata, rispettata, con prole. Non pensava che il calcolo potesse entrare negli affari di cuore. Non conosceva la vita dura dell’aridità sentimentale, conosceva solo il suo portafoglio vuoto e qualche sospiro amoroso. Lei sognava l’amore puro come acqua cristallina. Non era pronta alla vita, perché per anni era vissuta protetta fra le mura di un istituto. Le suore l’avevano cullata, difesa, ma la battaglia per vivere era molto cruenta e lei non lo sapeva. Nel suo piccolo era una donna fatale, curata, che non passava inosservata. La sua bellezza vistosa era aiutata da un trucco abbastanza pesante, da un modo di vestire estroso, seducente. Vista al naturale probabilmente faceva un altro effetto. Il difetto degli uomini è quello di lasciarsi irretire da tutto ciò che colpisce l’occhio: uno spacco vertiginoso, una minigonna mozzafiato, calze nere, a rete, scollature, tacchi alti, camicette velate, abiti trasparenti. Una donna di notevole bellezza ma vestita onestamente, anche con abiti eleganti, non viene notata, non esiste. Le donne astute, dotate dalla natura, sanno come far capitolare un uomo. Infatti mettono in risalto certe parti del corpo o del volto volutamente. Si ricorre a vari espedienti: tacchi alti, cuscinetti per i fianchi, ciglia finte, tinture, lenti a contatto. Gli uomini cadono come mosche alla vista di tanta sensualità, si girano per la strada, inseguono con lo sguardo la fanciulla in questione come fosse una rarità. Il perenne gioco della seduzione è un’arte come quella orafa o pittorica. Bisogna avere le carte in regola, ottimi requisiti e in certi casi sapersi destreggiare a dovere. La bellezza senza fascino, senza sensualità non ottiene alcun risultato, non eccita la fantasia, non scatena i sensi. Le donne grintose, simili a pantere agguerrite, vengono molto apprezzate. Il normale pudore è accettato, ma è richiesta anche una cura della persona. La prima cosa che si guarda in una donna è il corpo e il modo di vestire. Gli uomini indugiano, scrutano i particolari. Le donne vestite in modo classico, serio, lontano dalla moda, vengono ignorate o subiscono occhiate raggelanti di disprezzo sia dagli uomini che dalle altre donne. In altre parole quello che conta non è la serietà, i sani principi morali, il rispetto ma conta fare colpo con un corpo esibito. Gli abiti che vogliono gli uomini sono stravaganti, dai colori sgargianti, ben confezionati, sexy. Vincenzo era abituato a donne grintose, con la faccia truce. Cristina aveva il dono raro della dolcezza, della delicatezza. Aveva il volto sereno, l’aria angelica, nonostante il trucco pesante. Le ragazze moderne ormai sono tutte leonesse pronte a graffiare. E’ raro trovare una donna che possiede quella che io chiamo grazia, gentilezza. Perché quasi tutte le ragazze hanno perduto la leggiadria? Forse per somigliare di più agli uomini. Ora le donne sono agguerrite, camminano per strade con passo deciso, sfrecciano come saette, lanciano occhiate assassine, si comportano come avessero il veleno dentro. Sono scortesi, malvagie con le altre donne, addirittura invidiose, perfide, capaci di tutto. Corrono all’impazzata alla ricerca dell’ultimo abito alla moda, si agitano per nulla, criticano ogni cosa, scrutano l’abbigliamento delle altre donne con fare critico, si ribellano, si mostrano intolleranti, audaci, esplosive. In tutto questo vengono tenute a bada le donne più semplici, più innocenti. Le donne più semplici vengono derise dalle altre donne e non considerate dagli uomini. Una posizione scomoda che le rende insignificanti agli occhi dei più. Far parte di questa categoria è difficile, perché si viene ghettizzate. L’intolleranza genera forme subdole di razzismo. Si tratta di un razzismo che assume vari volti. Se non si rientra in certi schemi standard si viene emarginati. All’emarginazione si aggiunge l’insulto, il ghigno. Nella società moderna sovente anche un difetto lieve viene fatto pesare come un macigno. I difetti vanno occultati, specie quelle fisici, perché conta l’apparenza. Bisogna fare buon viso a cattivo gioco. Vestire in modo classico, avere qualche chilo in più può essere un problema. La persona colpita dalla sorte cerca di difendersi ma in alcuni casi soccombe e si lascia andare. Molte sono le adolescenti morte per anoressia, che si suicidano, che non riescono a sopportare il peso di una vita che le fa apparire necessariamente diverse. La società attuale ci vuole tutti perfetti, sani, belli, intelligenti. Siamo legati a tutta una serie di costrizioni che ci inchiodano, ci crocifiggono. Ricordo una frase letta per caso su un libro di filosofia che mi colpì come un proiettile: “nell’universo sottomesso alla schiavitù della ragione l’unica libertà è quella di riconoscersi come schiavi”. La libertà è solo apparente, poi si è schiavi di strani meccanismi perversi. Si creano gruppi chiusi e per entrare a far parte di certe cerchie occorre avere determinati requisiti, in assenza dei quali, si è tagliati fuori. Siamo liberi a parole poi in ufficio siamo costretti a cambiare abito ogni giorno, davanti alla tv ascoltare la pubblicità. I vestiti ormai sono divenuti l’ossessione delle donne. Le donne si combattono fra di loro a colpi di abiti. Quando si incontrano non si salutano, si limitano a scrutarsi. Se una donna è vestita elegantemente genera invidia nelle altre che quasi non la salutano, se invece è vestita in modo più sciatto viene derisa, umiliata, esclusa. Allora cosa deve fare una donna di buon senso? Non può certo passare ore davanti all’armadio in cerca dell’abito giusto. Anche se l’incontro con certi uomini vincola la scelta degli abiti. L’abito non fa il monaco. Ci sono intellettuali che vestono semplicemente e ladri che vestono firmato. La bellezza non dipende dall’abito che si indossa. Una donna è bella quando al naturale appare tale in tutta la sua semplicità, senza orpelli. Le donne semplici non vanno di moda, è per questo che molte donne distruggono la loro immagine abituale per assumerne una convenzionale costruita a tavolino, magari dal chirurgo plastico. L’importante è essere uguale alle altre. Le donne si tingono i capelli, si mettono lenti a contatto colorate per apparire. Per ottenere avanzamenti di carriera si sono vendute, hanno fatto leva sulla loro bellezza, spesso artificiale. Le donne non hanno capito che sono esseri umani, e che non devono violentarsi per apparire quello che non sono. Per paura di essere sconfitte, di venire dimenticate fanno di tutto. Del resto il fine giustifica i mezzi. Il mondo segue sue logiche assurde e chi non è al passo con certi ritmi è perduto per sempre, irrimediabilmente. La logica del mondo prevede una raccomandazione per il lavoro, l’alterazione del proprio aspetto fisico per apparire più seducenti, l’inseguimento del successo fine a se stesso, la ricerca del denaro. Cristina era a metà strada, aveva l’innocenza della gioventù e la superbia per la sua bellezza. Era consapevole del fascino che esercitava sugli uomini. Con il tempo, maturando, raggiunti gli obiettivi, si sarebbe trasformata in una donna aggressiva, presuntuosa. In fondo all’anima amava il lusso sfrenato. Ogni mattina si truccava, si modificava allo specchio come un attore di teatro. Per far risaltare la sua bellezza ricorreva a molti espedienti. Aveva compreso che per essere notate l’unica soluzione poteva essere quella di atteggiarsi a donna di classe. Nella nostra società la maggior parte delle donne si atteggiano, camminano per strada con l’andatura di indossatrici, ancheggiano come fotomodelle, guardano dall’alto in basso le donne meno dotate. Alcune donne spesso viste al naturale non sono bellissime. Cristina aveva imparato il gioco nonostante la giovane età. Si denudava il più possibile, si allenava e faceva esercizio fisico, frequentava le boutique per essere al passo con la moda, a lei non sfuggiva niente. Tutto il denaro guadagnato lo spendeva in frivolezze: abiti luccicanti per serate mondane, creme, mascara, ombretti, cere, lacche, rossetti, profumi, smalti, scarpe, abiti da maschere per serate a tema e carnevalesche, orecchini, creme idratanti, antirughe ecc. Avere le rughe è disastroso, significa non avere al seguito milioni di uomini. Quello che conta non è la qualità ovviamente ma la quantità. Se le rughe esistono, fanno parte della natura umana perché non accettarle, non conviverci. Le donne temono il giudizio degli uomini e si lasciano suggestionare e finiscono per diventare tanti manichini imbalsamati, montati, costruiti pezzo per pezzo. Togliamoci capsule, lenti a contatto colorate, liberiamoci definitivamente dal concetto di estetica, mostriamoci come siamo. Le donne dovrebbero apparire come sono realmente, non come tante bambole da vetrina che si ha paura di toccare. Ricorriamo a finti elementi esterni perché amiamo vivere nella falsità. Cristina lavorava giorno e notte per il capriccio di un attimo. Nel suo cuore, intimamente, sapeva che pur di vivere nell’agio, era disposta a diventare l’amante giovane di un uomo benestante, anche sposato. La fine dei soldi l’avrebbero messa con le spalle al muro. La sua ritrosia, tipica della giovinezza, sarebbe stata vinta. L’imbarazzo scaturiva non dal fatto di essersi venduta ma dal condurre una vita grama, povera, senza piaceri. La morale viene messa sotto i piedi, calpestata quando conta l’apparire, non l’essere. La ricchezza si vede, il cuore buono non lo nota nessuno, è racchiuso nel petto. Allora per raggiungere il denaro si può anche vendere l’anima. Se il nostro comportamento poi ottiene anche l’applauso degli altri è un punto a nostro vantaggio, un invito a continuare. Il nostro difetto è sempre lo stesso: non capire quali sono le cose essenziali, e scambiare oggetti futili per generi di prima necessità. Non voglio fare la figura del giustiziere, sono un essere umano che è caduto nelle stesse trappole, è stato ferito dalle stesse lame, è stato sedotto dalle stesse sirene. Parlo solo per esperienza, con il senno di poi. L’esperienza ci matura, gli eventi ci plasmano. Anche io sono stato ammaliato dalle donne fatali. Conosco il fascino sottile della seta frusciante, l’irresistibile richiamo di un velo nero sul corpo nudo, il piacevole aspetto di un rossetto rosso squillante, il mistero degli occhiali scuri. In passato ho anche io indossato occhiali nerissimi per apparire impenetrabile, misterioso, spavaldo. Quante volte sono stato attratto da uno sguardo provocante, da una scollatura audace, da uno spacco aperto sulle gambe