Capitolo secondo: l’arrivo di Dario (Romanzo: Isole Perdute – di Ester Eroli)

DSCF0374_miniDario era nato in Calabria, in un caldo pomeriggio di settembre, da una famiglia di scarse risorse finanziarie. Era l’ultimo di quattro figli. Lui era l’unico maschio. Da lui la famiglia si aspettava molto, essendo l’unico erede. Le sue tre sorelle erano tutte graziose, andavano d’accordo fra loro e con la madre. Fra donne di famiglia si crea una complicità notevole, si condividono abiti, trucchi, scarpe, rossetti. Quella solidarietà che non si trova più con le altre donne fuori della famiglia. Ogni donna deve subire lo scacco, le delusioni che le danno le altre donne amiche, conoscenti, parenti. La gelosia che corrode come un potente veleno, che annienta funesta come un polipo con le sue spire. Le sorelle era molto belle e somigliavano a sua madre Anna, donna di grande fascino che aveva letteralmente fatto girare la testa a suo padre Massimo. Dario era invece il ritratto di suo padre: occhi scuri, con lunghe ciglia nere, di media statura, corpulento, con lo sguardo un po’ annebbiato, poco vivace. Sin da piccolo era apparso goffo e grassoccio. Quando nacque pesava più di quattro kg. Era un bimbo grossolano, pesante, che passava il tempo a dormire nella culla. Era venuto al mondo in punta di piedi, senza pianti e clamori. Passava i pomeriggi a dormire, con gli occhi chiusi, con la testa ciondoloni sul petto. Sembrava un bambino nato morto tanto che la madre si era spaventata ed aveva chiesto consiglio al medico. Il medico le aveva consigliato di usare delle gocce per risvegliare l’attenzione del bimbo, sempre addormentato. Sembrava nato già stanco. Non aveva ancora conosciuto i soprusi, gli insulti, le ingiustizie sociali, le lotte di potere e già si disinteressava di tutto, già scrollava le spalle senza speranze. I suoi occhi chiusi erano l’esempio di una reazione istintiva alla luce accecante del giorno, alla voce squillante delle sorelle e dei nonni, al suono dei campanelli e dei giochi. Non aveva tanti giocattoli, ma solo oggetti costruiti artigianalmente dal nonno. Con pazienza l’artigiano aveva confezionato cavallucci a dondolo di legno, bambole di pezza, fischietti tratti dalla corteccia degli alberi, trottole, sonagli, ecc. Già all’età di quattro anni apparve subito come un bambino obeso. Era rubicondo, il suo viso era tondo come una piazza, le guance rosse e grasse. Suo zio, ritornato dal militare dopo un anno di assenza, rimase sconvolto dall’aumento del suo peso corporeo. Crudamente lo offese davanti a tutti, davanti a altri parenti, con parole poco lusinghiere. Il piccolo rimase male, si rifugiò nella sua stanzetta e vi rimase due giorni, senza parlare con anima viva, si chiuse in un mutismo esasperante, fatto di pianti appena accennati e parole incomprensibili. Era confuso, balbettava, arrossiva, sbiancava, si rifugiava tra le braccia accoglienti della madre, l’unica che sembrava accettarlo e capirlo. Suo padre, preso dal lavoro di bracciante agricolo, era distratto, lontano, rincasava la sera tardi spesso ubriaco, e batteva la moglie senza pietà. Le scene violente si svolgevano tutte sotto i suoi occhi sgranati e increduli. No poteva parlare ancora, non sapeva pronunciare le parole ma sapeva già per certo chela vita riservava delle sgradevoli sorprese, che poteva fare male. La sorella di suo padre, avendo un figlio della sua stessa età, faceva continui paragoni con lui, e lui usciva dal confronto sempre sconfitto, perdente. Il cugino per i parenti era migliore di lui, più agile, più intelligente, più bello. E’ vero era magro, con i capelli lisci biondi e gli occhi azzurri, lo sguardo armonioso come un tramonto d’estate. Era vivace, allegro e si faceva voler bene. I suoi modi erano accattivanti, piacevoli anche se con lui era maligno, gli rubava i giocattoli, gli strappava le bambole di pezza, gli distruggeva gli oggetti di legno dandogli fuoco, gli rompeva il triciclo fatto artigianalmente. Suo cugino era una vera peste, ma da grande avrebbe fatto girare la testa, proprio per quell’aria scanzonata, a tutte le fanciulle del paese. Aveva lo sguardo di birba, gli occhi di brace, i modi diabolici e perversi, sensuali e sadici. Le donne amavano gli uomini rudi, bugiardi, che le facevano soffrire. Suo cugino passava da una donna all’altra con una disarmante disinvoltura. Spesso intrecciava più relazioni contemporaneamente, e a tutte inventava scuse. Andava nelle case come fidanzato ufficiale e poi lo si poteva vedere in un altro paese abbracciato a una donna diversa a cui prometteva mari e monti. Faceva anelli di fidanzamento che poi si faceva puntualmente restituire per darlo a un’altra allocca. Le donne cadevano come mosche impazzite in un piatto di mosto, era inebriate dal suo profumo, dal suo fascino misterioso. Era una simpatica canaglia, sempre con il sorriso stampato sulle labbra. Ai funerali del paese mentre Dario era obbligato dalla famiglia ad andare lui non si presentava mai. Anche di fronte alla morte del suo cane Dik era rimasto impassibile. Aveva il cuore duro, di pietra. Una volta era morto un suo amico, coetaneo, di una rara malattia ma lui non aveva partecipato alle esequie con grande meraviglia di tutto il paese. Non si curava delle opinioni altrui, faceva il suo interesse, spietato come un serial killer, metodico. Non conosceva lacrime, pietà, comprensione. Con il padre litigava sempre, per via del fatto che aveva un’amante, e gli amici lo sfottevano, e quando il padre morì con un colpo al cuore lui si vestì totalmente di rosso. Fu un grande affronto, vedere quella macchia rossa spiccare tra la gente vestita sobriamente. Nessuno in questo caso osò fare commenti, era anche vendicativo e insidioso. La gente ormai, imparato a conoscere il soggetto, faceva finta di nulla e nemmeno avvisava le ragazze corteggiate, che cadevano nella sua preziosa rete fatta di belle parole e lusinghe. Se con lui era burbero, scostante con le donne aveva una voce suadente come di zucchero. Dario spesso veniva da lui insultato, criticato, deriso, maltrattato. IL cugino lo accusava, insieme agli altri, di essere ciccione come se fosse colpa sua. La parola con cui lo apostrofava il gruppo era palla di grasso. In realtà il cugino si esprimeva nei suoi confronti con un termine preciso, lo chiamava: Boccia, in riferimento concreto al gioco delle bocce e alla rotondità delle bocce. Spesso gli facevano degli sgambetti per farlo cadere e lo estromettevano dai principali giochi di gruppo. Non poteva giocare a campana, alla corda, anche per la sua enorme mole. Non poteva saltare, correre nei prati, giocare a nascondino. Correre le pesava. Spesso cadeva per terra e si sbucciava i ginocchi fra le risate dei coetanei. Nei pomeriggi assolati, mentre gli altri facevano la siesta sotto un olmo scherzando del più e del meno, lui si rintanava nella sua piccola cameretta spoglia e disadorna come una chiesetta di campagna. La sua famiglia non aveva possibilità e quindi i mobili erano stati costruiti con legno scadente e comprati al mercato dell’usato, da noti rigattieri della zona. La cucina era uno stanzone spoglio, con i travi al posto del tetto, senza caminetto e riscaldamento. Il bagno era una latrina. Posta fuori della casa, dove andavano tutte le persone del circondario compresi i suoi parenti, che pure si sentivano superiori a lui e si davano tante arie. In base a quale criterio si davano tanta importanza? A lui lo guardavano dall’alto in basso come fosse un derelitto, un appestato. Non passava minuto che non gli ricordassero la sua condizione fisica e economica. Loro si sentivano migliori in ogni campo, e anche se fosse stato vero, perché si accanivano con lui misero bimbo indifeso? Non avevano pietà del suo pianto, delle sue lente corse, della sua condizione di obeso, della sua manifesta povertà. Eppure non aveva voluto nascere lui, si aspettava un po’ di collaborazione, di comprensione. Suo cugino partiva con una comitiva nei pomeriggi d’estate in escursione e non lo portava con sé. Faceva feste di compleanno a due passi da casa sua e non lo invitava, lo lasciava indietro, lo abbandonava come si abbandona un sasso liscio troppo simili agli altri sul greto del fiume. Una volta, presa la polmonite, Dario nel delirio della febbre aveva sognato il greto di fiume e lui che tentava disperato di raccogliere più sassi possibili, ma non vi riusciva minimante. L’affanno e l’angoscia l’avevano fatto tremare di fatica e spossatezza. Non riusciva neanche in sogno a concretizzare i suoi sogni, che restavano sospesi nell’aria come tanti punti interrogativi senza risposta. Durante la febbre solo suo padre e sua madre gli avevano fatto i bagni freddi sulla fronte. I parenti si erano visti solo per la solita visita di cortesia e avevano portato biscotti fatti in casa. Invece in quel caso bisognava rimboccarsi le maniche e aiutare. Una volta Dario si era rotto il naso ed era stato costretto a recarsi nel vicino ospedale. Anche in questo casa per tornare a casa avevano dovuto prendere lui e sua madre, dato che suo padre lavorava, un taxi e pagare salato. I parenti avevano tutti le auto ma non avevano mosso un dito. Anzi quando l’avevano visto completamente rimesso erano rimasti male. Ormai era evidente che patteggiavano solo per suo cugino Diego. Lui poteva fare il bello e il cattivo tempo e nessuno diceva nulla. Se lui adottava lo stesso identico comportamento era accusato di essere maleducato. Diego aveva molti avvocati difensori. Lui aveva solo sua madre. Suo padre, sovente, per quieto vivere, difendeva i suoi parenti. Le sorelle erano prese dai lavori di casa, dai fidanzati, dal giardino. Il problema di Dario era che era un carattere molle, dolce, tenero, buono e disponibile, troppo arrendevole. Diego era viziato dalla sua famiglia e lo aggrediva in malo modo. La fragilità di Dario era evidente, come pure la sua timidezza, che non giocavano a suo favore. Veniva voglia di coccolarlo, di proteggerlo. Lui si sentiva tranquillo solo fra le braccia della sua cara madre. Dagli altri si sentiva abbandonato. Le sorelle erano complici fra di loro e si aiutavano, con lui erano gentili e discrete, lo lasciavano giocare e divertirsi ma non muovevano un dito per risolvere la questione con il cugino Diego. Situazione che si sarebbe protratta nella adolescenza e nella giovinezza. In questi periodi importanti della sua vita Dario sarebbe stato escluso come una zecca di cane. Quale divertimento era in serbo per il piccolo Dario? I primi seri problemi cominciarono a sorgere in concreto quando fu mandato all’asilo del paese, dove insegnavano maestre del luogo. Fra le mura domestiche tutto veniva attutito, il mondo fuori era filtrato. L’ingresso all’asilo con i suoi coetanei, fu traumatico. Già davanti alla porta dell’asilo, prima di entrare, quando tutti i bimbi erano raggruppati in attesa dell’apertura dei cancelli, Dario fu insultato per la sua mole e gli fu dato l’appellativo di “grassone”. Era veramente grosso come un gatto gigante pronto però a fare le fusa. Molti ragazzacci lanciavano occhiate verso di lui, e ridacchiavano, si davano di gomito, oppure parlavano fra di loro guardando fisso dalla sua parte con una insistenza immotivata. Non lasciavano la preda come un leone non lascia il suo bottino in pasto agli altri. C’era un accanimento che tradiva assenza assoluta di pietà. Allora tutti i discorsi sulla solidarietà umana che sentiva dal pulpito alla predica in chiesa, la domenica, erano privi di senso. I sacerdoti stessi predicavano bene e razzolavano male. Lui si era confidato con il parroco che aveva spifferato tutto al padre di un ragazzo che lo maltrattava ed era finito tutto in una bolla di sapone con una finta riappacificazione. Il ragazzino in questione continuava a deriderlo, a guardarlo torvo, ad allontanarsi al suo passaggio. I genitori l’avevano protetto, difeso, avevano fatto muro contro di lui, inerme, indifeso come un agnellino al pascolo. Solo un ragazzo con una gamba di legno, che abitava in una frazione vicina, gli parlava in modo affabile. La loro diversità li univa come non mai. Eppure sulla carta dei diritti umani siamo tutti uguali, solo sulla carta. I sacerdoti del doposcuola facevano finta di non capire, di non sentire, per quieto vivere. In fondo molti bimbi dispettosi appartenevano alle migliori famiglie, che davano laute elemosine alla chiesa. Per i soldi si poteva chiudere un occhio, forse anche due. Dario al campetto non andava, non giocava a tennis, a pallone, non faceva nuoto sia per problemi economici sia per problemi fisici. Non riusciva a stare a galla, non sapeva ballare, non sapeva muoversi con rapidità. Nessuna ragazzina alle feste paesane voleva ballare con lui. Lui si appartava e si allontanava con una scusa e si rifugiava in casa a piangere. Non sapeva reagire, rispondere male, prendere il toro per le corna, si lasciava andare lentamente come una persona che si avvelena con le esalazioni del gas. In alcuni casi avrebbe voluto sprofondare, sparire, o per lo meno tornare a casa di corsa. Spesso correva a perdifiato adducendo scuse. Dalla finestra della sua linda cameretta, era semplice ma pulita, osservava gli altri giocare con una punta di invidia. Nel piano di sopra si trovavano solo due camere a cui si accedeva attraverso una scala traballante. Le sorelle alcune dormivano sul ballatoio, altre in corridoio. In alcuni casi Dario rimaneva come di marmo, non si muoveva, impallidiva solo visibilmente. La sofferenza gli stringeva lo stomaco come in una morsa. Il suo punto debole ormai era divenuto lo stomaco, che si contraeva, che dolorava per lo spasimo. Somatizzava tutto a livello dello stomaco, che appariva subito compromesso. Frequenti erano le gastriti, le ulcere nervose. Anche lui avrebbe voluto spifferare tutto a uno psicologo su un lettino di analisi, ma non aveva la possibilità. La sua era una famiglia povera, che non poteva permettersi nemmeno un gelato, figuriamoci una visita specialistica costosa. La solidarietà era una parola inconcludente, falsa, meschina. La fratellanza esisteva sulla carta. I problemi allo stomaco cominciati in tenera età lo accompagnarono per tutta la vita. Nell’asilo capitò alla sezione peggiore, denominata la giraffa, per via dell’iniziale del suo cognome, dove c’erano veri e propri discoli che lo tormentavano facendogli scherzi di pessimo gusto. Il primo giorno di asilo fu lungo, interminabile, soffocante e gli procurò un forte mal di testa. Voleva sua madre mentre piangeva a dirotto. La prossima volta sarebbe entrato con lei. Non vedeva l’ora di tornare a casa. Voleva il nido caldo e protettivo delle braccia di sua madre e di nessun altro. Neppure suo padre lo capiva, spesso lo rimproverava aspramente, lo umiliava davanti a tutti con modi bruschi. Davanti ai parenti suo padre si sentiva spalleggiato e autorizzato quasi a infierire su di lui. Suo padre lo paragonava a Diego e diceva che era meglio di lui senza ombra di dubbio. In seno gli serpeggiava il senso di inferiorità che forse non l’avrebbe più abbandonato. Quel senso latente di impotenza, di inutilità che lo facevano sentire una perfetta nullità. Suo padre lo umiliava, gli infliggeva punizioni, lo malmenava. Era un uomo austero, rigido, serio che pretendeva la massima perfezione. Infatti accortosi del fatto che lui era mancino non aveva esitato a legargli la mano obbligandolo a scrivere con la mano destra. Mano che poi gli dolorava dopo ore di lunga pratica sulle pagine dei quaderni. La mano sinistra piccola e grassoccia veniva legata con una spessa corda chiara a una sedia. Doveva scrivere solo con la destra e se sbagliava veniva punito duramente anche con ceffoni in pieno viso. All’asilo dopo il primo girono traumatico, ne seguirono altri duri e faticosi. I compagni di corso gli rubavano le monetine e le palline per giocare, gli sottraevano l’asciugamano, gli sputavano addosso, gli rompevano i disegni fatti e i pochi giocattoli che portava con sé. I lavorini che svolgeva durante la giornata venivano distrutti appena girava gli occhi. Lavori fatti con la sabbia, con la cera, con i pennarelli, con gli acquarelli, con la creta venivano disintegrati, gettati nella spazzatura, rovinati con unghiate rapaci come quelle di una perfida aquila. Un giorno riuscì a fare stare sua madre all’interno, tutto il giorno con sé ma fu una eccezione. Sua madre aveva raccontato le angherie alle insegnanti ma queste per quieto vivere avevano fatto finta di nulla, non si erano immischiate. Non volevano creare un precedente, volevano che tutto scorresse serenamente senza intoppi, senza strappi. Quel bambino problematico doveva abituarsi agli altri. Dario invece cresceva come un orso, scuro e ombroso con tutti, scostante. Si allontanava per non essere ferito. Del resto quando vide che anche suo padre lo osteggiava, prediligeva Diego, gli legava le mani e i polsi come si fa con un animale, perse le speranze di riconquistare il mondo. Suo padre stesso lo rimproverava davanti agli altri, era severo, duro, pretendeva il massimo, gli voltava le spalle lasciandolo a se stesso come si lascia andare un fulard al vento. Nei giorni d’asilo successivi fu percosso da alcuni compagni di classe e un giorno gli rubarono persino la merenda. Passò la giornata in un cantuccio, con lo stomaco contratto per i morsi della fame. Tornò a casa stravolto, sfinito, affamato, spettinato, con un labbro gonfio e livido. Non sapeva reagire, subiva tutto senza ribellarsi, rassegnato. Pianse tutta la notte e l’indomani non andò a scuola a causa degli occhi gonfi. La madre era l’unico rifugio, fuori c’era solo un mondo vuoto, insensibile, disumano, ostile. Veniva però accusato di essere uno smidollato, un mammone. All’asilo fu persino malmenato da alcuni ragazzini delle classi superiori che si atteggiavano a bulli. Il suo difetto fisico suscitava ilarità, scatenava ribrezzo, pietà, qualche volta distacco, indifferenza. Era la diversità che da sola faceva scandalo. Veniva escluso senza aver fatto nulla da balli, giochi, giochi di gruppo e nessuno voleva essere suo amico, per non andare incontro a ostilità e rappresaglie. Tentò a più riprese qualche aggancio con bambini della sua classe ma tutti gli voltavano clamorosamente le spalle. Si sentiva terribilmente solo e indifeso. Cercava di intromettersi nei giochi, nei discorsi ma veniva sempre respinto come fosse stato un insetto repellente. Nel gioco del pallone non era abile perché non poteva correre liberamente e quindi non era ben accetto. La sua presenza in certi contesti veniva accolta con noia e disprezzo. Alcuni addirittura apertamente sbuffavano quando lo vedevano comparire e lui allora sconfitto tornava su i suoi passi a testa bassa, scappava, si andava a nascondere. Solitamente trovava rifugio in un angolo del giardino dell’asilo e lì colloquiava con fiori, piante e con gatti di passaggio. Si sentiva in sintonia solo con la natura e gli animali. A casa adottò un piccolo cucciolo di gatto bianco che si affezionò molto a lui, seguendolo ovunque. Una volta in chiesa, durante una funzione religiosa, a cui lui era accorso tutto vestito a festa aveva sentito il prete dall’altare pronunciare una frase: signori c’è un gatto in questa chiesa! Subito era diventato rosso e aveva capito che si trattava di Puffy. Un’altra volta, durante una gara di ballo in occasione della festa del patrono, aveva sentito una coppia imprecare contro un gatto bianco che li aveva fatti inciampare. Era Puffy che ‘aveva seguito fino al bordo della pista da ballo, per stargli vicino come un fratello, come un inseparabile amico. Il gatto era un amico sincero e affettuoso, fidato. Spesso trovava comprensione nell’abbraccio con il felino che sembrava ricambiare il suo affetto e la sua dedizione. Il gatto lo riempiva di coccole, lo guardava con occhi dolci e sensuali, imploranti affetto come quelli di un essere umano. Il gatto sembrava raccogliere i suoi sfoghi, le sue amarezze, lo consolava come poteva. Il suo miagolio era più eloquente di mille parole. Dormiva ai suoi piedi nelle sere d’inverno, faceva colazione contemporaneamente a lui, trotterellava al suo fianco, gli correva incontro quando rincasava la sera, gli saltava addosso felice, gli strofinava il muso sulle gambe, gli faceva le fusa nel silenzio della sua stanza. Un giorno mentre entrava all’asilo da solo, in ritardo a causa di un temporale, che lo aveva trattenuto lungo la strada, era stato investito da una frase detta alle spalle. Chi l’aveva pronunciata era un ragazzo snello, agile, monello, con sguardo furbo completamente abbracciato a una ragazza provocante e disinibita. La ragazza aveva la minigonna, la gomma da masticare, i tacchi alti e la camicetta velata. Era una frase diretta a lui, visto che era il solo passante in quel momento e che risuonava nelle sue orecchie come una schioppettata: bombolotto. Il ragazzo sfrontato e maleducato aveva trovato una sola parola per definirlo: bombolotto. Era entrato in classe mogio, bagnato, in punta di piedi, demoralizzato. Era uno dei tanti episodi che si portava dentro e che non aveva mai raccontato ad anima viva per la vergogna, nemmeno a sua madre. Spesso per strada alcuni ragazzi avevano paragonato i suoi polpacci, parlando a voce alta, a uno zampone di Natale. Alcuni l’avevano apostrofato con la parola botte. Le parole rivolte alla sua persona erano sempre le stesse: palla, botte, boccia, rotonda, ecc. Era piccolo, aveva appena cinque anni, e già aveva conosciuto la cattiveria, la perfidia del mondo, dei parenti. La solitudine era diventata la sua compagna inseparabile. Giocava solo, passeggiava solo, rideva e piangeva solo. Questa chiusura, questo isolamento lo fece diventare silenzioso, riflessivo. Tutto il tempo che era solo lo impiegava per far lavorare la fantasia e l’immaginazione. Rielaborava idee, ripensava progetti, concetti, idee, rifletteva su situazioni. Questo continuo lavorio mentale spesso gli procurava un grande mal di testa. Sognava un riscatto, pensava che in futuro le cose cambiassero. Voleva vedere la sua sorte capovolgersi come per miracolo. Nel futuro si immaginava fisicamente perfetto, dimagrito, ben vestito, circondato da donne adoranti, vincente sul lavoro. Sognava a occhi aperti una realtà diversa fatta di progressioni, di vantaggi non di sconfitte e delusioni cocenti. Forse un giorno sarebbe riuscito a farsi accettare senza mezzi termini. Forse nessuno l’avrebbe mai amato veramente. Non voleva essere adorato, ma almeno capito, preso in considerazione, ascoltato, apprezzato. Invece era ignorato. L’indifferenza degli altri uccideva più di una lama affilata nel petto. Gli insulti erano amari, gli avvelenavano le ore, i giorni, anche quelli di sole, anche quelli di tarda primavera. Nei momenti di riposo, di relax ripensava a quelle parole dure, pronunciate da persone insensibili, fredde e allora sentiva veramente freddo. Si rannicchiava in un angolo del salotto della sua modesta casa, e piangeva, per meglio dire singhiozzava forte, sospirava. Quasi tutti i giorni trovava motivo per piangere e disperarsi, come un agnellino portato al macello. Era quasi sempre triste e malinconico. Mentre gli altri bambini saltavano, correvano allegri, facevano footing, facevano sport con le tute da ginnastica ben calzate, lui si tirava indietro, non osava indossare la tuta che gli evidenziava la pancia e i fianchi pieni. Timido si chiudeva in se stesso, si raggomitolava come un gatto vicino al fuoco. Preferiva fare sport da solo, in qualche angolo sperduto di un prato, in luoghi appartati, lontano comunque da occhi indiscreti e indagatori. Fino a quando si sarebbe nascosto? Si vergognava a farsi vedere con la tuta da ginnastica aderente che evidenziava il suo corpo sgraziato, grossolano, mal fatto. Era troppo in carne, questo doveva riconoscerlo. Lo specchio rifletteva una immagine tarchiata e goffa, priva di stile e eleganza. Le gambe erano ricoperte di grasso specie all’altezza delle ginocchia, il viso era tondo come il muso di un maiale pasciuto, le mani grassocce come quelle di alcuni anziani del paese. Quando doveva fare ginnastica a scuola con i compagni si sentiva la morte nel cuore e la notte precedente non dormiva o stentava a prendere sonno. La mattina era apatico, flemmatico, stanco, trascinava le gambe. Andava a scuola di malavoglia, come malvolentieri andava al mare. Di solito al mare si annoiava perché stava per tutto il tempo seduto su una sedia a sdraio leggendo, fingendo di leggere libri gialli, guardando figurine, vecchie foto ingiallite dal tempo. Non si muoveva mai per paura di essere osservato e deriso. Non faceva mai il bagno, passeggiate sulla riva, non partecipava a giochi di gruppo, alla costruzione metodica di castelli di sabbia, alla raccolta di conchiglie, a tutto quello che si poteva fare sulla spiaggia. Si buttava in un angolo come un sacco di patate, in attesa degli eventi. Nessuno riusciva a convincerlo a muoversi. Non faceva gite in motoscafo, in barca. Del resto non aveva soldi per i biglietti e per pagarsi i gelati al bar. Limitava le spese per non sentire i feroci rimproveri di suo padre. Faceva molte cose sotto pressione, a collo storto, che gli pesavano oltre misura. Perdeva ogni giorno il gusto della vita. Poche cose gli erano gradite. Amava il cioccolato fuso, le patate fritte, il salame, le salsicce ma per ovvie ragioni doveva limitarne l’uso. Le incombenze, i compiti a casa, le visite mediche erano sgradevoli. Non assaporava il gusto della felicità che doveva avere il sapore del cocco, della vaniglia, dei pistacchi, della liquirizia, della pizza tutte ghiottonerie che si poteva concedere raramente. Mangiava poco, non toccava dolci, merendine, limitava i condimenti ma era sempre gigante. Tanto valeva mangiare a crepapelle, le rinunce non miglioravano il suo aspetto. Dalla dieta ristretta non trovava giovamento. Non poteva mangiare torte, torte pasquali al formaggio, mandorle, noci, olive, cioccolato bianco più grasso, bignè con la crema. Non poteva nuotare in mare aperto, giocare a pallone, correre nei prati con un panino al salame in bocca. All’asilo il colpo di grazie venne per i festeggiamenti di carnevale. Era stato accompagnato all’asilo da sua madre senza alcun abito da maschera, mentre tutti gli altri erano vestiti con abiti carnevaleschi della tradizione. Lui aveva avuto la febbre quindi non poteva permettersi un abito leggero da maschera e poi i soldi non c’erano per comprare o affittare semplicemente una maschera. C’erano in verità dei bambini senza maschera che avevano accettato di buon grado di rimanere a giocare con tutti gli altri senza pregiudizi. Il suo carattere orgoglioso si rivelò subito sin dai primi anni. Davanti a molti bambini vestiti da arlecchino, da Zorro, da pulcinella, lui si mise a urlare, a strepitare per la vergogna e volle essere ricondotto a casa. Nessuno riuscì a calmarlo nemmeno sua madre. Era una furia. La maestra rimase sconcertata. Si sentiva diverso, inferiore, privato dell’abito da maschera che la maggior parte aveva. Lui temeva il giudizio altrui. Rinunciava a partecipare mentre altri bimbi, più umili e pazienti, anche senza maschera, erano rimasti per godersi la festa e mangiare dolci. A lui non era consentito mangiare molte frappe e castagnole con lo zucchero a velo. Quel giorno di carnevale preferì ritirarsi in bell’ordine nei suoi appartamenti, per soffrire in silenzio della mancanza di un abito decente. L’anno successivo sua madre pazientemente gli cucì un abito semplice, con poche lire, per non incorrere nelle ire del marito taccagno. Era un abito da mago con tanto di cappello a falde larghe e panciotto nero, con un mantello di raso rigorosamente nero. Il naso finto era adunco, le scarpe con fibbie dorate erano a punta, lunghe e leggermente ricamate. Aveva con sé un fulard al collo rosso di seta, un mazzo di tarocchi, una sfera di cristallo. Voleva veramente essere un mago per trasformare quel suo pancione informe in un pancino leggero e sfianco. Quando si recava mascherato alla festa in piazza per il martedì grasso, accompagnato dai familiari, era impacciato, incerto. Suo padre lo guardava con un certo disprezzo, probabilmente nella sua rigidità non concepiva simili travestimenti. Lui non si sarebbe mai mascherato. Si vedeva chiaramente quando lo accompagnava in piazza che si vergognava, che era imbarazzato per la sua mascherata. Al mare non si recava mai e se ci andava rimaneva vestito senza indossare il costume. Considerava negativamente i riti da spiaggia e le donne che prendevano il sole sulle scogliere arroventate dal sole. Si metteva sulla spiaggia con pantaloni lunghi e maglietta a mezze maniche. Al massimo indossava canottiera e pantaloncini a mezza coscia. La sua riservatezza, la sua chiusura e rigidità era manifesta, soffocante. Non c’era spazio per uno scherzo, per un sorriso, per un buffetto leggero sulla guancia. Era inquadrato nella sua rigidità mentale, austero come un monumento antico, ingessato nel suo ruolo di padre dittatore, autentico padrone della vita dei suoi cari. Ascoltava tutte le conversazioni salottiere della moglie e poi la rimproverava per qualche parola di troppo, per un commento banale, per un pettegolezzo a fior di labbra. Con suo padre era meglio, in via precauzionale, non parlare o parlare lo stretto necessario e fingere di non sapere nulla di nessuno. Se avesse potuto quel vestito da mago probabilmente glielo avrebbe fatto volentieri a pezzi, strappato di dosso, ma davanti alla sua consorte, per pudore non osava. Lei l’aveva cucito di notte mentre tutti nel silenzio della casa dormivano. Il giorno lavorava sodo nei campi e di notte cuciva silenziosa abiti per tutta la famiglia, non solo quelli per il carnevale. Dario sognava il carnevale di Venezia, con le sue scintillanti maschere d’oro e d’argento, il carnevale di Rio con tutte le scuole di samba disposte in bell’ordine, il carnevale di Viareggio con tutti quei carri allegorici. Non sarebbe mai andato a visitare questi posti meravigliosi, se lo sentiva. Veniva dal popolo e certi divertimenti erano un lusso piacevole. A lui era concesso solo quel misero vestito da mago, con i pantaloni allungati di anno in anno e allargati, man mano che cresceva. Crescendo si era anche più irrobustito, non si snelliva come se un mago malefico gli avesse fatto uno squallido incantesimo, una perfida fattura. Per carnevale si facevano feste in casa, qualche ballo in piazza, qualche scorribanda in qualche paese limitrofo. I coriandoli erano pochi, centellinati per risparmiare, i dolci erano fatti in casa. Passando davanti alle pasticciere guardava i diplomatici ripieni di ricotta, paste con crema panna, marmellata, maritozzi con la crema, torte di zibibbo e candidi, dolci di uva passa, di liquore e cannella, di nocciole e pistacchio, di mandorle e vaniglia e sospirava. Sicuramente era goloso ma si limitava e d’estate non mangiava neppure un gelato alla frutta, ogni tanto si concedeva solo un ghiacciolo al limone, all’arancio, alla amarena. La sua dieta era rigorosa ma inefficace. Ogni tanto assaggiava una fetta di salame tipico delle sue parti ma poi se ne pentiva amaramente e si rimproverava, si macerava per la rabbia di aver ceduto. Quei gesti dimostravano tutta la sua debolezza di carattere. I compagni delle elementari, quando aveva iniziato la scuola dell’obbligo, avevano già le loro simpatie, le loro fidanzatine carine, ma lui non piaceva a nessuna, nessuna lo guardava come un bambino appetibile e grazioso. La sua timidezza aggravava il quadro già fosco. Non si rendeva simpatico e il disastro era sotto gli occhi di tutti. L’educazione rigida, composta impartita da suo padre insieme alla sua timidezza avevano dato vita a una miscela esplosiva. Era una mina vagante pronta a esplodere. Suo padre limitava la sua libertà, non lo lasciava andare dove voleva e il suo raggio d’azione era un campo ristretto di luoghi. Suo padre lo obbligava a visitare i morti al cimitero, a visitare le persone anziane, i malati all’ospedale, i morti composti nella bara e questo aumentava la sua straziante malinconia. Dario si divertiva con poco, giocando da solo con un centimetro fingendo di essere un geometra, con un gatto anche conosciuto da poco, con la cagnetta del suo vicino di casa, con delle palline di vetro, con un pezzo di legno fatto a forma di fischietto, con dei mattoni, con un corda di lana. Alcuni giocattoli se li creava da solo come meglio poteva, reperendo il materiale in aperta campagna. L’Estate andava a caccia di lucciole, di lucertole, di cicale. Erano belli i prati di notte pieni del profumo del fieno appena tagliato e di lucciole luminose che vagavano tra i fiori gialli e i papaveri rossi. Spesso diventava crudele, sfogava la sua rabbia di represso sugli indifesi animali allora prendeva a pedate un cane, a calci un gatto, stritolava le lucciole per vedere la loro scia fosforescente, uccideva le mosche, inseguiva le papere spaventandole, metteva a testa in giù un povero coniglio, calpestava le formiche, uccideva insetti e vermi. Spesso aveva una carica distruttiva, focosa, che gli avvelenava il sangue. Era una reazione al male. Al fuoco nemico rispondeva con il fuoco. Diventava a tratti avido, avaro, crudele, meschino, a tratti violento, cattivo, malandrino, bugiardo, infingardo. Rubava il prosciutto a sua madre, uccideva le galline senza un motivo logico, tagliava le piante, recideva i fiori e li faceva a pezzi gettandoli nel pozzo, nascondeva gli arnesi da lavoro, rovinava i tombini delle strade. Un giorno degli operai passarono delle ore a riparare un tombino da lui ostruito con pezzi di plastica azzurra, derivati da un secchio tagliuzzato. Non era sempre cattivo, ma alcune volte diventava maniacale, perseguitava le sue vittime come lui era respinto e perseguitato. Non sapeva porgere l’altra guancia, perdonare. Era vendicativo, rancoroso, chiuso. Le femmine fanatiche non le sopportava. Con le bambine non tentava neppure di fare amicizia, di rendersi simpatico. Talvolta la simpatia poteva sopperire alle carenze fisiche. Invece restava muto, in disparte, con gli occhi sbarrati per la paura, paura di non essere accettato. Quando vedeva delle ragazzine belle si paralizzava, si impietriva, balbettava e non riusciva neppure a esprimersi correttamente, perdeva la favella, si impacciava come un pesce impigliato nella rete. La voglia principale era quella tutto sommato di scappare, di andarsi a nascondere. Le ragazzine più appariscenti erano quelle con la puzza sotto il naso, superbe e altezzose perché consapevoli del loro fascino insidioso. Nelle feste di classe, di compleanno non andava quasi mai, nel timore di qualche spiacevole sorpresa. Per non presentarsi inventava delle scuse plausibili. Nelle gite scolastiche si dileguava, si metteva in disparte. Di solito non andava pensando di risparmiare tempo e denaro e soprattutto di risparmiarsi critiche e derisioni. Una volta era andato in una gita scolastica in una riserva naturale, ma era tornato più morto che vivo. Aveva faticato ad arrampicarsi, era rotolato in una scarpata fra le risate generali, non aveva potuto mangiare nulla perché i compagni lo invitavano a dimagrire, a fare la dieta, si era sentito male e aveva vomitato anche per la tensione nervosa, nessuno aveva parlato con lui nemmeno le insegnanti, tutte intente ad ammirare il panorama e a pettegolare fra di loro. I discorsi delle donne erano noiosi sempre di viaggi, scarpe, vestiti, calze, attori, film, acconciature, spille ecc. i discorsi dei compagni erano sempre gli stessi: calcio, compagne di scuola, attrici. La sua classe delle elementari aveva stilato una classica delle bellezze maschili e femminili e lui era risultato ultimo. Nella lista era l’ultimo per bellezza e simpatia. Nessuna bambina era disposta a parlare con lui figuriamoci a uscire con lui. I suoi compagni discoli si vantavano già di aver baciato delle fanciulle in fiore. Lui avrebbe baciato una donna molto tardi. I tempi per lui non erano mai maturi. Dario non aveva amici intimi e fidati, gli amici veri si contavano sulla punta delle dita. Per amico aveva lo zio Angelo, un semplice contadino pieno di saggezza.