lunghe. Non dovremo invece preoccuparci di cosa indosseremo è la natura stessa che provvede a tutto automaticamente. E’ la stessa legge di natura che tutto livella, appiana, risolve. Per legge di natura ci sono state persone poverissime, che con l’ingegno e un pizzico di fortuna, sono diventate persone benestanti. Il dramma dell’uomo moderno, l’incubo è il denaro da accumulare, da spendere senza ritegno. L’uomo di oggi inoltre vuole tutto e subito, senza riserve. L’attesa non rientra nei progetti. Anche una donna la si vuole possedere subito, il corteggiamento lungo è superato, a vantaggio di un approccio più veloce e spigliato. Non si può attendere, aspettare la maturazione degli eventi. Invece c’è un tempo per tutto, per amare, per lavorare, per guadagnare e anche per morire. Ogni cosa va fatta a suo tempo e con onestà. Cristina non sopportava l’attesa, aspettare di incontrare l’uomo giusto, di trovare i soldi, attendere il miglioramento naturale della sua persona, visto che era ancora acerba. Preferiva intervenire prima, forzare la mano al destino. Questi interventi tuttavia non sono mai senza scotto. L’adolescente che prende l’auto all’insaputa del padre per guidare, prima del tempo, spesso finisce fuori strada. Certo questo non avviene ogni volta, ma è un rischio che non si può correre. Molte cose si potrebbero evitare se tutti fossimo più umani, più saggi, meno frettolosi. Spesso invece commettiamo azioni indegne, malvagie e finiamo per arrecare danno anche agli altri. Se Cristina si fosse impegnata un po’ di più non avrebbe provocato i disastri che invece causò a se stessa e agli altri. Bisogna sempre evitare di danneggiare gli altri, invece alcune azioni vengono commesse proprio per il gusto di fare del male, di tormentare gli altri compagni di viaggio dell’avventura vita, magari solo per gelosia, per rabbia, per invidia. Ci sono comportamenti che danneggiano persino la collettività. Chi fa uso indiscriminato di stupefacenti oltre a danneggiare la sua salute disturba la comunità intera con il suo comportamento scorretto. Lo stato è costretto a intervenire, si devono fare comunità terapeutiche, centri di ascolto. Non mancano poi quelli che speculano su tale situazione. Si fanno concerti contro la droga, si lanciano palloncini colorati, si fanno cortei e manifestazioni, si realizzano spot pubblicitari, convegni e congressi a tema. Associazioni si interessano al problema, cercano soluzioni idonee, intervengono sul tessuto sociale. Le conseguenze spesso sono disastrose: persone morte per overdose, investite da drogati sulle strade, uccise da cocainomani. Oggi in effetti tutto è un problema, quello degli anziani, dei tossicomani, dei bimbi maltrattati, dei pedofili, dei separati, dei disabili. C’è stato mai qualcuno che è intervenuto alla radice? Si parla di solidarietà, di educazione ma predomina sempre l’interesse personale. Certi problemi non vengono risolti, si preferisce non risolverli. Cosa farebbero gli avvocati senza le separazioni? Il tornaconto personale impedisce il risanamento totale, la rieducazione. La sanità stessa vede il trionfo del lucro, della speculazione. Non si retrocede più nemmeno di fronte alla morte. L’uomo che muore non ha più un nome e cognome, non ha una individualità, è una salma di cui bisogna disfarsi al più presto, un ingombro inutile. Gli stessi funerali per molti rappresentano una perdita di tempo, un luogo dove poter ostentare i propri abiti e occhiali firmati. Non c’è posto per le commemorazioni, per i ricordi, per le celebrazioni, bisogna correre, essere veloci. L’unica m medicina valida è la dimenticanza, l’unico dio l’oblio. Le persone scomparse non continuano a vivere idealmente nella nostra mente, troppo occupata, muoiono nell’istante stesso in cui esalano l’ultimo respiro. Il passato va archiviato, si vive alla giornata, la maestra per molti è la strada. Il ricordo in alcuni casi invece può essere benefico, vitale. L’uomo senza memoria è un uomo senza tempo, perduto, alla deriva nell’universo. Se tutto venisse cancellato, persino la memoria storica, e non restasse più la memoria, il ricordo, potremo dire veramente di aver vissuto invano. Senza la memoria del passato non si costruisce il futuro. Oggi si pensa al divertimento, a cogliere l’attimo fuggente. Per molti moderni il passato non conta, il futuro è lontano, non serve considerarlo. Non serve ricordare i nomi dei tanti amanti, delle tante amicizie superficiali che si allacciano, delle persone che ci hanno offeso, dei nonni ormai scomparsi, fuori dal tempo. Tutto è acqua passata. Le persone che in un dato momento ci sono servite ora non contano più. Si ignora che ogni evento lascia una traccia, che certe esperienze determinano il nostro carattere, le nostre azioni. Tutto viene registrato, annotato e alcune cose possono riemergere anche a distanza di tempo, quando meno ce lo aspettiamo. Il destino intreccia i suoi fili a nostra insaputa, lavora nel segreto delle sue stanze. Il destino ricorda ciò che noi abbiamo collocato nel dimenticatoio. L’impatto con i ricordi può essere doloroso. Un giorno i ricordi a cui siamo sfuggiti ci vengono davanti ossessivi. Le bugie dette, le verità nascoste talvolta vengono alla luce prepotenti e non c’è scampo. Quante volte siamo stati smascherati? Quante volte abbiamo parlato male di una persona e questa ha poi puntualmente risaputo tutto. Non possiamo pensare di farla franca sempre. Non si sfugge a certe logiche, a certi meccanismi. Non possiamo comportarci male pensando che non ci accadrà ma nulla di serio, farci un amante pensando che nessuno saprà mai nulla. La logica del carpe diem impone di assaporare ogni istante della vita senza scrupoli, senza rinunce, senza coscienza. Qualche volta è opportuno rinunciare a ciò che ci piace e ci attira incredibilmente se questo vuol dire salvarsi da una situazione incresciosa. Oggi potrebbe essere bello avere un’amante bella e giovane, domani potremmo sentire sulla pelle l’odio dei figli. Cristina non aveva tanti scrupoli di coscienza. Dal palco ammirava la platea con uno sguardo spavaldo, alla fine dello spettacolo. Guardandosi intorno, per raccogliere apprezzamenti e sguardi compiaciuti, incrociò lo sguardo brillante di un bell’uomo. Quegli occhi insistenti come insetti molesti, la spogliavano. Era uno sguardo che tagliava come falce, che arrivava diritto al cuore. In certi momenti vedeva solo il bagliore di quegli occhi ardenti. Non osava guardare quegli occhi, come li incontrava non riusciva a distaccarsene, erano calamita, erano fuoco. Ritiratasi nel suo camerino si sentiva inquieta, le guance erano avvolte da fiamme sfavillanti. Si sentiva il respiro affannoso, le mani sudate e tremanti. Sull’uscio apparve l’uomo dagli occhi brucianti. Lei provava soggezione, rispetto, attrazione, repulsione. Voleva fuggire, ma da quando aveva incontrato quello sguardo sapeva di non avere pace. Aveva le vertigini, i brividi caldi lungo la schiena. Poteva perdersi, si stava perdendo. Stava naufragando con i sensi ammaliati. L’anima sua vibrava attirata da uno sconosciuto. L’attrazione fisica che porta tra le braccia di uno straniero è perversa. E’ una forza irresistibile, travolgente, non serve puntare i piedi. Davanti a quel fuoco si diventa deboli. Il cuore pulsava e accelerava i suoi battiti, pulsava nelle tempie violentemente. L’uomo aveva una voce bassa, suadente come un sussurro. Lei non sapeva resistere al richiamo dei sensi. Quell’uomo scatenava il suo erotismo, la sua sensualità, con lui si sentiva femmina, non solo donna. Tutti i pori della sua pelle erano all’erta, risvegliati. Sarebbe caduta tra le braccia di quell’uomo, se lo sentiva, lo intuiva, lo percepiva. Già non poteva fare a meno del contatto delle sue mani. Lui le aveva stretto la mano e l’aveva guardata con gli occhi intenti, con quello sguardo lascivo. Il suo sguardo prometteva laghi incontaminati, distese di sabbia fina, mari azzurri e cieli senza nuvole. Quello sguardo non l’avrebbe mai dimenticato, l’avrebbe portato dentro di sé per anni. Non era lo sguardo, era il modo come la guardava. Lei si scioglieva come neve al sole, anche se non voleva. La sua mente razionalmente rifletteva mentre i suoi sensi la trascinavano lontano, in un turbine di rossa passione. La passione per lei aveva il colore del sangue, che ora ribolliva, fremeva nelle sue vene. Lei si sentiva come una sirena che aveva ammaliato l’uomo elegante, ed era orgogliosa. La sua bellezza si illuminava alla luce degli occhi di lui. Tra loro c’era un feeling, lei si sentiva affine a lui. Erano due simpatiche canaglie in cerca di guai. Non era amore, semmai era passione, amore sensuale, attrazione forte, feeling erotico. L’amore era quello per il corpo, non per l’anima. L’altro era solo un corpo da accarezzare. L’amore implica il rispetto, il dono di sé, il volere solo il bene dell’altro. L’amore è sacrificio, sfida, lotta, comprensione, difesa, conoscenza. Chi ama conosce l’altro, lo stima, lo difende, lo protegge. Il corteggiamento muto era già iniziato ed era più eloquente di tante parole dette. Il linguaggio del corpo, degli occhi era facilmente traducibile. Lui la considerava un bel bocconcino, un trofeo da esibire come una vittoria. Non c’era sentimento nel suo sguardo satanico, lussurioso. La lussuria lo prendeva all’addome, gli faceva provare spasmi di piacere acuto. Doveva raggiungere il suo obiettivo prima che fosse troppo tardi. Lei era affamata di baci e di carezze, avida di affetto, accecata di passione. Quella sera tuttavia lei non si lasciò andare riuscì a mantenere una maschera di indifferenza sul volto. Lui appariva come un bell’osso da spolpare, pieno di soldi. In fondo al suo cuore quell’uomo le piaceva, accendeva per incanto tutti i suoi sensi sopiti, tenuti a freno. Era come una miccia vicino a una polveriera, destinata a esplodere. Prima o poi avrebbe dovuto capitolare, non le conveniva fare la preziosa. Il tempo passava e la bellezza sfioriva. Si vendeva al migliore offerente che c’era sulla piazza. Quell’offerente era un uomo bellissimo ai suoi occhi che le faceva girare la testa. Non poteva chiedere di meglio. Avrebbe unito l’utile al dilettevole. La sua mano rivelava l’esistenza della fede nuziale, ma lei lo sapeva in partenza. Nessun uomo di buon senso, con una ottima posizione sociale l’avrebbe sposata. Si doveva accontentare. C’erano molte donne anche più brutte di lei che erano felicemente sposate solo perché erano figlie di gente importante. Lei