Aveva stretto una intima amicizia con sua zia, che aveva uno strano nome, si chiamava Abiba, una donna ottantenne dall’aria arzilla e lo sguardo deciso. Si recava da lei quasi ogni sera al calar delle tenebre notturne e qualche volta anche di giorno, specie durante la calura del primo pomeriggio, quando per la siesta le strade del paese erano pressochè deserte. Come mai un ragazzino legava solo con persone anziane e adulte? Sua zia in effetti lo viziava con confetti e marmellate di albicocca e biscotti fatti in casa, con frasi affettuose e basi sulla guancia. Inoltre la sua casa era sempre piena di gatti cuccioli e adulti dall’aria sorniona e distratta. Adorava l’indipendenza mansueta e discreta dei gatti. Erano autonomi, indifferenti, austeri con il loro sguardo magnetico e misterioso. Avrebbe voluto pure lui andarsene in giro come loro, randagio e felice. Passava il tempo in casa della zia a bere tè, ad accarezzare il gatto e ad ascoltare le vecchie storie della sua famiglia. Con la zia Abiba aveva ricostruito, sebbene solo mentalmente, l’albero genealogico della sua famiglia. Aveva capito subito di non appartenere a un illustre casato ma bensì a una stirpe povera e onesta, che proprio per questo non sarebbe andata lontano. Gli onesti non facevano certo carriera, restavano nell’ombra come tante persone inutili. Si trovava bene con le persone adulte perchè non le facevano pesare la sua condizione di diverso, lo accettavano per quello che era: un bimbo dall’animo sereno e dal cuore generoso, con il corpo informe. Era stato il fato, il destino a volerlo così non era certo colpa sua. Invece la gente lo escludeva, lo guardava con aria di compatimento come se loro fossero perfetti e immortali. Anche la bellezza poi con il tempo sarebbe sfiorita. Detestava la superbia fanatica delle persone eccessivamente belle. Solo tra le braccia della zia trovava consolazione, ristoro. Lei lo proteggeva, lo incoraggiava, l’aiutava a fare i compiti, lo stimolava con ardore, lo consolava quando gruppi di ragazzacci lo prendevano in giro. Spesso avrebbe voluto reagire ma poi la paura, il pudore, la mancanza di orgoglio e coraggio lo bloccavano. Allora si lasciava andare, si lasciava trascinare per terra mentre lo insultavano e gli sputavano addosso. Non parlava mai in casa delle angherie che subiva a scuola e per la strada. Aveva per amico il figlio di un umile portiere, un pò sciancato, in seguito a un incidente avvenuto con la mietitrebbia, e di una amica di sua madre. Spesso anche lui lo abbandonava per andare a giocare altrove con ragazzi più svelti e disinvolti. Alcuni giochi sfrenati non erano per lui. Non vedeva l’ora che finisse la fase dell’infanzia per approdare a quella della giovinezza, che sperava fosse leggermente più fortunata. In fondo al suo cuore sperava in un futuro più roseo. Pensava che crescendo tutto sarebbe mutato, avrebbe incontrato gente più educata, più intelligente, più aperta e disponibile, libera da pregiudizi, insomma meno ostile. In questo si sbagliava. i cugini stessi erano lontani da lui mille miglia, lo escludevano, lo allontanavano come avesse la peste e inducevano altri ragazzini della zona a non guardarlo in faccia. Alcuni nemmeno lo salutavano. Passavano davanti casa sua come se lui non esistesse. Organizzavano feste di compleanno a due passi da casa sua senza renderlo partecipe. Non volevano avere a che fare con un ragazzino timido e insicuro, con la testa svagata. Solo con la fantasia cercava di evadere dalla cruda realtà. Sognava la notte di essere bello e desiderato dalle ragazze, di giorno sognava a occhi aperti di affermarsi professionalmente e di essere rispettato. Giocava sempre da solo, isolato, come un sonnambulo. sfuggiva la gente, il loro sguardo indagatore. Solo si sentiva sereno. Cresceva come una fiera selvaggia, ombroso incapace di reagire. Non era aggressivo caratterialmente e per questo era incapace di reagire alle provocazioni. Passivo non rispondeva male a nessuno. Gli aspetti spigolosi del suo carattere si accentuarono visibilmente. Sicuramente da solo non avrebbe mai combinato nulla di buono. in alcuni contesti aveva bisogno degli altri di questo se ne rendeva conto. Per timidezza non osava disturbare e parlare. Se solo avesse osato forse avrebbe trovato, dopo tante peregrinazioni, una spalla sui cui piangere. Ogni volta si tirava indietro, perdeva possibilità e occasioni. Non si aspettava nulla dalla vita, neanche era nato e già aveva compreso che lui era solo un soldato nella trincea mandato a combattere dal destino. Sapeva che nella guerra ci rimettono solo i poveri diavoli come lui senza arte nè parte. Non si faceva illusioni: il potere uccideva solo le masse. Doveva sottostare a suo padre, al parroco, alla maestra, agli insegnanti e da grande ai datori di lavoro. Non sarebbe mai stato un dirigente, capace di comandare. Quello che gli capitava lo accettava rassegnato, senza ribellioni. Alla fine trattava male per rabbia anche le persone che gli volevano bene e che volevano seriamente aiutarlo o che volevano semplicemente conoscerlo. Era diventato con il tempo guardingo, malfidato, sospettoso. Preferiva uscire nel tardo pomeriggio, all’imbrunire e passare per strade poco frequentate e poco illuminate per non incontrare anima viva. non voleva vedere soprattutto le persone che conosceva che gli rivolgevano domande insidiose, maligne. Non mancavano infatti frecciatine avvelenate, allusioni al suo corpo sgraziato, esteticamente imperfetto. Con quel corpo non poteva andare da nessuna parte. Molte strade gli erano precluse come ad esempio la carriera nello sport, nella moda, nell’arma. Preferiva talvolta parlare con i passanti che gli rivolgevano parole frettolose ma non corrosive per la sua anima sensibile di poeta. Aveva iniziato a scrivere poesie per scaricare la tensione dei suoi nervi tesi come corde di violino. Aveva bisogno di una valvola di sfogo e alla pagina scritta poteva affidare i suoi pensieri. Il suo aspetto gli appariva ogni giorno più repellente. Si sentiva ripugnante. Nessuno lo avrebbe mai apprezzato, le donne lo avrebbe ignorato e schivato. Vedeva e sentiva già sulla pelle quel senso di distacco raggelante. Vedeva già ragazze sorridere di gusto al suo passaggio, darsi di gomito. Nella zona aveva un soprannome e ogni volta che lo sentiva pronunciare anche a voce bassa trasaliva. Alcuni lo apostrofavano come palla di grasso, o lo chiamano ridendo boccione. il suo nome di battesimo non era contemplato.
I coetanei parlando anche tra loro lo apostrofavano con quell’appellativo irripetibile, altamente spregiativo. Come togliersi di dosso definitivamente quel nome, quel marchio così infamante? Nella sua carne come in quella dei bovini, era impresso un marchio, una etichetta ben precisa. La sua anima più che la sua carne era stata messa a ferro e fuoco, era macchiata da quel marchio. Quel nome l’avrebbe accompagnato per tutta la vita, senza scampo. Aveva provato a ribellarsi ma oltre agli insulti era stato pure malmenato. Era tornato a casa con i panni strappati, con il labbro sanguinante, i pantaloni strappati, lo sguardo stravolto. Era stato aggredito in malo modo. Era stato costretto a mentire a sua madre per non farla preoccupare più di tanto. Aveva pensato al suicidio in una notte di tempesta quando la sua stanza era stata illuminata dai bagliori sinistri di un temporale. Non sapeva in che modo attuare il suo proposito. Una paura folle gli gelava le membra. Se non poteva vivere come gli altri ragazzi, divertirsi, come era giusto alla sua età, era meglio il sonno eterno, farla finita una volta per tutte. Come farlo senza dare un dolore a sua madre? Quale sistema poteva adottare? Aveva pensato al gas, a tagliarsi le vene con una lama sottile di un coltello o con un affilato rasoio, a gettarsi giù dal ponte sul fiume, a finire sotto le ruote di un camion, sotto un treno, ad avvelenarsi con delle pastiglie. La fantasia ogni volta gli suggeriva modi diversi.Spesso vedeva nel sogno a occhi aperti la sua fine, come in un film dell’horror. Si vedeva chiuso nel bagno pallido come un morto prendere delle lamette affilate e tagliare sotto il getto dell’acqua calda. Vedeva il sangue vivo e rosso schizzare tutto intorno, macchiare le piastrelle, uscire a fiotti. Il suo sangue lo faceva rabbrividire perchè era sangue innocente.
Perchè doveva sparire per forza? Quale oscura colpa gravava sulla sua coscienza? Sapeva per certo che non aveva mai fatto male a nessuno. Ogni tanto era stato è vero indisciplinato, orgoglioso, capriccioso ma mai perfidamente cattivo. Le sue erano state solo reazioni di rabbia di fronte alle ingiustizie e alla esclusione. Quel sangue sparso sul lavandino bianco del bagno chiedeva vendetta. Forse non sarebbe stato sparso invano. Qualcuno mosso a pietà avrebbe messo fine con un gesto eclatante agli insulti verso le persone diverse, che poi tanto diverse non erano se avevano due braccia, due gambe e un cuore pulsante nel petto. Nella società moderna erano pochi quelli che veramente avevano rispetto degli altri e provavano pietà. I genitori e gli insegnanti educavano alla competizione sfrenata non alla misericordia e alla pietà. I genitori, tutti intenti a fare carriera, non insegnavano certo i valori e non davano il buon esempio con la loro sete di beni materiali e di potere. I suoi genitori non l’avevano educato alla lotta e gli avevano insegnato il rispetto degli altri ma lui ora era perdente, miseramente estromesso dai giochi della vita. Un solitario lasciato solo a vagare per il mondo senza bussola, con solo una bisaccia pesante piena di incomprensioni e tristezze. La sua onestà, la purezza profonda del suo animo non avevano riconoscimenti. I più furbi, i più scaltri sedevano a tutti i banchetti della vita. Riconosceva che il mestiere di genitori era il più difficile, bisognava avere la vocazione. Lui non si sentiva portato, dentro di sé sapeva che non sarebbe mai stato padre. Non era capace, non sapeva essere autoritario e al tempo stesso convincente. Non sapeva gestire un rapporto umano in modo corretto. Con i bambini, che spesso lo deridevano, non ci sapeva fare, la sua timidezza lo bloccava. Nei sogni notturni immaginava sovente il suo funerale: la bara bianca completamente ricoperta di fiori colorati e profumati, la madre vestita di nero con un fulard velato nero e gli occhi stanchi e arrossati di pianto, il padre con il bottone nero e la cravatta straziato dal dolore con il volto teso e sconvolto per la perdita del suo unico figlio maschio, la nonna folle di dolore trascinata a fatica fra la folla sbigottita, la cugina Elisabetta svenuta davanti alla chiesa, dietro il feretro i compagni di scuola piangenti, con enormi mazzi di fiori in mano, con il rimorso nel cuore. La loro tardiva pietà, il loro pentimento sarebbe giunto troppo tardi. La loro vita sarebbe stata forse lacerata dal rimorso. Con i cuscini e le corone la sua anima non ci avrebbe fatto nulla. Il loro abbraccio fraterno, corposo, la loro stretta era giunta troppo tardi, quando ormai non si poteva fare più nulla. Di solito si arriva sempre tardi agli appuntamenti importanti e lasciamo che il risentimento, il rimpianto logori la nostra anima.
Nella sua mente si accavallavano scene di questo tipo. Tanta gente accorreva al suo funerale con il cuore gonfio e gli occhi pieni di lacrime. Altre volte invece vedeva la sua bara di legno semplice, la sua famiglia non poteva permettersi lussi, aperta nella camera ardente dalle pareti nude e squallide con poche persone intorno, le più fedeli. Solo sua madre gli accarezzava dolcemente il volto come faceva quando era in vita, trattenendo a stento i singhiozzi. Con il tempo la famiglia avrebbe rielaborato il lutto e sua madre avrebbe avuto un altro bimbo, nella speranza di avere un maschio, e gli avrebbe imposto il suo stesso nome, così lui avrebbe continuato a vivere idealmente nel nuovo fratello che forse sarebbe stato più fortunato e più grazioso di lui. Suo fratello avrebbe realizzato i suoi sogni. Lui intanto dal cielo l’avrebbe seguito e benedetto, non l’avrebbe lasciato un attimo, sarebbe stato la sua ombra. Si faceva domande sulla esistenza del paradiso. Nessun defunto era mai tornato a raccontare per filo e per segno la sua condizione. Lui preferiva comunque crederci. Per i miscredenti la morte era un nero baratro, vuoto e buio, un salto nel nulla, un abisso senza fondo, infinito e lugubre. Per loro esisteva solo questa vita e per questo si davano da fare a più non posso. Era la loro unica carta da giocare su più tavoli. Per questo non disdegnavano di ingannare, fingere, odiare, rubare e vendere. C’erano anche atei onesti, di degno rispetto, da apprezzare. C’erano anche finti religiosi dal cuore arido. Era impossibile che dopo aver vissuto e sofferto, gioito e pianto si dovesse finire chiusi in una bara in un loculo al cimitero. Impossibile immaginare una vita il cui unico scopo era la morte cupa, senza speranze, odiosa, perversa, senza futuro. L’anima da qualche parte doveva pure continuare a dare impulsi, a vivere. L’anima aveva l’esigenza di respirare. Lui era consapevole del fatto che la sua anima esisteva, la sentiva vibrare, fremere di sdegno davanti ai soprusi della vita, alle ingiustizie sociali, alle sopraffazioni. Sicuramente era fragile, impalpabile come nebbia, ma reale nella sua evanescenza, presente, concreta, sensibile e attenta. Lui agiva sempre spinto dalle esigenze dell’anima, come quando cercava disperato la solitudine e i luoghi appartati e deserti. Era la sua un’anima che non sopportava le ingiustizie, i soprusi, le violenze, le dittature psicologiche. Lui era uno spirito libero che anelava alla pace priva di condizionamenti. Spesso invece veniva costretta a fare cose contro natura con le spalle al muro a scendere a compromessi. Lo squallore di quella sua vita scialba rendeva la sua anima triste, sola, sconsolata. Forse nell’aldilà avrebbe potuto contare sull’appoggio incondizionato e perenne di anime affini. Con ogni probabilità lì le anime avrebbero agito in gruppo, si sarebbero aiutate dopo il forte individualismo vissuto sulla terra. Nell’aldilà per fortuna il corpo non sarebbe più servito e lui avrebbe potuto esprimersi liberamente. Avrebbe fatto volentieri a meno di quell’involucro ingombrante e inutile, che tutti rifiutavano. La selezione naturale che operava in sordina lo avrebbe messo fuori del ciclo della vita in automatico. I suoi caratteri ereditari, il suo patrimonio genetico non potevano essere tramandati. Era per questo un individuo destinato a restare solo. Potevano procreare solo gli individui perfetti per una sorta di legge di natura che fa sopravvivere il più adatto. Lui non era in grado di gestirsi ed era un inetto nel vero senso della parola, un vinto. Si domandava nelle notti serene, guardando in silenzio le stelle luminose, perché proprio a lui era toccato questo triste destino. Con il tempo comprese che ognuno aveva la sua bella croce da portare. Ognuno aveva le sue colpe, i suoi problemi, i suoi guai. Nessuno attraversa la vita indenne, prima o poi le mani nette si sporcano. Con il tempo come per magia i pensieri ossessivi di suicidio scomparvero. Scomparvero soprattutto quando Dario si entusiasmava per un nuovo acquisto, per una nuova impresa. Aveva compreso che doveva per forza continuare a vivere, doveva vivere per lo sguardo dolce e implorante di sua madre, per l’affetto di sua zia, per la nonna stanca di vivere, per l’amico dei giochi. Doveva vivere per supportare con la sua presenza le persone che gli volevano bene. Lui rappresentava la continuità, il filo che avrebbe legato le generazioni future. Vivere era un obbligo come mangiare, come dormire, non ci si può sottrarre senza dare un dolore. La sua anima ogni tanto riusciva a rigenerarsi attraverso piccole cose quotidiane: lo sbocciare di un fiore, la vista di un prato verde brillante al sole, il sorriso di un insegnante, la vista di un lago ghiacciato, la corsa veloce di un gatto, il canto di un canarino, il sapore di un cioccolatino al liquore, una passeggiata in bicicletta, un camino acceso, l’odore della pane appena sfornato, un abito nuovo, un quadro dipinto con arte. Sapeva godere delle piccole cose e assaporava tutto con entusiasmo. I suoi genitori con la loro educazione rigida però lo frenavano, bloccavano i suoi istinti, i suoi impulsi. Molti suoi stessi pensieri erano giudicati peccati da confessare al prete. Ogni sua maleducazione era sottolineata con schiaffi violenti sul viso. Suo padre spesso lo batteva, anche quando si difendeva dalle canzonature. Veniva deriso e poi pure punito da sua padre, quando magari dava una risposta più impertinente del solito. Nella maggior parte dei casi, stava zitto e subiva in famiglia come fuori nel mondo. I suoi traumi d’infanzia se li sarebbe portati dietro per tutta la vita, traumi che l’avrebbero fortemente condizionato. Non sapeva che ognuno si porta dietro i suoi traumi e che ogni famiglia, anche la più perfetta, ha i suoi segreti, i suoi scheletri nell’armadio. Non era sicuro della onestà totale dei suoi genitori, mille dubbi le affollavano la testa. Forse anche suo padre era un usurario, sua madre una ladra, sua sorella una donna di facili costumi. Dato che i momenti di gioia nella sua vita erano radi, quei pochi li assaporava lentamente come si gusta un liquore o un vino speciale. Aveva imparato ad amare la natura, il mare, lo sport all’aria aperta, i paesaggi, la pittura, l’arte, la poesia, le mostre di quadri e di ceramiche, gli oggetti di antiquariato che profumavano di passato, di mondi scomparsi per sempre. Amava soprattutto il sole e l’estate, quando le odiose scuole erano chiuse. Alla fine proprio per tutte queste piccole passioni innocenti decise di non morire. Amava collezionare vecchie cartoline illustrate, foto di gatti, palline di vetro colorate che in paese gli regalavano. Coltivava le sue passioni come si coltiva in segreto in giardino una pianta rara, per non sentirsi solo. Si teneva occupato tutto il giorno per sfuggire al tarlo insidioso dei pensieri strani. Gli altri non poteva entrare indisturbati nel suo mondo chiuso che puzzava di stantio. Aveva bisogno di punti di riferimento, di stelle luminose da seguire e quando magari mancava il riferimento la sua mente lo creava ad hoc. Così i suoi punti di riferimento, i suoi puntelli variavano di volta in volta. Il suo supporto poteva essere un oggetto, una persona, una passione, un gatto, un quadro, un fiore. Nel mare in tempesta aveva bisogno urgente di una zattera a cui aggrapparsi per non affondare. Persone disposte a fare da punto di riferimento, erano sempre meno intorno a lui. Una volta si era sentito male in chiesa, una specie di svenimento, nessuno lo aveva soccorso. Molti coetanei erano fuggiti dallo spavento, gli adulti, finita la messa, si erano dileguati. Così lui era rimasto rannicchiato nel banco per ore, ore che a lui erano sembrate una eternità. Alla fine era stato recuperato da sua madre. La solidarietà era una parola vuota di senso. Gli altri non solo non lo soccorrevano nel momento del bisogno ma addirittura lo cercavano solo quando avevano bisogno di lui. Gli chiedevano in prestito una cartolina per fare un quadro, una corda, una forbice. Se lo cercavano insistentemente era perché desideravano qualcosa di specifico. L’amicizia fraterna, disinteressata era rara. Le giornate allora le riempiva di cose non di persone. Le trascorreva intento in mille occupazioni, inseguendo sempre nuove passioni, più intriganti delle precedenti. Si era rassegnato a vivere come un giunco flessibile che si adegua a tutte le condizioni. In certi casi estremi, anche in famiglia, faceva il pesce in barile, taceva. Le labbra serrate, strette come il pugno bianco di una mano. Visitava i mercatini dell’usato alla ricerca forsennata di antiche cartoline in bianco e nero, ingiallite dal tempo, di oggetti caduti in disuso. Camminava spesso per strade deserte, in mezzo ai boschi, nei paesi vicini. Comprava con pochi soldi vecchi poster scoloriti con cui adornava le pareti della sua stanza, rifugio caldo contro le insidie del mondo. Solo la sua stanza e sua madre erano sempre pronti ad accogliere i suoi sfoghi, i suoi crucci. Si era creato una vita alternativa, parallela a quella della gente comune in cui svolgeva tutti i suoi compiti e in cui vi era spazio anche per una discreta vita interiore. Interiorizzava tutte le esperienze, le rielaborava come un maestro plasma la creta e produce anfore bellissime. Si chiudeva nella sua stanza dove scriveva il suo diario, leggeva romanzi di avventura, di viaggi. Con la sola fantasia vedeva luoghi esotici, palme, spiagge incontaminate, boscaglie, savane, fiumi azzurri, grattacieli, in cui avrebbe voluto vivere se non altro per evadere dalla angusta realtà. Un giorno immaginava di poter visitare tutti questi luoghi di fiaba. Viaggiare con la fantasia non costa nulla ed è divertente. In futuro forse non avrebbe potuto viaggiare per questioni economiche. Per viaggiare ci voleva tempo e denaro. Si appassionava alla lettura e si estraniava dalla realtà. Finiva per passare gran parte del tempo libero a leggere, del resto non tutti volevano giocare con lui. Leggeva sprofondato su una poltrona di velluto. Nella sua stanza accogliente dalla parteti d’avorio nessun pericolo lo minacciava. I poster raffiguravano paesaggi marini, laghetti incastonati fra le montagne. Era attratto dal mare, al mare cadeva in una specie di torpore, in un oblio dolce. Il letto era ricoperto da una consunta coperta color panna con piccoli fiori rosa. Non era la stanza di un ricco signorino con la puzza sotto il naso. Leggeva la sera alla luce tenue di una lampada rosa. I libri erano sparsi su un piccolo tavolinetto, non c’erano soldi per una libreria. Una volta era stato invitato a casa da un compagno di classe. Quell’invito per lui racchiudeva una insidia. Spinto dai genitori aveva accettato riluttante. Infatti gli eventi si svolsero come aveva previsto lui. Ormai aveva imparato a capire gli umani. Gli animali erano più spontanei, specie negli affetti. Il ragazzino lo aveva invitato solo per ostentare il lusso magnifico della sua casa. I libri erano racchiusi all’interno di una libreria antica fatta con cristalli molati. Una sontuosa poltrona di velluto giallo oro operato stava in un angolo con accanto un tavolinetto intarsiato con avorio con sopra numerose cornici d’argento e ritratti, un pendolo in legno sopraffino e elegante scandiva regolare il passaggio del tempo. Quella casa schiacciava con il peso del suo lusso, intimoriva come un maestro con una bacchetta spessa fra le mani. Un toletta antica era rifinita in oro zecchino, un lampadario di cristallo puro brillava alla luce del sole primaverile. Voleva sprofondare. Il bambino si muoveva in quel lusso, fluttuava leggero come una nuvola in cielo, ma non era naturale, ero superbo, altezzoso. Dario tornato a casa si chiuse in silenzio nella sua stanza, da dove non avrebbe voluto più uscire. Il suo compagno aveva voluto sottilmente umiliarlo. Non solo quindi era brutto, ma era anche un povero diavolo. Non aveva risorse se non gli occhi per piangere. Un giorno si sarebbe vendicato, per ogni goccia, per ogni lacrima ci sarebbe stata una vendetta. Se non altro avrebbe scritto tutto e l’avrebbe fatto sapere al mondo. Il ragazzino superbo si sarebbe riconosciuto nella descrizione e forse, per la prima volta in vita sua, sarebbe arrossito, avrebbe avuto se non altro un gesto di stizza. Sapeva anche che certe persone hanno talmente la faccia tosta da tenere testa a chiunque con sguardo altero. In fondo non gioca a favore avere un cuore tenero. Lui aveva finito per allearsi solo con i perdenti, i diseredati, gli afflitti. Dalla sua stanza, la mattina dopo l’episodio, non voleva più uscire. Uscire significava ingaggiare nuove battaglie che non intendeva combattere. Non si sentiva preparato, non lo avevano istruito. Lui avrebbe voluto passare nella sua stanza il resto della vita. Pascal il filosofo diceva infatti che il dramma dell’uomo sta tutto in quella sua incapacità di rimanere chiuso, tranquillo in una stanza. Lui sarebbe rimasto nella sua stanza, nella sua cuccia senza disturbare nessuno, in punta di piedi. Certe sere d’inverno, con la scusa di un principio di febbre, cenava solo nella sua stanza o in compagnia del gatto. Il male degli uomini deriva dal fatto che l’ansia li spinge sempre a girovagare, esplorare, scoprire, a lottare, a combattere. Tuttavia alcune volte la smania di fare prendeva anche lui. Allora abbandonava quel nido caldo per poi magari tornarci di nuovo poco dopo deluso e affranto. Piangeva nella sua stanza con le mani sul viso davanti agli occhi gialli e attoniti del suo gatto, che lo guardava allibito. I gatti non comprendevano gli scatti d’ira, gli gesti violenti degli umani. Lui sapeva che nel profondo del suo animo albergava l’ambizione, la voglia di riscatto. Era come tutti gli altri, ansioso di emergere dalla massa, di distinguersi. Per la rabbia certe volte non riusciva neppure a piangere. Soffriva con gli occhi asciutti, non si sfogava, ma sentiva il dolore penetrare come una lama sottile. Si alzava la mattina con gli occhi gonfi, lo sguardo assente, la bocca amara e lo sguardo perso nel vuoto. Il dolore era acuto, profondo, aveva radici lontane, bruciava l’anima come soda caustica, la trapassava da parte a parte. Per rilassarsi accoglieva sulle sue ginocchia il gatto morbido e tenero, lo accarezzava e coccolava. Alcune volte litigava anche con il gatto che si allontanava scorbutico dopo averlo morso o graffiato. Anche il gatto aveva le sue giornate nervose. Lo seguiva ovunque e in certe circostanze si era rivelato il suo unico amico. Quando gli tiravano i sassi tornava a casa di corsa e trovava il gatto già pronto ad accoglierlo sulla porta. Gli faceva le fusa. Quell’animale era stato più gentile di qualsiasi altra persona. Con lui divideva la torta, il salame, ecc
Faceva passeggiate per i prati, pic nic nei boschi, prendeva il sole al terrazzo. In questo caso il gatto si sdraiava sotto il suo lettino e restava immobile per ore, dormendo e facendo le fusa, mentre lui leggeva prendendo il sole e ogni tanto con la mano vellutata accarezzava il pelo morbido del gatto, felice di essere preso in considerazione. Il gatto aveva accettato di buon grado tutti i suoi giochi e partecipava a ogni sua iniziativa. senza batter ciglio, senza ribellioni. Era paziente, tenero, e quando Dario era nervoso, perchè era stato nuovamente insultato, accettava i suoi musi, le sgridate per nulla,la coda tirata. Dario si sfogava con il gatto e certe volte,senza motivo, lo cacciava dalla stanza in malo modo. Il gatto fuggiva via inorridito, spaventato, e lo guardava con occhi dilatati per la meraviglia, per la paura causata dal suo inspiegabile comportamento aggressivo. Il gatto lo perdonava sempre, dimenticava. Infatti quando il padrone tornava in sè, veniva di nuovo apprezzato e coccolato, protetto, accarezzato. Il padrone si pentiva per il suo comportamento sleale, spesso piangeva per lo sdegno, ma poi ricadeva negli stessi errori. il suo umore subiva alti e bassi: alcune volte era allegro, altre di pessimo umore, malinconico. Di solito prevaleva il carattere malinconico, un pò apatico, pigro, non voleva fare nulla di preciso. Spesso lavorava sotto sforzo, senza riflettere. Spesso era distratto, poco concentrato, svagato, con la mente altrove, magari fissa su la sua ossessione. Al suo aspetto poco appetibile, quasi repellente si accompagnava una mente lenta nell’apprendere, mediocre, comune. In altre parole non brillava certo per intelligenza. Non era astuto, svelto, pratico. Non aveva il senso dell’umorismo. I suoi difetti erano talmente che aveva perso il conto, si era rassegnato a una vita umile e mediocre. Strapparsi i capelli non sarebbe servito a niente. Non si poteva mutare la realtà con un colpo di bacchetta magica. Leggeva le riviste di moda, di attualità e vedeva che molti avevano tutto dalla vita: successo, soldi, bellezza, ecc ma forse avevano anche loro una spada di Damocle sulla testa, la loro spina nel fianco conficcata che non se ne voleva andare per nessuna ragione al mondo. Tuttavia il benessere degli altri gli sembrava una vera ingiustizia sociale. In fondo non era colpa sua se era nato in una famiglia dalle scarse risorse economiche, disarmonica, dove i genitori litigavano spesso e il padre era un tiranno, autoritario. Viveva nel sud d’Italia dove non vi erano mai state grandi prospettive, con un corpo imperfetto, un carattere idiota, con una mente poco limpida e elastica. Non aveva chiesto lui di venire al mondo, non era stato interpellato. Era stato chiamato, suo malgrado, sul palcoscenico del mondo a interpretare un ruolo, una parte. Forse anche lui aveva la sua precisa missione da compiere ma non sapeva quale. Se era nato un motivo doveva pur esserci, non poteva essere affidato tutto al caso. Qualcuno potente aveva deciso per lui e lo aveva catapultato, gettato sulla terra fra tensioni, guerre, invidie, peccati e dolori. Se fosse stato invitato al banchetto del mondo sicuramente non avrebbe accettato. l’esperienza di vita poteva essere considerata un’avventura ma anche una eterna lotta. Alcuni lottavano per il potere e la ricchezza, altri semplicemente per la sopravvivenza come lui, che si accontentava delle briciole di lauti banchetti. La vita poteva a un certo punto non avere senso. Obbediva ai genitori, sudava sui libri, ma i risultati della sua condotta onesta e irreprensibile erano scarsi, comunque non si vedevano specie nell’immediato. Il futuro era avvolto in una fitta nebbia in bilico fra speranze e delusioni. Da adulto avrebbe dovuto inserirsi nel mondo del lavoro, magari con una raccomandazione, formarsi una famiglia, divertirsi lottare solo per fare come gli altri, senza passione, senza logica.