pagava lo scotto per la sua origine. Il marchio della sua razza si imprimeva sulla sua delicata pelle. Non avrebbe sofferto per le sue origini, avrebbe accettato quello che offriva il destino, si sarebbe adattata. A che serviva il rimpianto, il rimorso, il rimescolare le carte. Tanto valeva giocarsi la carta della bellezza, magari su più tavoli. Per una donna quella era la carta vincente. Con la bellezza sensuale si poteva tenere al laccio un uomo, anche il più bisbetico. Ma la bellezza assoluta, da sola non bastava. Ci voleva grinta, sensualità, lascivia. I suoi occhi tradivano una sensualità nascosta. Un uomo corrotto sapeva come tirar fuori, scatenare quella libido repressa. L’uomo deve essere come un violinista che sa toccare le corde giuste per far scaturire dallo strumento un suono melodioso. Certe corde devono essere pizzicate in un certo modo, al momento giusto. Vincenzo sapeva come far impazzire una donna. Lei era digiuna di piaceri e desiderava essere colmata della grazia dell’amore. Il suo corpo anelava al congiungimento carnale anche se lei non lo percepiva pienamente. Un vago senso di languore, di spossatezza la prendeva, un senso di abbandono, di impotenza. Era un lasciarsi andare per sentire brividi sulla pelle, il cuore che pulsava. Si sentiva svagata, poco lucida. Gli unici pensieri che attraversavano la sua mente erano pensieri deboli, inconsistenti, leggeri come fili di paglia, pensieri d’amore. Il suo stato d’animo era incline alla malinconia, al languore, allo struggimento, era pronto per un coinvolgimento emotivo, per un deragliamento dei sensi. Non le importava di sbandare, di sballare, magari per passione, per anni era stata chiusa in una stanza. Voleva la sua ricompensa, la sua parte di felicità, non importa a quale prezzo. La reputazione era l’ultimo dei suoi pensieri. A chi doveva rendere conto? Non aveva padre, fratello, marito, fidanzato. Era una libellula sola su un verde prato in attesa del suo fiore. Avrebbe scelto il fiore più brillante, più colorato. Non voleva risparmiarsi, era sulla terra, era nata, l’avevano obbligata a nascere, e voleva godere dei frutti della terra, di tutti, nessuno escluso. Se l’amore esisteva voleva inebriarsi, bere direttamente dal suo calice. Se doveva morire prematuramente voleva essere sazia dei piaceri del mondo. Il paradiso poteva non esistere, lei voleva il paradiso in terra, per lo meno il suo paradiso. Voleva costruirsi una nicchia, da lì avrebbe guardato compiaciuta gli altri vivere. Non amava la lotta per il potere, per il successo. Non era interessata a combattere, non sapeva combattere. Forse era una perdente ma in fatto di sentimenti, voleva vincere, poteva vincere, era il suo campo. L’amore era il terreno naturale dove lei preferiva lottare per avere il suo posto nel mondo. Con i sentimenti ci sapeva fare, era il suo mare. Si nutriva di sospiri, di poesie, di versi d’amore, di film sentimentali alimentando copiosamente la fiamma che albergava dentro di sé. Quella fiamma, era in origine dentro di lei, era pronta a fare scintille e lei non aspettava altro. Nel suo inconscio seguiva la sua vocazione: quella di donna fatale. Lavorando su se stessa avrebbe ottenuto risultati di degno rispetto. Bastava mettersi sulla breccia, attenti a ogni piccolo cambiamento. Il vento ora era cambiato, lo percepiva guardando la sua stanza piena di orchidee fresche, i suoi occhi brillanti davanti allo specchio, l’invito profumato collocato sulla toilette rosa confetto. I primi appuntamenti furono deliziosi. Lei respirava il suo intenso profumo, lui ammirava la sua grazia di gatta selvaggia pronta per essere domata. Il richiamo dei sensi era irresistibile. Lei si tratteneva per non cadere subito nel baratro del piacere. Era un modo per tenere al laccio l’uomo, intensificare il suo desiderio di carne fresca. I loro incontri furono una girandola di piacevoli sensazioni, intense come il profumo delle ginestre. Perdevano la cognizione del tempo, il senso dello spazio. Camminavano come sospesi tra cielo e terra, con la testa fra le nuvole. Lei per la prima volta in vita sua si sentiva leggera come una piuma, inconsistente come una nuvola in pieno sole, trasparente come un cristallo. Lui poteva leggere in un libro aperto, distingueva tutti i moti del suo animo. A lei le si svelarono nuovi orizzonti, l’esistenza di pianeti dove era possibile essere felice. Dopo l’amplesso ritornava a fatica sulla terra per riprendere faticosamente i contatti con il mondo. Si fondeva con lui, si annullava. Quando lo teneva fra le braccia vaneggiava, sussurrava parole incomprensibili, bisbigli senza senso. Era come se fosse caduta in deliquio, come se fosse divenuta folle. I giorni si susseguivano ma lei non prendeva principio, non riusciva ad organizzarsi, non faceva nulla di concreto. Si lasciava andare alla deriva in attesa del naufragio, della perdita completa del proprio io. Era una passione che la rendeva schiava, che le stringeva le viscere in una morsa, in un nodo stretto. Dimenticava di mangiare, di bere, di pensare. Il suo cervello subiva un corto circuito elettrico totale. Al posto dei pensieri compariva uno schermo nero. In poco tempo aveva azzerato le sue difese, abbattuto le mura della sua anima. Si era lasciata andare perché in fondo lo desiderava. Per anni nel torpore aveva atteso un evento straordinario, catastrofico, rigenerante. Ogni giorno diventava più bella, la pelle acquisiva un colorito vivace, le guance apparivano rosee, le labbra sempre più ardenti. La sua passione era una fonte inesauribile che non lasciava vedere la fine. Lui era contento, era riuscito a strappare la donna al rivale senza tanto sforzo. L’impresa si era rivelata facile. Ora nei circoli si atteggiava, gongolava come una tigre sazia. Il rivale si era ritirato, si era disintegrato come un satellite in orbita. Quella relazione exstraconiugale non era come le altre, meritava più attenzione. Così per soddisfare i suoi capricci Vincenzo aveva affittato un appartamento a sue spese dove teneva confinata la sua bella. Lei viveva a pochi km dal paese dove viveva l’amante in un grazioso appartamentino. Ogni sera o quasi lei lo attendeva con camicie da notte velate e trasparenti, con i capelli profumati, con vestaglie sexy, calze nere, biancheria di pizzo. Lui in verità cominciava ad esserne geloso, la voleva tutta per sé, non poteva condividerla con altri uomini. Il senso acuto del possesso si era impadronito di lui. Si possono possedere terreni, case, barche e persone. Aveva iniziato con il possesso di beni ora era arrivato a possedere persone, c’era stato un salto di qualità. In questo caso poi non possedeva solo un corpo intuiva che c’era dell’altro, possedeva un cuore. Aveva colpito direttamente al cuore della donna, anche se questo rappresentava per lui una complicazione. Sarebbe stato più difficile sbarazzarsene al momento opportuno. Non voleva passare tutta la sua vita con quella donna zuccherosa e romantica, senza cultura e meschina. In teoria pensava anche di tenersela per sempre. In fondo era un rifugio caldo, un punto di riferimento, specie nelle notti di pioggia. Lui poteva andare dove voleva tanto lei era sempre lì pronta ad accoglierlo, a consolarlo. I soldi per mantenerla non gli mancavano. Nessuno uomo doveva assaggiare quel frutto proibito. Con lei il sesso era sublime, al disopra delle sue aspettative. Quella donna era una pantera, una leonessa, una lince. Sapeva prenderlo a differenza di altre donne che aveva posseduto. Lei aveva la grazia di una pantera, la forza di una leonessa, il fiuto di una lince. Era intuitiva, graziosa, delicata, aggressiva, intraprendente, arrendevole, al tempo stesso. Si lasciava inseguire e inseguiva lei stessa a seconda del gioco. L’amore con lei era gioco erotico, lotta amorosa, condivisione. Non poteva allontanarsi troppo dal suo letto. A suo modo era stato stregato. Lui riconosceva il profumo della sua pelle a distanza, le sue mani a occhi chiusi. Si abbandonava a giochi con la benda sugli occhi e le mani legate. Ormai scendeva tutti i gradini della perversione, sperimentava sempre nuove posizioni senza stancarsi mai. Lei lo combatteva, l’assecondava, lo dilaniava a morsi, lo finiva di baci. Era una donna che rappresentava per lui una spina nel fianco, non si sarebbe liberato di lei tanto facilmente.. Popolava i suoi sogni, attraversava i suoi incubi scalza coperta di soli veli bianchi. In fondo poteva tenerla nella sua vita, aveva la possibilità di avere altre distrazioni. Non le mancavano le avventure, gli incontri, i contatti. Marta con il tempo cominciò ad avere la sensazione netta del tradimento. Il suo intuito femminile la spingeva sulla strada della verità. Le prime avvisaglie le vennero da eventi del tutto occasionali, come ad esempio un capello lungo biondo sul cappotto, tracce di rossetto sul fazzoletto, un certo nervosismo nei suoi confronti, un’ansia inspiegabile, orari non rispettati, uscite insolite a tarda notte, scuse e impacci, riunioni e cene improvvise con amici. A lei disturbava fino a un certo punto. Non amava suo marito, non era gelosa. Era invece una questione di orgoglio, che per lei era al primo posto. Suo marito poteva avere tutte le donne che voleva di nascosto, ma non doveva avere una donna fissa. Sarebbe caduta nel ridicolo, molti l’avrebbero saputo. Gli amici più intimi avrebbero riso di lei. Le donne l’avrebbero guardata dall’alto in basso come una derelitta. Era una sconfitta, una perdita di terreno. Agli occhi della gente lei sarebbe apparsa come la moglie tradita e beffata, messa da parte, battuta, derisa. La cosa più raccapricciante era la perdita di prestigio, di rispettabilità. Un’amante rappresentava poi una perdita di denaro. Suo marito avrebbe anche potuto fare delle donazioni alla fanciulla di cui si era invaghito. Dalla relazione poteva anche nascere un potenziale rivale dei suoi figli, un candidato all’eredità. La soluzione poteva essere quella di avere un altro figlio per accentrare di nuovo l’attenzione su di sé. Vincenzo voleva avere un altro figlio e sperava in cuor suo che somigliasse a lui. L’altro era l’immagine vivente di sua madre, ora voleva qualcosa di veramente suo. Marta per realizzare il suo sogno ricorse anche alle cure costose di un noto ginecologo di fama. Per i ricchi i problemi di salute sono facilmente risolvibili. Il denaro apre le porte del tempio dell’assistenza sanitaria. La povera gente fa fatica a curarsi, a comprare i farmaci. Noti professionisti nel