Era veramente obbligato ad andare a scuola, a realizzarsi, a lavorare, a combattere. Se si fosse rifiutato, se si fosse sottratto, sarebbe cambiato qualcosa? Chi si sarebbe ricordato di lui nei secoli avvenire? Il figlio ribelle che spezza la catena, che rompe gli schemi sociali, sarebbe stato mal visto. il figlio che non accetta le costrizioni, le responsabilità, sarebbe stato visto sempre come un immaturo, un debole, un incapace, un inetto. Doveva per forza fare come gli altri: aspirare al successo e al potere, logorarsi per ottenerlo, mirare a fare carriera anche sulla pelle dei colleghi, sposare una donna giusta, onesta, possibilmente del suo stesso ceto sociale, gli sconfinamenti non sono permessi sono solo strappi nella trama di un perfetto tessuto sociale, fatto di gerarchie e divisi di ruoli. Dopo il successo avrebbe dovuto comprarsi un’auto di moda, magari di grossa cilindrata, una casa lussuosa, fare dei fgli da mandare all’università per consentire quel tanto di riscatto sociale, anche esso illusorio. i laureati figli di operai non hanno certo una marcia in più. In questa vita futura organizzata perfetta, chi garantiva che sarebbe andato tutto per il verso giusto? Se non fosse ad esempio riuscito a fare carriera avrebbe avuto il biasimo dei paesani e dei colleghi? Se gli fosse nato un figlio gay avrebbe disatteso le speranze dei suoi genitori? Il destino spesso rema contro e non serve sforzarsi i per ottenere ciò che non avrà mai per una specifica legge di natura. Allora sarebbe stato giudicato un perdente, un fallito, ma lui era già uno sconfitto. All’età di quattordici anni finiti, dopo la scuola dell’obbligo, non sapeva ancora cosa fare del futuro. Era insicuro, incerto avrebbe voluto che l’infanzia si prolungasse all’infinito e nello stesso tempo voleva che quel periodo pieno di frustranti complessi di inferiorità finisse al più presto. Era strano ma si sentiva solo anche all’interno di una famiglia numerosa. Tutti i componenti della sua famiglia gli chiedevano insistenti come andava a scuola ma nessuno gli chiedeva come fosse il suo stato d’animo, se era felice o disgustato, nervoso o tranquillo. Avrebbe dovuto, come regola, proseguire gli studi per riuscire ad ottenere almeno un diploma. L’idea di combattere con compagni di scuola discoli lo paralizzava. Temeva possibili umiliazioni, scontri verbali e fisici Pensò per mesi e alla fine rinunciò a frequentare una scuola superiore. Se la scuola fosse stato un luogo di crescita, un luogo dove i rapporti erano umani, dove gli insegnanti erano comprensivi avrebbe potuto osare. Preferiva terminare con la scuola dell’obbligo. La selezione naturale, che aveva studiato, operava in silenzio, tesseva la sua tela e consentiva di proseguire la corsa solo agli individui più adatti. Lui era appunto l’esempio vivente. Aveva chiuso il ciclo dei suoi studi non proprio brillanti. Suo padre iroso lo aveva affrontato come una furia, ma lui non si era lasciato intimorire. In fondo non amava la matematica, le lingue e non eccelleva neppure nelle materie letterarie. Non sapeva immaginare il suo futuro privo di una istruzione. Passata l’estate si trovò completamente sfaccendato, mentre molti suoi amici già iniziavano a leggere per affrontare in perfetta forma il primo anno di superiori. Molti suoi coetanei andavano in giro abbracciati con ragazzine appariscenti, la sera li incontrava abbracciati. Anche lui un giorno avrebbe avuto una donna al suo fianco a costo di fare carte false, di vendere, di rubare il cibo agli dei. Tutti i suoi ex compagni di scuola erano presi da mille impegni. Lui era sfuggente, solitario, non si lasciava penetrare nel profondo da nessuno per paura di uscire allo scoperto e quindi tutte le sue amicizie rimanevano allo stato superficiale. Aveva solo conoscenze. Gli sarebbe tanto piaciuto avere un amico intimo cui confidare le sue amarezze, i suoi crucci. Nessuno gli era sembrato degno. Guardando nel profondo scopriva con raccapriccio che in verità nessuno lo voleva al suo fianco. Molti giovani coetanei erano superbi, altezzosi, pieni di grinta, crudeli, indifferenti, non avevano un animo gentile. Lui era diverso, era sensibile come una fanciulla, onesto, sincero, pulito, certamente non poteva andare d’accordo con quei ragazzacci maldestri e meschini che passavano il tempo a uccidere uccellini e a rompere nidi. Forse era sensibile, dolce proprio perché era diverso, sia fisicamente che caratterialmente. Con uno spasmo dell’animo realizzava che in condizioni normali sarebbe stato come loro o peggio. In fondo al suo cuore avrebbe infatti voluto essere come loro: spensierato, sicuro di sé, allegro, vispo, giulivo, tracotante, indifferente, addirittura superbo. Quella sicurezza, quella padronanza si acquisiva dopo che si avevano tutte le carte in regola ossia quando si ben fatti, quasi perfetti. Infatti tutte le persone belle avevano quel fascino particolare tipico di chi sa di essere in posizione di vantaggio. La bellezza apriva tutte le porte, concedeva sconti. Per lui che era grasso, insicuro c’era solo una vita da trascorrere ai margini. Doveva per lo meno riuscire ad essere indifferente se voleva salvarsi. Ogni tanto la maschera dell’indifferenza gli cadeva dal volto e lui tornava a vibrare come uno scolaretto che teme l’interrogazione. Ritornava fragile e grosse lacrime salate scendevano sul suo volto infantile. La discriminazione nei confronti degli obesi sarebbe durata fino alla fine dei secoli senza scampo. Nonostante gli sforzi non riusciva a modificare minimamente il suo carattere ombroso, scontroso, carattere formatosi durante le avversità. Gli eventi lo avevano plasmato, influenzato, ridotto a brandelli. Gli altri, specie i parenti non facevano nulla per alleviare le sue sofferenze anzi accentuavano il suo isolamento. I parenti lo schernivano, lo isolavano, non lo rendevano partecipe della loro vita privata. In un paese vicino al suo, dove vivevano alcuni parenti, si svolgeva sempre una festa in onore del santo patrono sant’Antonio, ma lui puntualmente non veniva mai invitato, reso partecipe di quell’evento. Per anni non era mai stato invitato una volta. Ricordava poi un episodio significativo. Una volta, a causa di alcuni problemi familiari, era finito ospite in casa di una ricca zia di un nobile casato che viveva in un paese limitrofo. Era stato trattato con assoluta freddezza e costretto a mangiare in cucina. Nel salone la zia aveva ospiti di riguardo e lui era impresentabile. Era stato costretto a dormire in una angusta stanzetta della servitù, anche se nella villa esistevano splendide stanze degli ospiti. Era stato obbligato a non toccare i giocattoli che facevano bella mostra nella stanza dei figli della zia. Era stato trattato come un mendicante. La mattina all’alba era stato buttato giù dal letto e ricondotto a casa senza una parola. Durante la strada lo zio non gli aveva mai rivolto la parola. In estate la zia ricca lo aveva invitato a trascorrere alcuni giorni al mare nella sua villa con vista mare. Ci era rimasto pochi giorni poi era fuggito via con una scusa. Era stato umiliato, maltrattato, accusato di essere sporco e maleducato, costretto a mangiare separatamente, accusato e rimproverato per la sua condotta. Dai parenti era visto come uno zoticone, un selvaggio, un fannullone, privo di classe e educazione. Quelli del mare erano stati giorni infernali, a diretto contatto con la perfidia delle donne ricche. Non poteva immaginare tanta crudeltà gratuita. Il veleno di una donna superba poteva essere mortale, era mortale, uccideva l’essenza del suo essere. La zia si sentiva superiore in quanto discendente diretta di una nobile stirpe. Aveva sposato suo zio, un uomo di scarse risorse ma generoso, tanto per avere un marito che sopportasse il suo carattere bisbetico. Lo zio per il patrimonio della consorte e per fare la via agiata aveva accettato il contratto di matrimonio senza battere ciglio e faceva alla lettera tutto quello che voleva la moglie compreso rinunciare alla madre e alla propria famiglia di origine. Con la madre aveva rotto subito dopo le nozze, la moglie fingeva di essersi offesa per una sciocchezza. Lui non si era più recato a trovare la madre nemmeno per Natale e per il compleanno. Si recava dalla madre solo quando c’erano soldi da prendere frutto della vendita di alcuni terreni di famiglia. Aveva la moglie ricca ma non disdegnava i soldi della sua casa. La madre era affidata alle cure di una sua sorella. I soldi della madre venivano tutti spesi in futilità. La zia era aggressiva, prepotente, faceva pesare a tutti la sua condizione di donna benestante, ostentava le sue ricchezze specie con gli umili per mortificarli. Spesso insultava Dario in modo diretto o indiretto con frasi offensive, parole pungenti, frecciatine velenose e acute come aghi di spillo. Le parole sconvenienti, truci, offensive della zia gli risuonavano nelle orecchie come tocchi di campana a morto. La zia lo accusava di essere molle, insignificante, obeso, ridicolo,. Lo criticava apertamente in presenza di altre persone facendogli fare una pessima figura. Lui finiva per vergognarsi seriamente di se stesso. Durante la malattia di suo padre, che lo avrebbe portato a una morte prematura, la zia aveva avuto un comportamento assurdo. Non solo si era disinteressata e si era limitata alle sole visite di cortesia, durante le quali aveva continuato imperterrita a ostentare i suoi gioielli, ma chiamata al capezzale del morente, nel suo ultimo giorno di vita, si era lamentata di essere stata disturbata. Non era lei che doveva assistere il malato ma i suoi familiari. Lei in quei giorni doveva divertirsi dato che aveva organizzato un viaggio di piacere in occasione delle vacanze pasquali. La chiamata all’ospedale aveva ostacolato la realizzazione dei suoi piani. Per andare all’obitorio a trovare suo padre, per vederlo per l’ultima volta, Dario era stato costretto a prendere un taxi. Nessun parente o amico si era degnato di passare a prenderlo. Nessuna parola di conforto, di sollievo. Anzi alcuni parenti prima di recarsi all’ospedale da suo padre per fargli visita erano andati a fare shopping nei negozi come niente fosse. Erano stati visti mentre acquistavano merletti pregiati. In fondo la morte di un parente era un fatto privato che non li riguardava da vicino, loro dovevano continuare a divertirsi, a festeggiare compleanni e battesimi. Il funerale era stato solo uno scambio finto di condoglianze. Alcuni parenti stretti non si erano degnati nemmeno di fare un mazzo di fiori, eppure erano benestanti. Erano venuti al funerale distaccati, freddi come si va alla cerimonia funebre di un perfetto sconosciuto. Non era per i fiori, era per il rispetto al defunto che mancava. Come se suo padre, per il fatto che non era ricchissimo, fosse un personaggio di serie b da tenere a bada. Durante il funerale un suo cugino gli aveva detto a brutto muso che ora se la doveva sbrigare da solo. Lui era troppo fragile e tenero, ma doveva svegliarsi, scuotersi. Il messaggio era stato chiaro come acqua di fonte: doveva vedersela da solo. Come se fino a quel momento qualcuno l’avesse seriamente aiutato. Le porte dell’affetto, del cuore si chiudevano al suo passaggio, come si chiudono al passaggio di zingari ladri e imbroglioni. Lui era da disprezzare per il solo fatto che era timido, che non era ricco, che non era perfetto. Non c’era una mano tesa, un abbraccio stringente, un sorriso amico. Al funerale solo volti tirati, frasi stanche e gambe pronte a fuggire appena finita la funzione funebre. Le strette di mano erano state formali, le frasi di circostanza. Il cuore pieno di fibrillazioni di Dario di colpo si era indurito. In pochi attimi la sua spensieratezza era stata spazzata via, per lasciare spazio a un nuova consapevolezza. Era cresciuto, aveva fatto il suo ingresso nel mondo adulto dove il cuore di pietra era l’oggetto più richiesto. Avrebbe dovuto imparare ad essere meno tenero, meno sentimentale. I parenti lo lasciavano solo mentre mani rapaci rapivano suo padre e lo portavano in un mondo che non era il suo. Non c’era pietà nei loro sguardi ma solo una velata condanna nei suoi confronti. Era troppo debole, insicuro, oscenamente sincero. Quando avrebbe imparato ad essere più astuto, più furbo, più intraprendente? Quando avrebbe imparato ad essere gaudente come loro? Loro si trastullavano tra giochi di carte, cene amichevoli, musica moderna. Le mani cercavano quel calore denso di affetto sincero e trovavano solo rigide frasi di circostanza, muri invisibili eretti per proteggersi dal suo essere. Era respinto, incompreso, allontanato nel limbo del lutto. Da solo avrebbe dovuto rielaborare il lutto. Alla sera i parenti erano tutti tornati alle loro case, pronti a richiedere il certificato di morte di suo padre per trovare una giustificazione per il lavoro. Il funerale era stato solo un evento, un fatto normale, da cui si doveva prendere le distanze. Quando era morta sua nonna, anni dopo, alcuni parenti si erano comportati allo stesso modo. Alcuni però, in virtù dell’esempio di suo padre, dopo certi precedenti, non li aveva avvisati. Dopo alcuni giorni dal funerale aveva incontrato delle zie che invece di fargli le condoglianze gli avevano detto senza alcuna grazia che era ingrassato. Spesso si ingrassa anche per stress. Ci era rimasto male, la prima parola non era stata condoglianze, ma sei molto grasso. Erano parenti che guardavano i particolari, come il colore delle scarpe, la forma della borsa, ma non curavano l’anima. Lo accusavano che era maleducato ma loro erano i primi ad avere comportamenti malvagi con lui. Alcuni parenti spesso non lo avvisavano della morte di parenti comuni, forse per paura di venire disturbati, di essere scocciati, per paura che magari lo dovevano accompagnare al funerale. I suoi parenti davano importanza alle apparenze come i vestiti, le auto, e non si curavano di altro. Lui era giudicato per come vestiva, per i soldi che aveva, non per le sue qualità morali, che non erano scadenti.Aveva notato comunque che anche il destino remava in favore dei suoi parenti, contro di lui. In altre parole il destino favoriva la gente senza scrupoli e scaltra, non quella umile e semplice. Così capitava anche nella vita pratica. Si poteva vedere nel mondo un ladro scalare i vertici della carriera in una azienda, perché raccomandato e una ragazza seria rimanere single. Erano le donne di facili costumi ad avere maggiori rispetti. Allora a che serviva avere una condotta morale? Se nemmeno i parenti riconoscevano la sua più grande qualità: la sua onestà pura. Il mese successivo alla morte di suo padre, Dario era caduto in un fosso con la bicicletta e costretto ad ingessarsi una gamba. Pioveva sul bagnato. Come se anche il destino riconoscesse la sua inferiorità. Il destino si accaniva con violenza inaudita, eppure lui era innocente. Anche in quel caso nessun parente si era prodigato più di tanto, anzi molti avevano insinuato, maligni, che non era in grado di guidare bene una bici. Come se timido fosse sinonimo di scemo. Pochi si erano recati all’ospedale. Soprattutto nessuno gli aveva dato una parola di conforto. Non aveva bisogno di altro, se non di appoggio. Aveva saputo che mentre lui era ricoverato i parenti passavano il tempo a divertirsi in allegre sagre paesane. Era stato dimesso il giorno di ferragosto e nessun parente, o amico, aveva pensato di andare a prenderlo, erano tutti impegnati a organizzare la grande festa del quindici agosto. Un giorno sarebbe accaduto pure a loro, non erano immuni dal dolore o avevano fatto il patto con il diavolo per un estremo tentativo di salvarsi comunque? Le sue sorelle erano tutte sposate e vivevano lontano. La più grande era andata in Australia a cercar fortuna, con il marito, da lei non si