campo medico si fanno pagare fior di quattrini per la loro consulenza. Dentisti, ginecologhi, cardiologhi hanno parcelle salate. Il denaro risolve casi clinici veramente critici. Non avere mezzi significa anche questo: cadere nel baratro delle malattie senza possibilità di cura. Allora accumulare denaro diventa prioritario. Peccato che poi il denaro dei ricchi viene sciupato per questioni senza importanza. I ricchi si danno a una vita dissipata non pensando alla sofferenza degli umili. Marta rimase incinta dopo cure costosissime. Un grigio pomeriggio di Novembre, cupo, tetro come la notte, nacque un bimbo settimino, gli fu dato il nome di Marco. Si dice che chi nasce di sera ha l’animo malinconico come quello di un poeta. Marco somigliava a suo padre e per lui fu un grande motivo di orgoglio. Finalmente una parte di sé sopravviveva in concreto. Marco appariva però debole e dal carattere chiuso. Giovanni non lo sentiva suo, era troppo simile a sua madre, che lui ormai detestava. Giovanni aveva lo sguardo altero della razza di sua moglie. Marco aveva l’animo più gentile. Il parto prematuro ufficialmente fu dovuto a problemi di salute della puerpera, in realtà la gravidanza fu un vero calvario. Marta fu sovente picchiata dal marito. Le liti, le lotte furiose corpo a corpo avvenivano a causa di Cristina. Marta voleva la fine della relazione in vista della nuova nascita. Spesso veniva presa a calci e spinta fuori dal letto. Portava visibili i segni delle colluttazioni: lividi sul collo, sulle braccia, lividi sull’anima. I lividi lei diceva alla gente di esserseli procurati cadendo dalla vasca del bagno. Squallide bugie per coprire tristi oscenità. Tutte le donne innamorate che vengono picchiate dal marito cercano di non lasciar trapelare nulla. Marta non parlava per paura di uno scandalo, la sua famiglia era troppo nell’occhio del ciclone. Quando uscivano ben vestiti per andare alla messa sembravano una famiglia felice. Vincenzo con il cappello, il cappotto grigio, lo sguardo serio, Marta con la camicetta di seta pura ricamata e la gonna lunga di velluto nero e i gioielli bene in vista, i stivaletti di camoscio nero e il piccolo con le mani piene di giocattoli. Il piccolo aveva una stanza completamente colma di giocattoli, c’erano cavalli a dondolo, trottole, pistole, palloni, soldatini. Tutta quell’abbondanza che contrastava con il vuoto del suo cuore. Il piccolo assisteva impotente alle liti furibonde dei genitori. Da grande avrebbe vendicato sua madre, vittima di quelle ingiurie verbali e fisiche. Il piccolo Giovanni si accorse della presenza di Cristina all’età di nove anni. Fu probabilmente un incontro voluto dal destino, sempre evitato, inimmaginabile per Vincenzo. Il destino che intreccia i fili a suo piacimento fino a ottenere un inestricabile groviglio di sentimenti, di sensazioni. Il fato che detta le regole e impone le sue folli leggi, dimentico delle persone, delle loro esigenze, dei loro valori. Agli occhi del figlio il padre era ancora rispettabile. In fondo le liti avvenivano nelle migliori famiglie, come gli facevano notare i compagni di classe. Ancora la sua famiglia rientrava nei parametri della normalità. Fino a quel giorno di metà maggio. L’incontro avvenne in un locale romano vicino Piazza di Spagna dove Giovanni si era recato con i compagni di scuola e un’insegnante, dopo la visita a una mostra. Vide con i propri occhi suo padre baciare e abbracciare una donna bella come il sole ma volgare come una prostituta. Quella donna aveva un atteggiamento sfacciatamente nauseante. Fu una coltellata in pieno petto. Nonostante il suo carattere forte e ribelle, fiero e battagliero il mondo gli crollò letteralmente addosso. Quell’uomo era dopo tutto suo padre e tale doveva rimanere, non voleva condividerlo con nessuno, eccetto sua madre. L’impeccabile immagine pubblica di suo padre si sgretolava come una statua colpita da picconate decise. Forse da quell’amore adulterino poteva anche nascere il frutto del peccato, non era da escludere. Già soffriva terribilmente per la presenza di Marco, non voleva altri fratelli con cui dividere la proprietà. Il disgusto crebbe a tal punto che fu preso all’improvviso da conati di vomito e da una febbre maligna da stress. Molti compagni di scuola, che conoscevano Vincenzo personalmente, avevano fatto finta di nulla altri più discoli avevano pronunciato battute ironiche piene di veleno. Di nuovo il veleno avvelenava i suoi giorni anche in mezzo al lusso degli strucchi e dell’oro zecchino. A che servivano quelle coppe di cristallo blu in oro zecchino se il suo animo non era sereno? Invidiava quei piccoli che gioiosi, infangati, giocavano liberi in mezzo alla strada insieme con gli altri. Invidiava le coppie innamorate che si guardavano con occhi languidi. Febbricitante, pallido, spettinato, era stato ricondotto a casa dall’insegnante. Aveva simulato un malore dovuto all’influenza. Ben altre influenze colpivano il suo corpo. Era cresciuto superbo e l’idea di essere bersaglio di facili pettegolezzi e insinuazioni lo faceva stare male. Tuttavia saggiamente preferì tacere con sua madre e conservare un atteggiamento normale con suo padre. I piccoli, spesso maltrattati, hanno più dignità degli adulti. La sensibilità dei bambini spesso però li porta ad avere un atteggiamento particolare di fronte a certe situazioni. Bisogna comunque tener sempre presente che non sono persone adulte. Nella realtà odierna i genitori affrontano ogni tipo di discorso con i propri figli considerandoli alla pari. I piccoli non hanno gli stessi stimoli, le stesse reazioni, lo stesso modo di porsi degli adulti. Ora è possibile imbattersi in bambini che vestono, gestiscono, parlano come dei grandi. Ragazzine di quindici anni truccate, abbigliate come donne fatte se ne vedono tante come i bambini che escono con ragazzi più grandi di loro. L’innocenza, la purezza tipica dell’età preadolescenziale è considerata una malattia inguaribile. Si bruciano le tappe per un puro fatto di emancipazione, per apparire più grandi e quindi più credibili. Per atteggiarsi ad adulti si cade nella spirale del vizio del fumo. Si fuma per apparire più sicuri e disinvolti. I bimbi assoldati per lo spaccio di stupefacenti si sentono parte del mondo degli adulti. La strumentalizzazione dei piccoli avviene ogni giorno. La prostituzione minorile è in espansione. Sui piccoli si arriva a compiere raccapriccianti atti di libidine feroce. Si è persa la dignità umana. Il rispetto dell’uomo implica il rispetto sacrosanto dell’infanzia. Compromettere lo sviluppo psicologico di un individuo equivale a creare persone con notevoli squilibri. I ricordi dolorosi dell’infanzia segnano nel profondo, diventano traumi. Ognuno involontariamente agisce per reazione a qualcosa che è accaduto nel passato, nell’infanzia, alcuni eventi ci ossessionano e alla fine vogliamo in qualche modo liberarci di loro. Proteggere l’infanzia non significa limitarsi a fare associazioni, manifestazioni, spettacoli. Mentre si fa un concerto per i diritti dell’infanzia centinaia di bimbi muoiono di fame, uccisi, vengono maltrattati, subiscono violenza fisica e morale. Bisogna avere un profondo rispetto per l’infanzia. Un’infanzia sconvolgente può condizionare gli atteggiamenti futuri di un adulto. Il destino viene segnato nel periodo dell’infanzia, che dovrebbe essere il più possibile sereno. L’infanzia plasma il modo di essere, il carattere. L’infanzia di Giovanni, mio padre, come vedrete, era già stata gravemente compromessa, minata. Il suo sorriso si spegneva all’improvviso, si chiudeva in una smorfia, lo sguardo aveva perso la sua lucentezza, era opaco, malinconico. Oggi i bambini sono abituati a tutto, alle famiglie allargate, ai genitori separati, a loro non fa più né caldo né freddo la disgregazione della famiglia, ma nel loro animo si forma sempre un solco, la mente registra sempre gli eventi. Si stordiscono con gli oggetti del mondo, tecnologici, moderni per dimenticare le odiose spine che hanno dentro. Marta l’aveva sorpreso nel sonno mentre piangeva e si disperava. Ogni tanto si svegliava di soprassalto madido di sudore o nell’atto di gridare parole strane e incomprensibili. Dopo quell’episodio sconcertante appariva inquieto, deconcentrato. Non né aveva fatto parola con nessuno ma intanto a scuola perdeva colpi. Appariva distratto, con la testa fra le nuvole, come se avesse qualcosa dentro che lo tormentava, che non voleva venire fuori o non poteva. E’ difficile per un bambino conservare un così grande segreto, specie se questo è legato alla sfera intima e personale. Una cosa era certa, non vi erano dubbi, suo padre l’aveva tradito, gli aveva conficcato una lama nel cuore e la ferita non si sarebbe più rimarginata. Un adulto forse avrebbe risolto diversamente la cosa. Da un bimbo non si può pretendere l’impossibile. A un bimbo sensibile non si può chiedere di comprendere qualcosa di imponente che lo schiaccia, lo umilia, lo annienta. Giovanni non poteva capire pienamente, non poteva perdonare. Tutti i bambini da sempre sono gelosi dei genitori, di entrambi, non hanno preferenze. L’immagine di suo padre si era impressa a fuoco nella sua mente e non poteva cancellarla, nonostante gli sforzi. Mentre giocava si insinuava fra i pensieri stessi e lui allora cambiava umore, si rabbuiava. Non poteva essere più il bambino spensierato e allegro che tutti avevano conosciuto. Crescendo avrebbe acquistato maggiore consapevolezza, avrebbe regolato meglio i suoi impulsi, ma l’immagine era scolpita nel cervello e tornava sempre, sarebbe sempre ritornata. I bambini hanno bisogno di vedere dei genitori modello, punti stabili di riferimento. Se questo non avviene si considereranno persi e traditi dai propri cari e dalla vita stessa. La famiglia è l’ambiente dove l’individuo riceve la prima formazione. Se ci sono delle lacune nel tessuto familiare i danni che ne derivano sono innumerevoli e di vario genere. La famiglia è il luogo dove ognuno dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, crescere protetto, al sicuro dalle insidie del mondo. Una specie di nido caldo dove rifugiarsi nei momenti di sconforto, da dove trarre linfa vitale per andare avanti. La famiglia quindi come supporto valido, come alleata. La scalata della vita è più facile con qualcuno valido al fianco. Invece le violenze, i soprusi, le discriminazioni cominciano proprio in famiglia, che ormai è divenuta solo la cellula generatrice del cancro della coscienza e della fine dei