poteva pretendere nulla. I viaggi erano costosi e già erano venute per la morte di suo padre. Loro dovevano ubbidire ai mariti che le costringevano ad avere maggiori rapporti con le loro famiglie. Mentre le sorelle dovevano curarsi solo della famiglia del marito, sua madre non aveva avuto questo privilegio, doveva sempre intervenire per la sua famiglia e per quella del marito. Molte sorelle erano difese dai fratelli ma sua madre non era mai stata difesa da suo fratello, che faceva solo gli interessi della moglie. Le cose che funzionavano per gli altri non contavano per loro. La lontananza dalle sorelle era dolorosa come una spina nel fianco. La trama della sua vita era piena di strappi, scuciture, piena di distacchi più o meno pesanti. Dai parenti con il tempo aveva cominciato a prendere le distanze. Al momento della sua caduta alcuni parenti, affacciati alle finestre, non l’avevano nemmeno soccorso. Era stato soccorso da un passante. Alla sua richiesta, giunto sotto le finestre degli zii, di un bicchiere d’acqua avevano fatto orecchie da mercante. In quel letto di ospedale, con il caldo afoso, con la gamba rotta e sollevata, aveva sperimentato la solitudine più nera. Solo sua madre, avvolta nel suo scialle nero da lutto, lo aveva seguito e accudito. Con gli occhi fissi nel vuoto, con lo stesso abito per giorni, nessuno si era degnato a portarle un cambio, sembrava la madonna addolorata. Eppure i parenti non avevano fatto nulla, avevano solo criticato il fatto che lei indossasse per mesi consecutivi il lutto. Gli altri, amici compresi, ora erano piccoli puntini sullo sfondo ormai sbiadito. Per rimettere in sesto il piede era stato necessario un intervento chirurgico. Mentre veniva operato i suoi parenti erano impegnati in un grazioso e intimo pic nic in montagna. In fondo che pretendeva? Era un parente scomodo, sgradevole, senza risorse, timido, insicuro, senza appoggi. Forse proprio per questo invece andava aiutato. Tutto questo è come quando gli uomini preferiscono le donne forti a discapito di quelle fragili. Lui pensava fra sé che proprio perché una donna è insicura che ha bisogno di un uomo forte al fianco. Nel mondo le cose funzionavano alla rovescia. Agli occhi dei parenti era un insignificante granello di sabbia, ma un giorno forse si sarebbero ravveduti, avrebbero riconosciuto contriti l’abbaglio. Forse avrebbero continuato a disprezzarlo nonostante avrebbe ottenuto dei riconoscimenti in altri ambienti. Se l’era legata al dito, gli avrebbe dimostrato che non era inutile. Se non altro avrebbe scritto o fatto scrivere da qualcuno la storia e allora li avrebbe smaccati. In un modo o nell’altro si sarebbe vendicato di quel comportamento malsano e irriguardosi nei suoi riguardi. Come lui si pentiva di essere nato, anche loro avrebbero avuti rimorsi e si sarebbero pentiti di essere nati. I suoi parenti avrebbero avuto sue notizie. Come loro mandavano cartoline dei posti meravigliosi dove andavano, forse per ostentare, anche lui un giorno avrebbe mandato cartoline illustrate dall’estero. Un giorno anche lui avrebbe avuto la sua strada e loro avrebbero compreso chi era veramente. Non era un essere infingardo, lui voleva bene a tutti. Non era invidioso del successo degli altri. Solo che i suoi parenti volevano più bene a un suo cugino che aveva la sua stessa età, stravedevano per questo, che era vivace e scaltro. La sua vita agli occhi dei parenti era insignificante, monotona, priva di sostanziali divertimenti, soffocante, lugubre. Soprattutto lui non poteva sfoggiare abiti firmati e auto lussuose, forse per questo era malvisto. Non era una personalità, non aveva prestigio, non aveva conoscenze, non poteva fare favori. I suoi parenti prediligevano la gente che conta e scartavano gli umili. Lui invece si faceva amico degli umili. Erano agli antipodi, per questo si scontravano come macchinette nel luna park. Per i suoi parenti era da scartare per il suo aspetto esteriore, per la sua realtà familiare, per le sue debolezze, per la sua mancanza di prestigio e ricchezza. Si accettavano prevalentemente solo parenti ricchi muniti di auto lucenti, e case di lusso, di abiti eleganti, di sostanziosi conti in banca. Il fanatismo portava i suoi parenti ad avere un atteggiamento superbo. Uno di loro, che era divenuto deputato, aveva la puzza sotto il naso, e a malapena lo salutava quando lo incontrava. La sua umiltà, che gli aveva insegnato suo padre, grande maestro di vita, nonostante tutto, non faceva breccia nel loro cuore arido, legato solo agli interessi. Si vantavano di essere benestanti, perfetti, unici. Quello che facevano loro era tutto ben fatto. Se lui aveva il loro stesso comportamento in certi contesti era criticato. Significava che a loro era consentito tutto. Lui faceva parte del ramo povero della famiglia, quello tenuto in scarsa considerazione, quello che andava respinto, giudicato, criticato, torturato e molestato. Come se la povertà da sola non bastasse e bisognava per così dire aggiungere altri dolori oltre quelli patiti. Come se la povertà fosse una colpa personale, un marchio infamante, una traccia indelebile. Agli occhi dei parenti quindi non contavano minimamente le sue qualità morali, infatti osannavano solo gente scaltra e intrigante. Avrebbe scoperto in seguito a sue spese che non conta la moralità. Anche sul lavoro avrebbe compreso che non conta assolutamente il merito. Sul lavoro venivano premiati i più furbi e i più raccomandati. Ma lui avrebbe denunciato tutto questo in scritti, in articoli, avrebbe spifferato ai quattro venti la cruda realtà dei fatti. Essere persone per bene non era più un requisito essenziale. Anzi più si era corrotti e più si era stimati. I suoi parenti sapevano perfettamente che potevano fare a meno di lui, data la sua posizione infima nella scala sociale e lo ignoravano. Gli dimostravano la loro superiorità. Lui si estraniava sempre di più, si chiudeva a riccio, rifiutando qualsiasi tipo di contatto umano. Era discriminato, allontanato, recluso. Non poteva mostrarsi amico degli amici dei suoi parenti. Quando accadeva lo guardavano torvo come se fosse stato sorpreso a rubare un tesoro di estimabile valore. I loro amici erano soltanto loro. Se qualcuno aveva avuto un approccio con lui veniva subito richiamato all’ordine e la volta successiva cercava di evitarlo volutamente come fosse un appestato. Si sentiva braccato come un cucciolo di cervo inseguito da affamati mastini. Un suo cugino una volta fece una festa di compleanno a due passi da casa sua, era passato davanti alla sua abitazione con gli amici, e non si era degnato di salutarlo. Non lo aveva invitato al rinfresco e questo poteva passare, ma non lo aveva salutato. Una sua cugina aveva fatto una festa da ballo e non lo aveva invitato. Aveva visto parenti lieti di questa esclusione e parlando sottolineavano il luogo piacevole dove si svolgeva il convito. Si vergognavano di lui. Un giorno forse avrebbero fatto i conti con lui. Lui esigeva un chiarimento, una spiegazione. Non poteva proprio consegnarsi, per una questione di principio. All’eternità con questo peso sul cuore. Sarebbe andato da loro, gli avrebbe scritto, ci avrebbe fatto parlare un intermediario, ma avrebbe voluto sapere le ragioni esatte di tanto accanimento nei suoi confronti che pure era candido come neve, privo di colpe infamanti. Avrebbe chiesto candidamente il perché di una simile e massiccia esclusione. Lui veniva escluso, accantonato, messo da parte, forse intuiva per la sua mole, perché non faceva figura, per la sua timidezza innata. Ma se lui era una persona in difficoltà perché non lo aiutavano concretamente invece di insultarlo senza tregua? I parenti tutti intenti a vivere la loro vita spensierata, nemmeno sembravano accorgersi del suo malessere, del suo tormento interiore, del suo forzato isolamento. Andavano alle gite, in piscina, alle feste senza contattarlo, senza invitarlo a partecipare. Il loro atteggiamento crudele bruciava come il sale su una ferita aperta. I parenti tutti, nessuno escluso, erano distaccati, lo guardavano con sguardo critico, cinico, senza entusiasmo, non mostravano di volergli bene. Il nocciolo era solo quello, ed era fondamentale: non gli volevano bene, come a suo cugino che poteva fare tutto e lo difendevano sempre a spada tratta. C’era di fondo una mancanza di affetto sincero, di un sentimento profondo. Rivalità, invidie, gelosie, causate da prevalenti interessi economici, avvelenavano i rapporti tra di loro. Anche fra di loro serpeggiava l’invidia, anche ai suoi occhi si mostravano uniti e compatti. I suoi parenti volevano primeggiare su tutto, si sentivano superiori e se lui, qualche sporadica volta, casualmente, eccelleva in qualcosa veniva guadato storto, con disappunto, con invidia. Loro avevano ad esempio un giardino pieno di fiori e guardavano sospettosi il crescere stentato di un pallido fiore nel suo misero orticello. Quel fiore se avessero avuto la possibilità lo avrebbero estirpato con le loro mani possenti e voraci come piante carnivore. Questo accanimento era pura cattiveria. Lui invece gioiva del successo, del benessere degli altri. Non passava il tempo a controllare cosa facevano gli altri. Non guardava sempre agli altri, non li emulava, non li ostacolava. Ognuno era libero delle proprie azioni. I suoi parenti non volevano essere scavalcati, avevano paura che lui gli passasse avanti, che scalasse le vette del potere, del successo, quello a cui loro ambivano spasmodicamente. Loro, i parenti, erano invidiosi anche del successo di semplici conoscenti, tenevano d’occhio, di mira molta gente. Come se il loro benessere dipendesse da quello che facevano gli altri. Erano molto invidiosi perché consideravano il bene degli atri un male proprio. Temevano quindi un sorpasso da parte di lui, un lusso che non potevano permettersi. Essere superati da un essere stupido era una sconfitta pesante. Temevano soprattutto un superamento di tipo economico. Loro erano i grandi, gli eccelsi, quelli che potevano competere con gente influente, che avevano gusto per arredare la casa, che sapevano scegliere, che sapevano divertirsi, che avevano amici validi e famosi, che facevano viaggi favolosi. Le loro case erano ricche di mobili antichi, le loro auto erano moderne, il loro lavoro era di prestigio. Per invidia erano disposti a creare ostacoli al suo cammino. Ai matrimoni lo obbligavano a presentarsi in abito elegante, con auto presa a nolo, la madre doveva sempre indossare il cappello o la pelliccia, che di solito, si faceva prestare. Lui avrebbe preferito presentarsi con abiti propri, per correttezza. Era come se lui non fosse presentabile abbastanza, a causa anche della sua mediocre posizione sociale. A un certo punto il suo isolamento divenne naturale, spontaneo. Loro lo oscuravano, e lui di rimando, si ecclissava come un astro dietro un gruppo di nuvole minacciose e temporalesche. Non c’era verso, non usciva dal suo guscio, dal suo nido. Si era creato la sua nicchia, il suo habitat naturale e in quel nido caldo non faceva entrare nessuno, tantomeno i suoi parenti. La loro cattiveria era evidente, saltava agli occhi. Era un paradosso, avevano tutto l’oro del mondo e lo invidiavano per piccole sciocchezze di poco conto. Erano disposti ad ostacolarlo, a criticarlo mentre raggiungeva i suoi modesti obiettivi. Lo criticavano non lo aiutavano. Con il loro cuore di pietra non si commuovevano mai. Non piangevano mai, neppure ai funerali di parenti stretti, dove ostentavano uno sguardo gelido, indifferente, terrificante, altezzoso. Il funerale era una occasione per sfoggiare abiti eleganti e occhiali scuri firmati. I parenti lo inducevano a farsi da parte, lo spingevano all’angolo e lui obbediente ci andava senza ribellioni con un paziente bimbo dell’asilo. Solo loro dovevano avere fortuna, brillare. Nei discorsi lo soffocavano, gli impedivano di parlare, lo offendevano, esaltavano la propria casata. Era come se lui non fosse dello stesso ceppo, come se fosse nato da una stirpe diversa, inferiore, da emarginare. I suoi parenti con lui erano ermetici non raccontavano mai le loro sconfitte, i loro problemi di salute, i loro piccoli drammi quotidiani. Mentre tra loro si raccontavano tutto o quasi, con lui tendevano a mostrarsi sempre lieti. Nessuna ombra, nessuna nuvola passava sul loro cielo terso. Tra loro ovviamente si confidavano, raccontavano di un insuccesso a scuola, di una caduta, di un assillo economico, di una malattia. Con lui occultavano, nascondevano la verità quasi per fargli rabbia per far vedere a lui che erano esseri perfetti che nemmeno il destino intaccava. Eppure lui sapeva benissimo che non ci si può sottrarre alla febbre, a una rapina, a una giornata negativa. Tutti siamo vulnerabili, non siamo dei privi di umanità. Il suo parente deputato non lo aveva mai invitato a visitare i sacri palazzi, eppure poteva benissimo ricevere ospiti, avere delle visite. Ma lui era una persona impresentabile. Crescendo si era leggermente ingrassato e di conseguenza il suo carattere si era fatto più cupo, meno disponibile. Nei modi appariva più rude, più feroce, le sue risposte alle provocazioni cominciarono a divenire più taglienti. Di solito taceva ma certe volte prendeva fuoco come un filo di paglia incandescente. Stava crescendo velocemente, si stava trasformando, anche se il grasso rimaneva inalterato, come se fosse protetto da una buona stella. La sua voce mutava di intonazione, il viso di espressione, i suoi muscoli apparivano più tonici, ma era sempre un otre gonfio in cerca di identità, per giunta con un pessimo carattere. Certamente doveva fare qualcosa per cambiare il suo carattere, per mutare il suo aspetto. Alla gente interessava l’aspetto estetico, era prioritario. Lui invece era pigro, troppo trasandato, lasciava che il tempo passasse senza intervenire, si lasciava trascinare dagli eventi come una foglia al vento d’autunno. A un certo punto decise che l’unica soluzione era imparare un mestiere, un qualsiasi mestiere, anche se sapeva che i suoi parenti avrebbero disapprovato. Era apatico, non aveva ideali, sogni nel cassetto, preferenze. Tanto sul lavoro il problema del grasso sarebbe tornato a galla come una vistosa macchia d’olio. I colleghi avrebbero avuto da ridire, il capo non l’avrebbe certo mandato a rappresentare l’azienda magari all’estero. Sapeva già, perché lo aveva letto, che in America per le selezioni lavorativa era sempre richiesta una bella presenza. Le donne dovevano avere belle gambe e un sorriso smagliante, da capogiro, gli uomini un corpo scultoreo, perfetto come una statua greca, una voce virile. Non aveva vocazioni, inclinazioni naturali, non era portato per niente. Preferiva alla lunga dormire, perché quando dormiva la sua coscienza non esisteva, la sua memoria non era presente. Il sonno, specie senza sogni, gli dava l’oblio, l’assenza da mondo molto simile alla morte. Durante il sonno non era presente, non ricordava le sue fattezze, il suo essere. Era nato per sonnecchiare al sole nelle giornate di primavera, per cogliere papaveri nei campi d’estate, per inseguire le lucciole nelle notti d’estate, per accarezzare il gatto davanti al camino acceso, per portare a spasso la sua malinconia. Eppure ognuno di noi ha la sua missione da compiere su questa terra solo che lui non sapeva quale fosse la sua. Ignorava completamente il suo ruolo nel mondo. Forse era stato uno sbaglio di natura. I corsi di specializzazione gratuiti con la regione non lo entusiasmavano. Capiva che la formazione era importante ma anche che ci volevano molti soldi per prepararsi adeguatamente. Nei corsi aveva ritrovato gli stessi sguardi ironici, gli stessi sorrisi sarcastici, la stessa esclusione, la stessa reclusione. I colleghi lo guardavano come fosse un insetto repellente, lo