valori. E’ il luogo spesso dove si consumano infamità e si commettono crudeltà. Fonte semmai di incubi, traumi, discriminazioni. Una sorta di splendida gabbia d’oro che tarpa le ali alla speranza. Ci sono famiglie che diventano trappole, sabbie mobili da cui è difficile fuggire. La fuga il più delle volte non serve tanto equivale a portarsi dietro lo stesso bagaglio, la stessa educazione, lo stesso linguaggio. Il modello, l’impronta è quella della famiglia di origine. Bisogna essere fortunati per nascere in una famiglia normale. Ogni famiglia ha i suoi segreti, i suoi crucci, le sue tradizioni nascoste, i suoi principi. Lontano dalla famiglia ci si illude di migliorare ma dentro di noi c’è sempre la traccia di quella prima educazione ricevuta tra le pareti domestiche. Facciamo quello che ci hanno abituato a fare e per noi sarà una cosa normale, non conosciamo altri orizzonti, altri mondi solo le pareti strette della nostra dimora. Ora la famiglia non è più presa in considerazione, lo stesso matrimonio è diventato una farsa teatrale con tanto di costumi di scena. In ogni matrimonio due individui mascherati in abiti eleganti recitano la parte di innamorati, davanti, spesso, a un altare circondati da parenti e invitati lussuosamente bardati. Finita la festa come per incanto, finisce anche l’amore, ammesso che sia esistito un barlume di questo sentimento. Dopo pochi mesi magari ci si separa per andare incontro a nuovi amori. Ci si sposa perché lo fanno tutti, senza essere convinti. E’ più dignitoso restare soli che inscenare una commedia. La cronaca riporta casi di coloro che sono fuggiti sull’altare, o in viaggio di nozze. I viaggi di nozze di solito sono favolosi, fatti in terre lontane come Messico, Singapore, all’insegna del lusso e del divertimento. Viaggi all’altro capo del modo senza sentimenti, portandosi dietro la stessa solitudine di sempre. Ci si può sentire soli anche in due. Se veramente amiamo la persona che abbiamo scelto potremo essere felici anche a Firenze, anche in viaggio a Venezia o Como. Si spendono milioni in bomboniere, confetti, frivolezze, si spendono soldi per un solo giorno. Un giorno che poi verrà dimenticato e in certi casi persino odiato. Album di fotografie di nozze in argento, in platino buttati nei cassetti, nascosti alla vista. Foto dimenticate di sposi sorridenti, in posa, per un ricordo da fare poi a pezzi, da mandare in frantumi. Il giorno delle nozze: un giorno da cancellare, da non nominare, da scordare (far uscire dal cuore). Il cuore che diventa un lago ghiacciato dove tira un vento gelido. Eppure l’amore dovrebbe essere quel sentimento che scioglie i cuori di ghiaccio. La famiglia dovrebbe inculcare amore ma se lei non è un valido specchio dove riflettere i propri sentimenti, tutto precipita. Si conoscono solo pseudo amori, finti amori perché non si è capaci di amare, nessuno ci ha insegnato ad amare. Alla fine non sappiamo amare se non in forma egoistica e meschina. Sono pochi quelli che veramente sanno cosa vuol dire amare. I politici di grido che si trascinano dietro donne più giovani e intriganti, che stanno con loro solo per i soldi, non sanno cosa significa amare. Normalmente quando tutto va bene si confonde la passione con l’amore. La passione è un fuoco di paglia, infatuazione, fascinazione, un desiderio magari di avere un corpo, non un’anima. Una persona affascinante che ci ammalia con la sua bellezza scatena la passione. Una volta conquistato l’oggetto del desiderio spesso si assiste al calo dell’interesse, a una diminuzione sostanziale di sensazioni piacevoli. L’oggetto entra nel quotidiano, nella routine, diventa comune. L’amore non è desiderio, possesso, sfida, voglia, conquista, uno sconvolgimento dei sensi e basta. Quando ci sentiamo stordire per un profumo intrigante dell’altro, pulsare il cuore e le tempie, rimescolare il sangue, sudare le mani, tremare le gambe, potremo essere caduti nella rete subdola della passione che non lascia scampo. L’amore è qualcosa di molto più profondo, più sottile è un voler bene all’altro così come è, senza pretese. Invece si crede di voler bene, in realtà amiamo le belle gambe, il bel seno, gli occhi. Senza quei particolari stimolanti il nostro amore perderebbe terreno o cesserebbe di esistere. L’amore è conquista dell’anima dell’altro, cattura del suo intimo, è una scossa elettrica che unisce due cuori che battono all’unisono. Tra innamorati basta uno sguardo per comprendersi senza bisogno di parole. Tra innamorati c’è trasporto, feeling, le scelte dell’uno sono quelle dell’altro. Amare significa comprendere (prendere insieme), capire, perdonare, sentire, ascoltare, vibrare per l’altro, volere bene a ogni costo, per sempre anche rimetterci in prima persona se è necessario. L’amore è rinuncia, sacrificio, lotta, difesa, protezione. Si può amare in questo modo profondo una persona, un’idea, un animale, un fiore. L’amore è cura, attenzione, propensione al bene, attrazione viscerale. L’attrazione fisica genera un amore alcune volte destinato a esaurirsi. Nell’appagamento i sensi si rilassano e tutto perde maledettamente importanza. Quegli occhi così luminosi che ci sembravano incandescenti, che tanto ci piacevano, ora, passata la sbornia, ci appaiono banali, insignificanti. Allora si va alla ricerca smaniosa di altri occhi. La routine stanca, logora il rapporto. Chi ama sa come far rivitalizzare una storia importante. Anche l’amore ha bisogno di stimoli, è un fuoco che va alimentato con legna fresca, nuova, con nuove emozioni. Chi ama non si stanca mai di amare anche di fronte al baratro, non getta mai la spugna. Chi ama la propria patria, un’idea è fedele fino in fondo. Nessuno tradisce la propria patria consegnandola al nemico. Più diciamo di amare e più tradiamo la persona. Tradire è un po’ come vendere l’amore. L’amore per molti diventa una catena, una privazione della propria libertà, una ridicola dedizione. Si arriva al punto estremo quello di voler cambiare compagno a proprio piacimento, calpestando i sentimenti altrui. In alcuni casi la persona tradita si vendica, arriva ad uccidere. Con estrema leggerezza si gioca con i sentimenti. Perché legarsi per l’eternità a una sola persona? Si possono avere tante storie tutte frizzanti con persone appariscenti. Se il nostro sentimento fosse amore saremmo felici solo con la persona scelta e cercheremo solo lei. Chi ama vive non per sé, ma in funzione dell’altro, se l’altro venisse a mancare sarebbe una persona senza ossigeno, morta. Chi ama ha bisogno dell’altro in ogni istante. E’ sorridente solo se l’altro ride, è triste se l’altro piange. Amare può essere una esperienza unica. Significa che non si è soli, che c’è una persona che ci aiuta, ci stima, collabora con noi, ci difende, ci sostiene, ci ascolta, ci pungola. Senza amore saremo solo fari spenti nella notte. Esistono amori potenti come quelli per certe idee che scatenano le viscere della terra. Le idee eterne, intramontabili non passano come le stagioni, restano sospese nell’aria, ci fanno compagnia nelle ore di ozio. Ci sono persone che sono morte per certe idee, hanno sacrificato il bene più prezioso. Ci sono persone che sono morte per la patria, per salvare un individuo, per partorire un bambino. Se non ci fosse l’amore tutto sarebbe scialbo, inutile, mediocre. Il mondo sarebbe una selva di egoisti. Si può dimenticare tutto ma non si può smettere di amare. L’amore è impegno costante, ma ci fa sentire bene interiormente, ci rivitalizza come un farmaco potente. Nell’amore fra sessi attualmente si preferisce la quantità alla qualità. Si scelgono più relazioni piuttosto che un’unica intensa storia. Nella vita non si conoscono mai tanti amori, chi né ha tanti significa che non ha mai amato nessuno in modo particolare. Amare intensamente è una perdita di energia, un dare e non ci possiamo consumare per tutti. Si intessono più storie per prendere da ognuna quello che ci serve. La moglie rappresenta la stabilità, l’amante la trasgressione, l’amica l’allegria. Dividiamo la vita in comparti. Da un lato l’amore coniugale, freddo nella sua banalità, dall’altro l’amore gaudente, libero. Sono amori che non interagiscono, vivono separati. Ogni storia è un mondo a sé, che viene presto archiviata, dimenticata. Certe volte non serve ricordare. L’amore degenera in puro egoismo. L’amore può diventare gelosia, rancore, rabbia, odio, lussuria. Di frequente si confonde l’amore con il sesso. La squallida verità è che desideriamo fisicamente una persona, per il resto non ce ne importa nulla. Se la persona ha problemi, ha paura del buio, della malattia sono fatti suoi. L’amore diventa possesso, che nega la libertà sacrosanta dell’altro. Amare significa desiderare il meglio per l’altro. L’altro in teoria dovrebbe essere lasciato libero invece lo leghiamo a noi con imbrogli e ricatti. Dovremo essere sicuri che l’altro vive per noi, invece vacilliamo. Temiamo l’inganno perché dentro di noi un covo di vipere si agitano. Siamo confusi, non sappiamo chi amare, amiamo una persona e sposiamo un’altra per interesse. Usciamo con una persona a cui facciamo tenere promesse e poi andiamo a letto con un’altra con una disinvoltura pazzesca. Il fondo si tocca quando facciamo soffrire l’altro in modo disumano, facendo a brandelli la sua personalità. Donne tradite, disperate che cercano di dimagrire per riconquistare il marito, uomini ridotti a fantocci, messi in ridicolo, disposti a tutto, comandati a bacchetta da donne forti e tenaci. Le degenerazioni dell’amore provocano solo sofferenza e dolore atroce. Chi ha buon senso evita di innamorarsi per non soffrire più, e si costruisce la sua corazza protettiva chiudendosi in una torre d’avorio inaccessibile. Si accettano magari storie senza senso per non farsi rubare il cuore. Si concede il corpo ma si blocca il cuore. Mentre gli adolescenti spesso fanno l’esatto contrario: cedono il cuore ma non sanno dare il corpo, anche per inesperienza. Se da giovani siamo disposti a dare sfogo al sentimento, successivamente ci teniamo ben stretto il cuore. L’amore può diventare vendetta e allora si affilano le armi e si uccide il rivale o l’altro. Chi è stato ferito in amore tende a ferire. Attacca per paura di essere braccato. L’amore può diventare gioco pazzo che rende felici, ebbri. Si può fingere di provare qualcosa per far cadere l’altro nella trappola e vederlo strisciare ai nostri piedi, non presentarsi agli appuntamenti, ecc. In questi giochi sovente vediamo l’altro umiliarsi, bussare