giudicavano, criticavano il suo modo di vestire, di camminare. Gli insegnanti uomini avevano occhi solo per le belle ragazze appariscenti, che erano privilegiate. Tra colleghi si creava un feeling particolare, ma lui non era contemplato. Nella sua prigione guardava gli altri vivere e divertirsi. Spesso i gruppi di studio andavano a mangiare una pizza, ma lui si asteneva per non sentirsi dire che mangiava troppo, che era obeso, che non doveva prendere parte a simili incontri. Nell’imparare le lezioni avrebbe dovuto metterci passione, come dovrebbe avvenire per tutte le cose della vita, ma lui affrontava tutto con ansia, con le mani tremanti, il cuore in gola, spaurito, insicuro, senza entusiasmo. Le sconfitte, i brutti voti li viveva come incubi. Non si mostrava creativo, razionale, concreto. Era sempre distratto, con la testa fra le nuvole, e questo irritava i professori che lo rimproveravamo aspramente. Eppure non aveva via d’uscita: doveva fare qualcosa, si doveva sbrigare. Il tempo passava inesorabile, non lasciava scampo. Gli anni correvano alla velocità della luce. Detestava le situazioni senza via d’uscita e tante se ne presentavano alla sua porta. La stessa morte di suo padre era stata una situazione che l’aveva messo con le spalle al muro. Il destino tramava, tesseva la sua tela a sua insaputa. Lui non era il padrone assoluto delle sue azioni. La vita era sì tutta una questione di scelte, e sbagliare in alcuni casi era catastrofico e deleterio, ma era anche una questione di fortuna. Aveva sperimentato spesso sulla pelle i capricci della sorte. C’erano giornate che prendevano una piega inaspettata, lo spingevano ad agire, a scrollarsi di dosso l’inerzia. Mattine che usciva per fare delle compere e poi si ritrovava a casa di un amico di suo padre, incontrato appunto casualmente. Erano gli scherzi del destino, gli sgambetti che in certi casi diventavano lacci, inciampi. Ogni volta poi si trovava davanti a un bivio, dove volente o nolente, doveva in qualche modo scegliere. Alcune volte aveva scelto insicuro, a collo storto, in preda allo sconforto. Spesso si era subito pentito della scelta fatta ma non aveva potuto porvi rimedio. Alcune volte era troppo tardi. Arrivava sempre tardi all’appuntamento con la felicità, perché non era scaltro. Si lasciava sfuggire letteralmente di mano le occasioni più ghiotte, gli incontri più sensazionali. Quante volte avrebbe voluto rinunciare a scegliere, poi però era stato costretto a prendere una posizione. Aveva imparato a sue spese che era necessario quasi sempre schierarsi. La sua innata insicurezza lo portava a non sapere mai da che parte stare. Alla fine la sua scelta si era sempre rivelata, per uno scherzo del fato, la peggiore in assoluto. Non era intuitivo, duttile, pronto, svelto. Inoltre una sorta di sfortuna lo accompagnava, come se attirasse le negatività. Un’aura pesante lo circondava. Più era triste e pessimista più gli accadevano fatti sconcertanti. Un occhio malefico seguiva il suo cammino come un corvo segue una preda con occhi rapaci. Ormai non si stupiva più quando qualcosa andava storto. Non capiva come mai il destino si accaniva proprio con le persone semplici, oneste, deboli e indifese come lui. Forse il peggio doveva ancora venire, forse non aveva pagato abbastanza per essere nato senza un compito, senza un ruolo. La vita nel suo complesso gli sembrava insignificante e scialba, priva di attrattive, una trappola per animali sprovveduti. In seguito a una visita oculistica accurata dovette indossare gli occhiali. Il colpo vibrò in tutta la sua durezza. Ora aveva toccato il fondo. Sapeva che ogni volta che si tocca il fondo c’era sempre una possibilità di risalita. Forse anche lui si poteva risollevare se solo ci avesse messo un po’ di fiducia. Un evento esterno, improvviso spesso rimette ordine nel caos. Portare gli occhiali da vista per un adolescente come lui significava ovviamente perdere fascino, apparire più brutto, specie agli occhi delle donne, che guardava con sempre maggiore interesse. La sua natura di uomo cominciava ad emergere fra i fumi di una infanzia sprecata. La notte era insonne, si rigirava ne letto agitato, il sudore gli colava per la schiena. Era ricorso agli psicofarmaci per dormire ma gli procuravano solo sogni agitati neri come incubi e la mattina si svegliava con la bocca amara e la testa pesante. Per dormire non trovava rimedi e così ogni giorno diveniva sempre più pallido e incerto. Alla fine, quando non né poteva più, aveva trovato delle pillole alle erbe che lo riportarono docilmente verso un sonno naturale. Era uscito dal tunnel, dal buco nero, aveva risalito il fondo, l’abisso. Con gli occhiali avrebbe avuto il coraggio, la forza, di guardare negli occhi una ragazza piacente? Ignorava il fascino di certe montature, di certe personalità. Gli occhiali potevano risaltare, o non essere notati per niente se si possedeva un carisma. All’inizio si fece confezionare, per arginare il problema, occhiali scuri, in modo che sembrassero da sole. Quando vide che la vista né soffriva si fece montare lenti trasparenti come vetri, sottili. Le montature che sceglieva erano sempre piccole, argentate, dorate, mai grossolane, non dovevano quasi vedersi. Capiva che nelle sere d’inverno non era agevole girare con gli occhiali scuri, richiamava l’attenzione della gente, l’ultima cosa che desiderava al mondo. Il problema restava sul tappeto solo parzialmente risolto. In certe circostanze tornò a indossare gli occhiali scuri, specie quando doveva parlare con qualcuno autorevole, autoritario, quando doveva fare qualcosa di scabroso. Gli occhiali scuri gli davano forza, gli infondevano coraggio. Poteva vedere senza essere visto. Con gli occhiali scuri diventava più audace, più intraprendente. In occasione di alcuni colloqui spinosi, con fanciulle, con parenti, aveva indossato occhiali scurissimi. Così occultato era apparso più disinvolto. Tuttavia il risveglio al mattino era sempre doloroso, come se avesse conficcata una spina nel fianco. Alzarsi significava collocare di nuovo sul naso quegli odiosi occhiali antiestetici. Se avesse avuto più soldi forse si sarebbe operato. La sua famiglia era del ceto medio. Aveva preso l’abitudine di non guardarsi allo specchio. Ora gli amici di strada, di gioco lo prendevano di nuovo in giro, forse con più accanimento, avendo trovato un nuovo elemento per discriminarlo ulteriormente. Il quadro era ormai completo: una persona obesa, con gli occhiali, timida, povera, senza nessuna attrattiva. C’era tutti gli elementi per impazzire. A quindici anni aveva bisogno di stimoli, di incontri elettrizzanti, di novità, di divertimenti. La sua vita era uno spettacolo monotono: un mare calmo senza nemmeno un onda che increspa la superficie. Desiderava un cambio di rotta. In un giardino di un piccolo paese vicino, sperduto e degradato, mentre trascinava a stento la sua solitudine tetra, conobbe, su una panchina una ragazzetta polacca della sua età. Ormai aveva quasi diciassette anni e tanta voglia di cambiare. L’incontro lo visse con gioia, sembrava rimetterlo in sesto. Temeva che fosse solo un fuoco di paglia. Per lui era stato un incontro importante, un incontro che lo allontanava dalla depressione. La ragazza era esile come un fuscello, gracile, timida, con spaventati occhi azzurro, lungi e lisci capelli biondi. Parlava bene l’italiano perché faceva la badante presso una ricca famiglia di possidenti. Era la dama di compagnia di una vecchia signora avanti con gli anni. Attirava derelitti come una calamita, i suoi simili gli erano intorno, non lo lasciavano mai. La ragazza era fragile, imbranata, con la voce flebile e lo sguardo perso che faceva venir vogli di proteggerla. Ma lui Dario non poteva difenderla, era lui stesso bisognoso di cure, di attenzioni. Era ancora un bimbo affamato di affetto. Trovava conforto solo fra le braccia del dio del sonno Morfeo, grazie a delle fantastiche pillole verdi alle erbe. Lui non poteva darle nulla di vivo, solo pensieri funerei come nubi cariche di pioggia. Non poteva corteggiarla perché l’avrebbe spaventata. Il suo unico desiderio invece era quello di abbracciarla, di stringerla forte. Scopriva la tenerezza soffusa e incerta del primo amore acerbo. La graziosa bimba aveva un profumo intenso che divenne un grande richiamo per i suoi sensi sopiti. Non era capace a corteggiare una ragazza, era maldestro, infantile, ridicolo. Come avrebbe preso la ragazza le sue smancerie, il suo interessamento? Non poteva spingersi su un terreno che non era il suo, di cui ignorava le leggi più elementari. Nessuno gli aveva insegnato ad amare, nemmeno i suoi partenti più stretti. Il matrimonio dei suoi genitori gli era apparso sempre tradizionale, convenzionale, rispettoso delle regole ma privo del sale della passione. Aveva ricevuto una educazione rigida dove l’amore e il sesso non potevano essere nemmeno nominati. Non era abituato a esprimere sentimenti, in altre parole con le ragazze non ci sapeva fare. Violet poi era la prima che gli era capitata, e forse sarebbe stata l’ultima. Violet era impacciata, piena di rossori e di paure. Aveva lasciato a malincuore la sua famiglia per guadagnarsi da vivere in un paese straniero dove la gente facoltosa aveva in serbo per lei solo quello sguardo sprezzante e divertito. Lei guardava oltre, ammirava le stelle, il suo sguardo volava alto, sapeva che non era colpa sua se la sua famiglia era priva di risorse. Aveva appena diciotto anni e già sapeva tutto della vita, dei sacrifici per studiare, delle lotte per guadagnarsi onestamente da vivere, delle insidie del mondo, della paura del domani, dell’incertezza del presente. La sua famiglia originaria era allo sbando: suo padre disoccupato, due fratelli licenziati da poco, una madre casalinga dagli occhi sempre velati di pianto. Lavorava presso una famiglia benestante, dove cucinava, rifaceva i letti, puliva, accompagnava la signora anziana. Un lavoro dignitoso, di routine, che non lasciava spazio alla speranza di evolversi. Le classi elevate rimanevano tali, tutto come prima mentre lei sprofondava dalla vergogna per essere considerata una semplice colf, una collaboratrice domestica pagata a ore. Il lavoro era a tratti umiliante quando le nipoti della signora, sue coetanee, la maltrattavano e la guardavano con aria di superiorità. Loro avevano tutto e lei niente. I soldi che guadagnava non erano molti e doveva rimandarli a casa. Negli ultimi tempi si era arresa, aveva deciso in cuor suo di ritornare in patria, specialmente da quando il figlio sposato della signora le aveva messo gli occhi addosso. Era un piccolo fiore che non passava inosservato e che andava colto. Sapeva che molte donne accettavano la corte di uomini anziani nei posti di lavoro per fare carriera, ma lei non voleva scendere in basso. Voleva essere una serva ma non una meretrice. La situazione si era fatta insostenibile, l’uomo la braccava, entrava nella sua camera con una scusa, la assediava. Non osava confidare al suo nuovo amico la sua situazione drammatica. Avrebbe frainteso, non avrebbe capito. Qualcuno l’avrebbe accusata di essere una provocatrice. Aveva sognato ingenua un riscatto che non era mai avvenuto. La realtà era stata deludente come un deserto di sabbia. La realtà era di molto inferiore alle sue aspettative. Era stata costretta dal destino a una vita grama, a mandare giù bocconi amari. Nella sua vita precaria non vi erano spiragli di luce. Solo quell’amico conosciuto al parco che forse in cuor suo voleva anche lui, come tutti gli uomini che incontrava, qualcosa di più di un’amicizia. Ma lei aveva il cuore chiuso, serrato in una morsa e poteva dare solo una pallida amicizia. Non sapeva amare nessuno le aveva mai insegnato come si faceva. Il cuore era freddo come un lago ghiacciato d’inverno. Non voleva impegnarsi, fidanzarsi, non voleva mettere al mondo altri miserabili come lei. Lei avrebbe interrotto la catena delle nascite inutili. Il lavoro era triste, il pane che mangiava nella sua stanza da sola era amaro come fiele. In quella vita non vi erano gratificazioni, soddisfazioni. I giorni scorrevano tutti uguali fra il bucato e i panni da stirare, fra un insidia e un batticuore. Era stanca di essere assediata da un uomo adulto, repellente, volgare, sudicio. Le sue mani allungate sul suo corpo la facevano vomitare. Per le persone povere come lei c’erano poche possibilità, solo il disprezzo sistematico dei ricchi, dei potenti. Meglio era allora vivere con dignità fra la propria gente, nel suo ceto, nel suo mondo fatto di piccole cose, di piccoli pensieri nascosti. Non poteva continuare a essere schiava in una terra straniera che si stava rivelando ostile. La moglie dell’uomo se si fosse accorta di qualcosa le avrebbe dato la colpa e l’avrebbe magari licenziata. La testimonianza degli umili non conta. Dario era stato molto attratto da lei. Una simpatia spiccata lo spingeva verso di lei. Si domandava perplesso il perché di tanto desiderio. Non capiva cosa stava accadendo dentro di lui, nelle sue viscere. Forse era stato attratto da lei perché lei era nella sua stessa barca, nella sua stessa condizione. Era invisibile, povera, inutile proprio come lui. Lei non si vergognava a parlare con lui. Erano simili come due gocce d’acqua che hanno subito lo stesso identico trattamento e sono state racchiuse in un recipiente chiuso ermeticamente. Erano due anime perse nel buio del mondo che avanza, due isole sperdute nell’oceano del male. Il male era annidato ovunque intorno a loro, e loro non erano sempre cos’ abili a scovarlo, quindi a combatterlo. Erano destinati a soccombere inevitabilmente. Una invisibile e sottile barriera divideva fra loro le classi sociali. Anche negli affari di cuore la posizione sociale era determinante. Nessun uomo ricco e potente avrebbe mai sposato Violat, solo magari nelle favole e nei film. Le donne per essere accettate nel bel mondo dovevano essere bellissime. In certi ambienti poi nemmeno la bellezza riusciva a sfondare le porte chiuse. L’amicizia di Dario era stata sicuramente un balsamo per le sue ferite profonde. Dario dal canto suo aveva trovato in lei conforto. In fondo era stato un incontro fra umili in attesa perenne di un riscatto. Erano due anime affini, semplici, sperdute nel mare, due isole lontane e irraggiungibili. Erano due zattere alla deriva nel mare in tempesta che vagavano disperate alla ricerca della felicità. Felicità che toccava solo invece a una determinata categoria di persone, gli altri erano esclusi a priori. Si poteva essere felici anche senza niente, perché la felicità era uno stato interiore, una condizione dello spirito. Lei si era aperta con lui, nei colloqui successivi, perché le ispirava fiducia. Gli occhi di Dario erano sinceri, limpidi, profondi, specchio della sua anima pura, incontaminata, innocente. Anima che solo il destino avverso macchiava di gocce di veleno. Entrambi non osavano fare il male perché avevano sperimentato sulla pelle tutte le conseguenze del male. Il male resta male anche se è solo pensato. La loro non era una relazione amorosa, ma solo una solida amicizia. L’amicizia alcune volte è più potente dell’amore. L’amore sfuma, si stempera, si trasforma, si spegne ma l’amicizia può rimanere inalterata nel tempo, restare eterna. Lui non osava sfiorarla nemmeno con un dito, la guardava con rispetto e ammirazione. Tuttavia quella creatura gli apparteneva più che se l’avesse posseduta. Nei suoi pori, nella pelle sua sentiva il palpito del suo cuore distrutto. Dario la sentiva nel sangue, vibrare nel suo cuore. Era innamorato visto che ormai vedeva il mondo con gli occhi di lei e sentiva ogni sua emozione. Lei gli era penetrata nel sangue, sotto la pelle, nelle pareti stesse del cuore. Erano entrambi timidi e vederli insieme generavano una strana e