disperato alla nostra porta mentre noi chiusi, al sicuro, non proviamo niente. L’arma migliore per combattere i sentimenti è l’indifferenza. Indifferenti vediamo l’altro accanirsi con noi, rompersi la testa. Nell’amore è vero che vince chi fugge. In alcuni casi si sfrutta l’altro per i nostri comodi e poi lo gettiamo via senza rimorso. Se ci lasciamo dominare dall’indifferenza non proviamo più nulla e questo potrebbe essere un vantaggio. Siamo in questo modo superiori al sentimento, abbiamo superato il trauma, siamo immuni dall’innamoramento, nelle vene abbiamo iniettato il siero della dimenticanza, abbiamo i nervi d’acciaio. Dominare gli impulsi d’amore può essere una sensazione stupenda, ci impedisce alla lunga di soffrire. Giovanni aveva conosciuto l’amore in una forma distorta. Era convinto di aver riposto il suo amore in un padre che non lo meritava. Suo padre per il suo comportamento meritava disprezzo e forse odio. Suo padre ormai non aveva nessun diritto di rimproverarlo, di interferire nella sua vita. Gli aveva voltato le spalle, aveva riposto il suo amore fuori dalle pareti domestiche. Lui voleva solo divertirsi, stordirsi, fare ciò che voleva e il padre doveva tacere, non aveva la coscienza pulita. Al genitore ormai chiedeva soldi per i suoi divertimenti. Del resto Vincenzo spendeva soldi per quella donna ed era giusto che anche suo figlio avesse del denaro a disposizione. Lui era l’erede, il primogenito. Giovanni voleva che la sua sofferenza morale, lo smacco subito venisse pagato a peso d’oro, con denaro contante da spendere in giochi e dolci. La venuta del fratello Marco la considerò una sorta di intrusione. Era un potenziale rivale da tenere a bada. Usurpava l’affetto dei genitori e di suo padre che sembrava stravedere per lui. Cominciò sin dai primi anni a nutrire gelosia nei suoi confronti e ricorreva a tutti gli espedienti possibili per metterlo in cattiva luce agli occhi dei genitori. Da piccolo si limitò a fare dei dispetti, a sottrarre giocattoli. Dopo il gioco si fece più crudele. Il piccolo Marco era intelligente, geniale, acuto, e con i suoi occhi penetranti si faceva perdonare tutto. A scuola era un genio. Giovanni si sentiva oscurato. Per Marco invece il fratello era un modello da imitare, un punto di riferimento costante, una pietra miliare. Giovanni si sentiva inferiore, ridicolo sul piano intellettivo e quindi cercava sempre di sminuire il fratello. Tutto quello che lui faceva non lo considerava, passava sotto silenzio. Marco era venuto al mondo in punta di piedi, quasi in silenzio, senza clamori, come una persona inutile e piano piano aveva preso quota. Marco aveva però un carattere diverso dal fratello. Era sensibile, onesto, tranquillo e quindi forse proprio per questo, condannato, per la sua stessa natura, a una vita scialba, monotona. Non mostrava interesse per la bellezza, per la ricchezza, si limitava a interiorizzare e analizzare tutto. Era un introverso dall’animo poetico, ma fragile emotivamente, facilmente influenzabile. Tuttavia aveva una apertura mentale tipica delle persone colte. Infatti passava la maggior parte del tempo in biblioteca fra libri e tomi antichi. Era chiuso, timido non voleva uscire dal suo guscio. Con il passare del tempo si era sempre più chiuso in se stesso, rinunciava a qualsiasi contatto con l’esterno, diventando scontroso, abitudinario, inquieto e strano. Era un profondo conoscitore dell’animo umano, inquadrava subito le cose, intuiva la verità, aveva una spiccata capacità di giudizio, era analitico, pignolo, astuto. La sua precisione era maniacale. Era metodico e giudizioso, ma mancava di coraggio e d’orgoglio. Non aveva molta capacità di imporsi e in alcuni casi soccombeva vinto dal fratello. In altre parole faceva tutto quello che gli suggeriva il fratello, fiducioso, senza ribellarsi. Prendeva per oro colato le sue posizioni e si schierava sempre dalla sua parte anche se il torto era evidente. Era educato, sottomesso, paziente. Era passato dall’autorità paterna a quella del fratello grande che venerava. Era pronto e disponibile a qualsiasi sacrificio per il bene del fratello, capace di rimboccarsi le maniche senza fare storie. Subiva silenzioso gli scatti del fratello e i suoi maltrattamenti sia verbali che fisici. Giovanni talvolta lo insultava, lo prendeva in giro per i suoi modi, lo considerava una nullità. Qualche volta lo picchiava per futili e banali motivi. Marco si limitava in certi casi a non uscire per qualche giorno con gli occhi rossi di pianto e poi tornava tutto come prima. Aveva bisogno dell’allegria spavalda del fratello. La sua salute fragile lo esponeva a varie forme di virus e influenze. Per Marco non contava la considerazione degli altri, il loro giudizio, la loro stima o il loro biasimo. Lui raccontava tutto con naturalezza e questo irritava molto suo padre. Vincenzo per pura ignoranza lo trattava con sufficienza, non sapendo di ferire quell’anima innocente. Marco non sopportava il paese dove viveva, quell’ambiente rozzo, fatto di gente maleducata, pettegola, bassa e viziosa. Giovanni invece ne aveva assorbito tutti gli umori ed era gaudente e spaccone, pettegolo e frivolo. Era stato plasmato da quel luogo e non poteva cambiare dall’oggi a domani. La mentalità paesana era feroce, pesante come un’aria densa di fumo. Le donne per quella mentalità dovevano lavorare, stirare e cucinare e fare figli maschi. Non contavano le loro opinioni, le loro aspirazioni. La moglie doveva solo salvaguardare il focolare domestico, non doveva uscire spesso ma accudire alle faccende quotidiane. Dovevano parlare poco e decidere ancora meno. Marta stessa si era lasciata sopraffare da questa mentalità. Non usciva quasi mai, si lasciava andare apparendo alcune volte persino trasandata. Per non sentire i rimproveri del marito si chiudeva nella sua stanza. Vincenzo si lamentava spesso del suo carattere. Si mostrava con lei razionale e arido. Il matrimonio lui lo concepiva come una sistemazione, un contratto, una garanzia per il futuro. L’incontro di Marco con la ricchezza della sua famiglia fu traumatico. Gli interessi economici non avevano mai occupato la sua mente sognatrice. Scriveva versi poetici con estrema disinvoltura. Era un bimbo privo di spina dorsale agli occhi del padre. Vincenzo soffriva per il suo carattere ombroso e taciturno. Se la malinconia è la strada della poesia non è certo adatta per una vita gaudente. Giovanni aveva la priorità su tutto perché aveva imparato a gestire il denaro, Marco si accontentava delle briciole. Viveva con la paura di scegliere e lo faceva fare al fratello. Insicuro dentro di sé si considerava un relitto, uno scarto incapace di imitare il fratello. Crescendo il cupo mutismo di Marco si accentuò. Con la sua sensibilità aveva percepito che qualcosa non andava. Per questo non parlava e si mostrava poco socievole. Evitava volutamente i giochi di gruppo. Di fronte alla difficoltà familiari i due fratelli avevano reagito in modo diametralmente opposto. Giovanni si era mostrato forte e vigoroso, insensibile Marco aveva interiorizzato tutto e aveva accentuato la sua cupa vena malinconica. Con il tempo Giovanni si era creato, dato il suo carattere estroverso e disinvolto, le sue amicizie dove tendeva ad estromettere il fratello o a tenerlo a bada. Marco spesso era visto come un guastafeste. Giovanni era in fondo possessivo, geloso e voleva l’affetto tutto per sé mentre l’altro con la sua timidezza, con il suo comportamento distaccato non si faceva ben volere. Non si metteva in mostra, si tirava indietro e tutti lo liquidavano in modo sbrigativo. Era imbranato, introverso, lento, pesante. All’asilo lo prendevano in giro per la sua eccessiva timidezza e lo scartavano dai loro giochi. Lo allontanavano come avesse la lebbra spesso con parole sconvenienti. Gli sputavano addosso, gli strappavano i capelli, si divertivano alle sue spalle. Più era indifeso e più infierivano con insulti e parole oscene. Senza pietà lo massacravano di botte, sapendo della sua debolezza, rompevano i suoi disegni. Le bambine erano persino più spietate, più perfide con i loro sorrisi ironici. Lo facevano sentire diverso, un piccolo mostro. Eppure nel suo cuore lui sapeva di essere puro, di non avere nulla di sbagliato. Si sentiva in pace con se stesso. Non aveva mai fatto del male a nessuno e questo era quello che contava. Crebbe però il suo irrigidimento nei confronti del mondo esterno. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando una coppia di fidanzati passando gli tirò dei grossi sassi con aria ironica. Lui, Marco, avrebbe voluto gridare e dire con tutto il fiato che aveva nei polmoni che era innocente. Invece lo deridevano per il suo corpo gracile, per le sue gambe simili a quelle di una bimba. In alcune circostanze avrebbe voluto sprofondare, sparire, essere magari un fiore, il vento, un animale. Suo padre non si accorgeva minimante delle battaglie che avvenivano nel chiuso del suo cuore. Non esternava le sue emozioni. Suo padre era troppo impegnato a vivere la sua vita come un film per occuparsi seriamente di lui. Sua madre era lontana, soffriva in silenzio come tutte le donne tradite. Marco subiva in silenzio i dispetti del fratello maldestro, le risatine ironiche, le frecciatine avvelenate dei coetanei che alludevano al suo aspetto fragile. A scuola era attento, scrupoloso, aveva voti altissimi. E anche questo paradossalmente faceva imbestialire i suoi compagni di classe e di giochi. Per invidia lo deridevano. In realtà lo studio era l’unico modo che aveva per riscattarsi, per dimostrare il suo valore. Solo nel campo della poesia poteva emergere. Nel fare i compiti era agile, veloce e per questo molti colleghi lo cercavano, per poi abbandonarlo subito dopo. Lo studio divenne per lui fondamentale, attraverso di esso cresceva la sua conoscenza, si ampliavano i suoi orizzonti, la fantasia poteva lavorare a suo piacimento, poteva realizzare i suoi sogni, poteva immaginare paesi lontani descritti nella geografia, poteva ripercorrere antiche epoche storiche e immaginare come sarebbe vissuto in quel periodo, poteva comprendere il funzionamento del proprio corpo. Leggeva libri di ogni materia, di ogni epoca, che gli consentivano di spaziare da un settore all’altro senza annoiarsi. Leggendo manteneva un contatto con la realtà pur estraniandosi da essa per ore. Crebbe a dismisura la sua solitudine, nessuno lo capiva. Nessuno sopportava la sua malinconia. Era un compagno scomodo. Si lamentava di essere solo e poi ricercava la solitudine per rifugiarsi tra le sue calde braccia. Viveva in modo introspettivo tutti gli accadimenti personali e sociali, creandosi una campana di vetro attraverso la quale scrutava il mondo fuori. Non sceglieva, rimaneva nel limbo della non azione. Preferiva passare il tempo a leggere piuttosto che passeggiare nelle strade dove avrebbe potuto incontrare gente pronta a chiamarlo femminuccia per la sua aria gracile. Spesso la scambiavano, non volendo, per una bambina, a causa del suo volto liscio, delle gambette snelle, e della voce leggera come un sussurro, dei suoi capelli un po’ lunghi. La sua anima era pura e sincera e questo contava per lui. Anima che si educava e raffinava sempre di più con lo studio. Un giorno forse qualcuno avrebbe apprezzato la sua straordinaria interiorità. Lui non sapeva, ingenuo come era, che anche le anime più pure con il tempo si macchiano, non sono più cristalline. Ogni giorno si scende a patti con la coscienza alla ricerca di un compromesso vantaggioso. Troppe cose il giovane Marco ignorava. Era ingenuo e purtroppo fiero di esserlo. Di fronte alla crudeltà del mondo era onesto, pulito, libero. A scuola aiutava anche qualche persona in difficoltà, per lo più alunni timidi come lui, non si tirava indietro. A scuola aiutava persone in difficoltà, che avevano problemi di inserimento sociale. Marco mostrava uno strano attaccamento verso persone sole e con problemi. Si sentiva come investito da una missione, anche se nessuno gli aveva ordinato di impegnarsi. In realtà Marco si identificava in loro, li considerava affini a lui. Anche lui viveva le stesse esclusioni, le stesse angosce. Era sulla stessa barca e loro erano compagni di sventura, naufraghi in un mondo ostile che non li comprendeva. Vivere in quella realtà malata non gli faceva bene. Avrebbe avuto bisogno di una iniezione di fiducia. Intorno a lui ci doveva essere allegria, spensieratezza, suo fratello era vispo ma spesso si incupiva inseguendo strani pensieri. Per lui non c’era uno svago, un divertimento puro e libero. Il suo divertimento era sempre velato da un’ombra di tristezza nascosta che gli pesava sul cuore. Con il tempo conobbe la austera severità di suo padre, che gli impediva spesso di fare quello che più desiderava e che lo rimproverava aspramente. Alcune volte era terrorizzato dall’idea di dover chiedere qualcosa a suo padre. Il lavorio continuo della sua fervida fantasia veniva bloccato dalla parole dure del genitore. Il padre lo amava nel profondo ma non sopportava il suo animo poetico, poco incline alla praticità. Marco non si sentiva a disagio solo con i libri. Di solito viveva immerso sempre fra crucci e problemi. Per la strada molti si giravano a guardarlo per quell’aria malinconica che aveva e quel viso di bimba. Spesso lo guardavano diritto negli occhi con aria canzonatoria. Evitava così di incontrare le persone. Spesso quando vedeva qualcuno spuntare da lontano, qualcuno che poteva turbare la sua pace, cambiava strada. Alcune volte preferiva camminare in zone poco frequentate. Passava per vicoli e stradine secondarie dove era più facile passare inosservato. Cambiava strada anche con conoscenti, in quanto anche loro erano ironici e pungenti come gli altri, facevano battute salaci che gli trafiggevano il cuore come una spada. Gli altri gli fornivano la certezza che lui era un essere inutile, privo di valore. Appariva timido e insicuro e questo non giovava. Viveva una vita per così dire blindata. Non entrava nei negozi per paura di essere osservato, non andava alle feste paesane per evitare bagni di folla. Stava bene forse solo con se stesso. Gli altri rappresentavano un pericolo, un ostacolo. Si doveva difendere dagli assalti del male, ma non essendo in grado di reagire, preferiva evitare, fuggire. Soccombere, venire umiliato non gli piaceva. Era nell’animo invece orgoglioso di sé, sapeva di avere qualità rare, di essere onesto, di avere una mente lucida, una memoria di ferro, una intelligenza vivace, una vena poetica spiccata, educazione perfetta. Si distingueva dagli altri e forse per questo non piaceva. Non si uniformava alla massa, come faceva suo fratello. Non era meschino, falso, perfido, bugiardo. Era e voleva essere una persona normale, con pregi e difetti, come ce ne sono tante. Invece richiamava l’attenzione, come un fenomeno da circo, si rideva di lui. Più desiderava l’anonimato più veniva bersagliato, a scuola e nei vari ambienti. Persino i parenti sembravano vergognarsi di lui, anche se con loro non aveva molti rapporti. Nel profondo del suo cuore aspirava a una riconciliazione, ma non faceva il primo passo. Restava inattivo, inerte, in attesa degli eventi. I cugini nei giochi infantili lo evitavano come se avesse la lebbra. I parenti più ricchi erano quelli più sprezzanti. Aveva composto poesie che leggeva a Natale e che nessuno considerava. Lo ignoravano come se non esisteva. Sognava di cambiare il mondo, di mutare i rapporti umani, di abbattere le barriere sociali. Sognava la fine dei conflitti, delle guerre e immaginava che alla fine, per qualche strano gioco del destino, regnava la pace assoluta nel mondo. Nei giochi i bambini lo respingevano perché non era aggressivo, battagliero. Sembrava un insetto repellente, allora sognava di essere accettato, stimato. C’era un bimbo nel paese gracile come lui, mingherlino ma non era oggetto di violenze, perché era autoritario e prepotente. Le decisioni le respingeva perché toglievano spensieratezza ai suoi giorni, fatti di libri e poesie. Non faceva progetti per il futuro, voleva prolungare l’infanzia e l’adolescenza all’infinito. Il futuro era un cappa di piombo sulla sua testa. Giovanni invece sperava di crescere, desiderava ardentemente uscire dall’infanzia e dall’adolescenza per avere più capacità di gestione, più autonomia. Voleva spiccare il volo, il futuro non lo vedeva oscuro. Era euforico se pensava alla gioventù che lo attendeva. Era fanatico, si sentiva superiore a molti, compreso il fratello. Crescere per lui non era faticoso. Studiava solo quel tanto che bastava. In fondo era venerato e stimato dagli amici, poteva fare tutto. Era consapevole del suo fascino e quindi era sicuro di sé. Per la via camminava spedito. Aveva l’aria sfrontata, la faccia sbarazzina. Tutto le donava incredibilmente, dalle giacche di velluto, ai completi. Indossava vestiti eleganti con una disinvoltura perversa. Marco si sentiva discriminato, fuori luogo. Nessuno ragazzino voleva essere veramente suo amico. Lo affrontavano dicendo frasi poco lusinghiere. Ad aggravare il tutto c’era il fatto che lui era poco socievole, molto riservato. Non sapeva fare battute spiritose, parlava solo un linguaggio corretto, privo di turpiloquio. A completare il quadro aveva contribuito la soffocante educazione del padre, che se non c’era quasi mai, si faceva sentire con la sua autorità. Il frutto di questa educazione oppressiva fu un aumento di riservatezza. La riservatezza unita alla rigida educazione generava una miscela esplosiva, micidiale, che nessuno voleva assaggiare per il suo sapore amaro. Scappavano tutti come fosse un appestato. Non suscitava simpatia. Inoltre il piccolo Marco aveva un altro difetto: non sapeva perdonare le offese ricevute, le ingiustizie sociali.Avendo un forte senso della giustizia non sopportava i soprusi, le angherie, le offese. Di fronte all’offesa diventava ombroso, perdeva il sorriso. Era rancoroso, odioso e sognava di ripagare la gente con la stessa moneta. In questo modo si creava anche dei nemici temibili. Se si arrabbiava sul serio si rabbuiava. Giovanni non ne risentiva della educazione rigida del padre, era sempre difeso dalla madre. Crescendo Marco preferiva uscire al tramonto, frequentare posti solitari, portare occhiali scuri per non incontrare gli sguardi indagatori degli altri. Quando doveva comprare qualcosa cercava accuratamente il negozio adatto. Generalmente sceglieva negozi gestiti da coppie di gente anziana e attempata, evitando i negozi muniti di commessi giovani e arroganti. Ovviamente non frequentava comitive, feste gaudenti, case affollate di gente. Quei pochi amici che aveva erano pieni di problemi. Attirava per natura gente emarginata, stressata, stanca della vita. Non riusciva a conoscere una persona normale, forse perché queste non lo consideravano. Per fortuna il lavoro della sua mente continuava incessante. Scriveva, leggeva, componeva racconti e poesie. Scriveva solo per sé, per sfogare con la penna le sue pene, quelle che non osava dire ad anima viva. Alla mania dello scrivere, che lo portava a riempire la sua stanza di scartoffie, si aggiunse quella delle collezioni. Collezionava francobolli, bambole di porcellana, oggetti in miniatura, mobili antichi riempiendo la casa di cianfrusaglie, che sua madre di nascosto cestinava. Si recava nei mercatini per comprare lampade usate e vecchi album di foto in bianco e nero e cartoline illustrate. Con le collezioni si sentiva soddisfatto, appagato. Si era creato una vita tutta sua, alternativa, con ritmi lenti, e scadenze precise, dove tutto si svolgeva senza fretta. In questa vita mancava l’elemento essenziale: il rapporto con gli altri, non era certo solo lui a non volere entrare in contatto con gli altri erano anche loro che lo emarginavano, mostrandosi intolleranti. Lui nel silenzio della sua stanza avrebbe voluto un sereno interlocutore con cui comunicare i suoi stati d’animo, turbamenti, a cui raccontare gli eventi salienti della sua povera esistenza priva di divertimenti folli, di colpi di scena e fatti eclatanti. La sua giornata si svolgeva sempre allo stesso modo, in una squallida routine, un allucinante ripetersi di gesti, parole sempre uguali. Al mattino sua madre si recava a scuola e suo padre in tribunale. Lui era seguito da una governante bisbetica e da un precettore molto ansioso. Suo fratello si recava a scuola con altri ragazzi. Dopo la pausa pranzo passava il pomeriggio a leggere e scrivere, suoi passatempi preferiti. La domenica passava la giornata in biblioteca. Era una vita pianificata, stancante nella sua immobilità. La domenica c’era la messa al mattino con i genitori, che fingevano allegria. L’estate andava al mare al solito posto scelto da suo padre: un paesino vicino Roseto. Fragile come una foglia al vento si lasciava trasportare dalla famiglia, senza ribellarsi, senza grinta. La sua ingenuità lo faceva cadere, specie al mare, preda di teppistelli senza scrupoli e malintenzionati. Non si avventurava da solo in posti nascosti, non era curioso, temeva insidie. Non si fidava fino in fondo neppure di se stesso. Era facilmente influenzabile e nel primo periodo di vita era anche fiducioso e credulone, poco furbo e scaltro. Il mondo, come scoprì presto, era delle persone svelte, senza scrupoli. Per gente intraprendente era facilmente raggirabile. Gli amici al mare erano occasionali e lo lasciavano solo quando loro andavano in esplorazione. Solo le storie dei libri lo elettrizzavano. I libri gli volevano bene, gli facevano compagnia, gli stavano vicino, lo intrattenevano e cullavano, lo proteggevano dai mali del mondo fuori. I libri non lo lasciavano al suo destino. Lui aveva bisogno solo di affetto, di amore autentico, di poter scambiare due parole con qualcuno interessato a lui seriamente. I ragazzi non potevano perdere il loro tempo dietro a lui, avevano bisogno di avventure, di incontri, di stimoli. I discorsi dei ragazzi erano sempre gli stessi: racconti morbosi, sport, auto, apprezzamenti sulle donne. Tali chiacchiere insulse lo annoiavano. Tutto quello che gli era stato inculcato sulla superiorità del suo casato a contatto con la realtà si disintegrava come neve al sole. Tutti i sani principi bigotti apparivano privi di significato. Erano i disonesti e gli sfrontati ad avere la meglio nella vita, non contava il sangue. Marco era un bambino d’altri tempi, silenzioso, buono. C’erano nuove mode, nuovi modelli e tutti seguivano la scia senza tirarsi indietro. Nella vita di Marco c’era bisogno di una rivoluzione. Entrò nella giovinezza con la rabbia e con la voglia matta di distruggere il suo vecchio io. Voleva trasformare il suo carattere, quello che non piaceva a nessuno. Se voleva essere accettato, se voleva avere credibilità doveva cambiare radicalmente stile di vita, modo di vestire e di pensare. Doveva apparire un’altra persona, mutare pelle anche a costo di violentarsi. Il brutto anatroccolo doveva diventare un cigno. Doveva compiere un duro lavoro mentale e organizzare la vita nei minimi dettagli. A Marco mancava l’esperienza diretta delle cose. Aveva conosciuto molta teoria, attraverso i libri, ma non aveva la pratica. Per anni si era limitato a vedere gli altri vivere, aveva fatto da semplice spettatore, senza partecipare vivamente. Aveva visto gli altri divertirsi, viaggiare, ballare, e lui sempre in disparte, nel suo cantuccio. Ora voleva anche lui buttarsi nel mare della vita, solo che non sapeva nuotare e poi il mare di notte può essere estremamente pericoloso. Non sempre fila tutto liscio. La sconfitta comunque Marco non l’aveva messa in conto, non credeva di meritare lo schiaffo del destino. Era sempre stato sconfitto per così dire nella vita e pensava che crescendo fosse venuto il suo momento di gloria, di benessere, di felicità. Pensava di meritare anche lui un po’ di tranquillità. Desiderava una rivincita. Voleva veder realizzati in suoi progetti. Voleva un lavoro dignitoso, una famiglia, il successo delle sue poesie, una casa accogliente non necessariamente grande. Chiedeva soltanto quello che la gente ottiene subito, senza problemi. Perché doveva lottare strenuamente per conquistare uno spazio che gli spettava di diritto? Non era una persona meschina. Il destino si rivelò crudele. Lo vedeva già nelle questioni di ordinaria amministrazione l’avversità del destino. Anche nelle cose spicciole incontrava difficoltà. Spesso si accaniva a far andare tutto per il verso giusto, ci metteva l’anima senza esito. Più si impegnava e più usciva stremato e sconfitto. Sembrava quasi che un genio del male gli facesse i dispetti per il puro piacere di rovinarlo. La gente invece di aiutarlo lo compativa e lo considerava un buono a nulla che sbagliava sempre per distrazione. Si sforzava invece di essere attento e preciso, di non perdere la concentrazione. Pensava di avere problemi cerebrali, di non essere normale, aveva consultato di nascosto degli specialisti. Le analisi avevano dimostrato l’infondatezza delle sue angosce. Viveva come in un incubo, nella continua speranza che accadesse qualcosa di positivo che lo portasse a una svolta. Un giorno accade un fatto tragico che rivoluzionò la vita di tutti. Era un caldo mattino di giugno e Marco aveva deciso di prendere la sua bicicletta. Era spensierato e desideroso di godersi il sole estivo. Sulla strada statale fu travolto da un camioncino color crema. Morì sul colpo senza la possibilità di proferire delle parole, senza possibilità di pensare. La notizia dell’incidente si sparse in tutti i borghi. Nessuno pensava a una tragica fine, in giovane età. Le sue poesie rimasero sulla scrivania per anni ricoperte da uno spesso strato di polvere. A risentirne della mancanza furono soprattutto i genitori. Sua madre si strappò i capelli e pianse per tre giorni di seguito. Suo padre rimase folgorato, gli sembrava di vivere entro una cappa di vetro soffocante. Non era facile rielaborare il lutto. Giovanni cercò scampo fra le braccia degli amici. Fu un momento tenebroso, terribile. La ricchezza non aveva fermato la macchina del destino, che senza guardare in faccia a nessuno, aveva colpito ancora. Con le sue braccia rapaci la morte era penetrata tra le mura austere della loro nobile dimora e aveva mietuto la sua vittima. Aveva colpito il più debole anello della catena familiare. Il destino aveva fatto il suo disastro. Nessuno riusciva più a pensare in modo logico. L’unico che cercò di dominarsi fu il capofamiglia. Giovanni appariva impacciato e confuso. L’unica cosa sensata che voleva fare era fuggire. Voleva scappare, sottrarsi a quella morsa stringente. Imparò a sue spese che non si può mai dire mai e che in tutte le cose c’è sempre la prima volta. Non era più se stesso, aveva perso il dominio di sé, era diventato un automa. Sperava che nessuno si accorgesse della sua emozione. Cercava di mascherare il più possibile il suo turbamento. Marco entrava nei suoi pensieri quando meno se lo aspettava, disturbava il suo sonno rendendolo inquieto. Dopo certi sogni si svegliava allarmato. I sogni erano come una furia travolgente. Cercava di stare occupato tutta la giornata per non pensare. Cominciava a pensare che mentre per molti la vita era una bellissima avventura per altri era una valle malsana di lacrime. Vivere senza scrupoli adottando la tecnica del carpe diem non era sempre facile. Non si era mai posto il problema del futuro, ma ora non sapeva cosa fare. Il futuro era una landa desolata senza acqua né luce, un antro angusto dove non penetrava mai il sole. L’impatto con la morte era stato traumatico. Vedere la bara di legno, i fiori, la banda musicale, i drappi neri era come un incubo, un film dell’horror. Il funerale era stato sontuoso e regale ma non toglieva la morte nel cuore. I dolori, le angosce del cuore erano uguali a quelli di una persona qualsiasi, di una persona del popolo. Il male si scatenava e generava i suoi frutti maligni. Non c’era scampo al dolore che disfaceva il cuore e sfaldava l’anima. Eppure il capofamiglia aveva conservato la compostezza tipica della sua razza. Austero, con il volto tirato non aveva versato nemmeno una lacrima. Di fronte alla morte era apparso dignitoso, spavaldo, incapace di abbassare gli occhi. La morte era solo un incidente di percorso, un inciampo da cui era possibile risollevarsi. Ci si doveva rialzare più forti e vigorosi di prima. L’ultima parola non la doveva pronunciare la morte. La sua razza era immune da qualsiasi tipo di dolore o sbandamento. Il dolore poteva ricomporsi in un atteggiamento distaccato, quasi indifferente. Di fronte alla morte la superbia non cede mai lo scettro. Il dolore nobile non può essere esternato, va tenuto nascosto nei recessi della propria anima. Il funerale era quindi regolato sulle leggi della compostezza assoluta, fra sguardi attenti e mani guantate, velette nere e scarpe verniciate. Tutti erano rigorosamente vestiti di nero, con occhiali scuri firmati e auto lussuose per ostentare il lusso anche nel momento cruciale dell’addio definitivo. La vita del resto sarebbe continuata fra sfarzi e vizi e la morte era solo una parentesi che non avrebbe toccato l’essenziale. La morte non toccava da vicino il proprio patrimonio. Le donne invitate al funerale avevano un viso impassibile, calze di seta nere, gioielli e sciarpe di seta ben in vista. Il volto impassibile di tutti non esprimeva sentimenti, non tradiva emozioni. Sono solo i deboli, gli sprovveduti, i meschini a mostrare le tempeste del cuore. La morte non può mettere la parola fine a una razza eccelsa, importante. Bisogna vivere come se la morte non esistesse, nella convinzione assurda di essere per così dire immortali. Niente può scalfire l’ascesa fulgida di una razza nel mondo. La morte era un comparto della vita splendida e una volta accaduta andava archiviata, relegata nel suo ambito. La morte non doveva invadere, guadagnare terreno. Bastava arginarla, collocarla in un angolo remoto del proprio cervello. La vita scorreva fluida nei suoi meandri fra lusso e brillanti, senza battute d’arresto. L’importante non era tanto essere ricordati, magari anche per una buona azione, ma tramandare il patrimonio intatto. Doveva sopravvivere il buon nome della casata, non tanto il nome del singolo. Quindi era inutile impegnarsi, distinguersi per qualche comportamento degno di nota. Le strade portavano i nomi di eroi, di gente che si era sacrificata per un ideale, non per un ideale di ricchezza. Nessuno della casata sarebbe passato alla storia, dato che, come i politici corrotti, pensavano solo ad arricchirsi lavorando raso terra, senza pensare al riscatto di una elevazione spirituale. Uscire dai binari significava ribellarsi a tutto un sistema di vita, ma nessuno aspirava a tanto, nessuno sapeva come fare. Giovanni stesso alla fine riuscì, grazie al suo orgoglio, a rielaborare il lutto. Non poteva farsi vedere dagli altri abbattuto e smunto. Nella nostra società moderna dobbiamo essere tutti perfetti, sani e l’abbattimento morale e la malattia fisica non devono trasparire in nessun modo. La pubblicità manda le immagini di famiglie sorridenti, allegre, festose e di ragazze graziose e belle. La malattia, l’handicap sono lontani, relegati in una zona d’ombra dove è difficile solo avventurarsi. Guai ad essere grassi, imperfetti, bassi. La perfezione fisica apre le porte del successo, del riconoscimento degli altri, del valore, della stima.

 

Ester Eroli

 

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