infinita tenerezza. Nel periodo in cui fu amico di Violet tutti i suoi problemi passarono in secondo piano, nel cuore aleggiava una specie di speranza. Dario aveva un bisogno concreto di punti di riferimento e Violet era un punto, un tassello importante di riferimento. Dario si sorprese del suo cambiamento, non pensava più agli occhiali, al modo di vestire, al suo corpo ingombrante. Violet non gli faceva pesare nulla, sembrava accettarlo senza condizioni, ma solo come amico, come amico lo accettava senza riserve. Lui era contento di aver fatto breccia per la prima volta nel cuore tenero di qualcuno. Non gli sembrava vero. Trascorrevano insieme ore liete, non felici perché per loro la felicità coincideva con l’avere tutte le carte in regola e loro non le avevano. Il destino aveva giocato sporco con loro. Le carte che avevano da giocare sul tavolo della vita erano impresentabili, erano carte che si potevano solo truccare se si voleva vincere, ma loro non volevano bleffare. L’amicizia dava frutti più succosi dell’amore. L’amore poteva esaurirsi come una stella cadente, dopo la passione focosa iniziale. Infatti spesso dopo un periodo di intenso coinvolgimento l’amore precipita nel baratro dell’indifferenza e i sentimenti diventano cenere, solo un ricordo sbiadito dal tempo. L’amicizia cresce ogni giorno, supera le difficoltà. Dopo una assidua frequentazione Dario si era adagiato. Aveva relegato il suo amore nel fondo del suo cuore e aveva accettato l’amicizia con Violet. Tanto non sapeva da dove cominciare, non era stato educato all’amore vero, al sesso. Lei gli serviva come l’aria che respirava, come il profumo della sua pelle che aspirava ogni momento. Violet partì in un mattino piovoso d’autunno. Il cielo spesso piangeva per quel distacco. Sarebbe tornato solo su quella panchina di marmo. Era tornata in Polonia. I giorni senza lei erano lunghi e noiosi, senza luce né calore. Qualcosa si era schiantato dentro di lui, si sentiva mancare la terra sotto i piedi. Vagava come un automa per il paese senza concludere nulla. Le aveva promesso con le lacrima agli occhi che sarebbe andato a trovarla. Gli mancava la sua voce carezzevole, suadente, simile a un bisbiglio, le sue mani tenere come quelle di un bimbo. Non poteva affrontare il lungo e estenuante viaggio in Polonia, soprattutto non aveva disponibilità economiche. Avendo l’indirizzo scrisse a Violet una lettera accorata in cui la invitata a fidanzarsi con lui, non si sarebbe pentita. Capiva che scrivere gli riusciva più facile che parlare. Con il tempo adottò sempre di più questo sistema di comunicazione. Voleva comunque stabilire un contatto diretto con le persone. Scrivendo non doveva più celarsi, poteva uscire allo scoperto. La risposta di Violet fu fredda come una doccia gelata. Rispondeva in tono glaciale. I suoi fratelli che vegliavano su di lei, le impedivano di frequentare uno straniero. Non poteva più nemmeno scriverle, le sue lettere sarebbero state intercettate e censurate. Quindi non contava essere una brava persona, onesta, sincera, bastava appartenere a una nazionalità, a un continente per essere esclusi, eliminati, tagliati fuori. Dario poi rifletteva tutto solo di fronte all’epilogo della vicenda. Cosa poteva dare a una ragazza lui che nemmeno lavorava, che apparteneva a una famiglia media ed era un essere informe? Le giovani donne hanno bisogno di sicurezza, di stabilità. Solo chi aveva tanti soldi, anche se era poco gradevole fisicamente, poteva permettersi di frequentare le donne più appetibili e belle. Per lui la strada dell’amore, come le altre, era accidentata, piena di buche. Per dimenticare Violet doveva stravolgere la sua vita, mutare abitudini, uscire dal quel cerchio di fuoco stretto. Doveva abbondonare quei luoghi che l’avevano visto felice con lei. Doveva ricostruirsi una vita altrove. Quei luoghi gli davano fastidio. Lì non lavorava, oziava senza meta e veniva sempre risucchiato dai pettegolezzi che non si smorzavano mai. L’ambiente paesano, angusto, gli cominciava ad andare stretto. Aveva bisogno di una grande città, di ampi spazi dove perdersi fra la folla per annullarsi definitivamente per annullare i ricordi, per immergerli in un nuovo paesaggio dove forse avrebbero risaltato come l’ultimo guizzo di un fuoco d’artificio destinato a spegnersi. Aveva un amico del padre che lavorava a Torino e che più volte lo aveva invitato. Viveva solo e lavorava come operaio in una fabbrica. Prese la palla in balzo e gli scrisse. A Torino avrebbe portato anche sua madre, in fondo i legami parentali, dopo la morte del padre, erano ridotti al lumicino. Sua madre, in quanto nata in un’altra regione, era stata vista dai parenti e soprattutto dalle donne del parentado come una straniera. Loro erano cresciute insieme, erano state amiche da giovani e quindi lei era un corpo estraneo che tentava di innestarsi su un tessuto già compatto. Lui Dario poi era solo il figlio della straniera, un po’ goffo e maldestro. Il suo sangue era stato infettato, contaminato da quello di una straniera, per quanto brava potesse essere era di un’altra razza. Non era facile togliersi dal cuore quella ragazza bionda, specie alla sua età, così affine a lui, così dolce nel carattere. Lei aveva negli occhi, impresso nella carne come un marchio il suo stesso disgusto per la vita, per le convezioni sociali, per gli abusi, per la divisioni in classi, per le ingiustizie sociali, per il lutto, per le sofferenze, le malattie, per la guerra, per le lotte di potere estreme, per la sofferenza. Violet era solo un’isola persa, venuta al mondo per caso, sprovveduta come lui, insicura, imperfetta. Amava in lei soprattutto la sofferenza che traspariva nei suoi occhi brillanti che era anche la sua. Lei era paradossalmente lo specchio di se stesso, il riflesso del suo volto scavato e emaciato dal dolore acuto del vivere. Violet era quello che sarebbe stato lui se fosse nato donna. Se lui fosse stato una donna avrebbe odiato le insidie degli uomini, avrebbe apprezzato l’onestà di uno sguardo sincero, avrebbe amato l’educazione, il rispetto, l’eleganza dei modi e degli abiti. Avrebbe rifiutato violenze, oscenità e volgarità. Avrebbe amato l’amicizia sincera e l’amore puro. In lei vedeva se stesso perennemente in lotta per un misero pezzo di pane, senza sale. La battaglia per la sopravvivenza era dura, si rischiava di rimanere feriti sul campo. Violet era stata travolta dai flutti, sconfitta, prima ancora di affacciarsi alla vita, costretta a tornare su i suoi passi. Il sogno di un futuro di benessere era naufragato, si era infranto. Era tornata al suo paese più povera di prima, senza nemmeno una speranza nel cuore. Frustrato, annientato Dario comprese che doveva per forza dimenticare, chiudere quella parentesi che era stata un vero bagliore di luce vivida. Ora tutto era ripiombato nella notte. Il suo animo strisciava fra i muri di una città sconosciuta. A Torino aveva preso alloggio in un caseggiato in periferia vicino all’abitazione dell’amico. In quella periferia tutto era squallido, avvolto nella nebbia. Non riusciva ad integrarsi, a trovare una sua dimensione. Solitamente restava silenzioso per ore nella sua stanza al quinto piano di un anonimo palazzo grigio. Appariva svagato, privo di vitalità, sornione come un gatto, apatico, privo di energie. Violet che era tanto simile a lui lo aveva respinto, aveva chiuso la porta per sempre, non aveva accettato nemmeno una corrispondenza epistolare. Se lo respingevano persino i suoi simili significava che era la fine. Dove trovare conforto.
Dario non sapeva su quale spalla piangere, con chi sfogarsi e aprire il cuore. Forse non avrebbe avuto più fiducia di nessuno, soprattutto nessuna donna lo avrebbe più incantato. Era stato allontanato senza tante parole, respinto nell’oblio della dimenticanza come una autentica nullità. Era come un granello di sale perso nel vento gelido di Gennaio. Lei forse aveva preferito dimenticarlo perchè lui non aveva una posizione sociale, un lavoro dignitoso, di prestigio, non aveva nemmeno un lavoro decente, non aveva una casa bella. Inoltre non era allegro e neanche bello. Si sentiva come un’isola perduta nell’oceano, lontana dalle rotte principali, dimenticata da tutti, odiata per i suoi venti impetuosi, per le sue sabbie bollenti, come una terra di nessuno, una zona franca, lontana dal mondo civile. Nessuno ovviamente si sarebbe mai sognato di visitare un’isola disabitata, percorsa da vortici, senza attrattive, priva di vegetazione, sconquassata da gelidi venti, priva del necessario. Era consapevole di essere un’isola remota, una lingua di terra destinata a scomparire forse prematuramente. Era un’isola che scompare nel nulla nello stesso modo come è apparsa. Nel mondo ci sono milioni di isole che compaiono all’improvviso e poi dopo alcuni anni, secoli spariscono senza lasciare traccia, senza che qualcuno si sia accorto della loro esistenza. Sono terre silenziose, tristi. dove il vento fa da padrone, insignificanti, dove non ci sono piante rigogliose e frutti succulenti, dove la terra è arida, dove regna sovrana la desolazione. Perchè allora nascono queste isole che non servono a nulla? Si sentiva lasciato alla deriva come una zattera, ora che pure la dolce Violet gli aveva clamorosamente voltato le spalle in via definitiva. Lui avrebbe accettato anche una semplice amicizia pur di non perderla. Quell’unica finestra che lui aveva aperto verso il mondo era stato grazie a Violet. Lei era l’unico punto di contatto che lui aveva stabilito con il mondo. Ora tutto era perduto, il legame spezzato. Sarebbe di nuovo riuscito a stabilire un rapporto con le ragazze, con la società, con il mondo? L’esperienza con Violet l’aveva svuotato, distrutto, inasprito, tanto che non riusciva più a concentrarsi, le giornate trascorrevano lente e oziose. La mattina si alzava tardi, ciondolava per casa senza meta, con la mente vagava alla ricerca disperata di un appiglio sicuro. Nel pomeriggio, subito dopo pranzo, usciva per bighellonare per le vie e le piazze del centro. Spesso si recava in qualche bar senza meta. Nelle serate fredde e gelide d’inverno le trascorreva nel tepore di una sala di lettura di una biblioteca comunale. Non aveva vizi, non beveva, non fumava, non aveva amici perfidi, non aveva ambizioni, non era cattivo. Eppure nessuno sembrava apprezzare le sue qualità nascoste. Era docile come un cane, non creava problemi.

Sono proprio le persone oneste quelle che pagano un prezzo più alto degli altri, dei furbi, degli spregiudicati. Apparentemente era tranquillo, il volto sereno, serafico ma non era così forte come voleva apparire. Aveva imparato a mostrarsi noncurante, indifferente mentre dentro moriva ogni giorno un pò. Tuttavia non voleva soccombere al destino avverso. Sin da piccolo aveva percepito intorno a sè un’aura negativa, una specie di cappa fatta di rabbia, gelosia, disprezzo, una sorte avversa che lo perseguitava, che lo inseguiva, una sfortuna che si mostrava anche nelle piccole cose quotidiane. In ogni circostanza ci aveva sbattuto il muso pesantemente mentre altri passavano indenni. Ogni errore, anche minuscolo, lo aveva pagato caro. Si bagnava sempre quando non portava l’ombrello, sul tram c’era sempre qualcuno che lo perseguitava con frasi ingiuriose, la sera quando rincasava c’era sempre un gruppetto di ragazzi pronti a dargli filo da torcere con parole offensive e turpi. Non c’era scampo nemmeno nei negozi, al mare, dal fornaio, al mercato. Incontrava sempre il sorriso arcigno delle donne, il loro sguardo che si soffermava sul suo corpo informe, e le parole taglienti di uomini fatti. Se esisteva una giustizia divina tutti quei denigratori dovevano sputare sangue. pagare per il male che facevano. Lo complessavano, lo mettevano in ginocchio, lo massacravano, non lo facevano respirare. Un giorno forse ci sarebbe stato un riscatto, avrebbe avuto il suo giorno di trionfo. Aveva dubbi sulla esistenza stessa di Dio. Dio non c’era nelle discriminazioni, nelle rinunce, nel dolore, nella malattia, nella guerra, nelle divisioni in classi. Quando cadeva prostrato non c’era un Dio disposto ad accoglierlo tra le sue amorevoli braccia. Dio era preso dal suo mondo. Solo più tardi avrebbe compreso che è proprio attraverso la sofferenza che l’anima si redime e purifica, diventa umile, paziente, docile come un agnellino. La sofferenza serve per crescere spiritualmente, per migliorarsi, per ritrovare se stessi. Se l’uomo fosse sempre felice senza dolori sarebbe superbo, infingardo, tiranno, altezzoso, convinto di essere perfetto. La sofferenza, sia fisica che spirituale, sublima l’anima, la riscatta. Nel momento del dolore, della malattia, si sente quasi sempre la necessità di pregare, di avvicinarsi a Dio. Comunque niente accade per caso. Dario molto lentamente avrebbe compreso questa lezione, era troppo giovane e come tutti i giovani voleva tutto e subito, senza inutili attese. Invece la sua vita fu tutta una lunga e paziente attesa. Non era soddisfatto della piega che avevano preso gli eventi ma non poteva farci nulla. Del resto chi è completamente soddisfatto della propria vita? Forse le attrici che si lasciano intervistare nelle riviste e che, con il sorriso sulle labbra, dicono di essere al top e forse, anzi sicuramente, mentono spudoratamente. A ognuno capita un mal di denti, una malattia, un lutto, nessuno è immune. Eppure certe persone si comportano come se fossero immortali, come se a loro fosse tutto dovuto. Stanco e deluso Dario pensò bene di dedicare il suo tempo alla ricerca di un lavoro. Con pochi titoli e attestati non avrebbe fatto molta strada. Sin dall’inizio incontrò moltissime difficoltà. Non aveva nessuna esperienza e molte aziende chiedevano una esperienza alle spalle e una discreta cultura. Ma se lui era al primo impiego come poteva aver maturato delle esperienze? Eppure nella realtà dei fatti tutti cercavano persone esperte del settore. Nel silenzio della sua stanza aveva maturato il proposito di dimagrire per apparire in forma nel colloqui di lavoro. Aveva così cominciato una dieta povera di zuccheri, di grassi, molto ristretta, drastica, ferrea. Doveva trovare la forza di farla con attenzione. All’inizio si era sentito leggero come una farfalla e dimagriva a vista d’occhio, poi però erano cominciati i problemi seri. Aveva avuto palpitazioni cardiache, capogiri, ronzii alle orecchie, affaticamenti visivi e poi un senso di estraneità, una mancanza paurosa di concentrazione. Non riusciva a ricordare, a coordinare, a capire, a leggere, a orientarsi. La notte sognava ma i sogni erano incubi popolati di demoni. Il giorno dopo con la testa pesante non riusciva a combinare nulla. Un pomeriggio, dopo giorni in cui mangiava pochissimo, fu colto da malore e costretto a raggiungere un pronto soccorso. Era pallido, emaciato, con la pressione bassa, le pupille dilatate. Nessun passante si era degnato di soccorrerlo. Lui era rimasto lì con davanti agli occhi come un velo di nebbia fitta. Non riusciva più a vedere i contorni nitidi degli oggetti, del mondo. Solo quando si era ripreso aveva potuto raggiungere l’ospedale a piedi. Era fuori di sé, completamente svuotato. Si sentiva come dentro una bolla di sapone, lontano dal contatto con la realtà. Sapeva che molte donne erano anoressiche e che per colpa della linea finivano per rimetterci la vita. Il suo corpo reagiva male alla dieta, si affievoliva, perdeva forza e vigore. Si stava asciugando ma a un prezzo altissimo. I muscoli perdevano tonicità, i ricordi svanivano dalla sua memoria per lasciare spazio a un enorme vuoto. Si muoveva, camminava come un automa. Era come se stesse dentro una campana di vetro e guardasse stupefatto gli altri vivere. Non mangiare o mangiare poco significava per lui abbassamento della vista, diminuzione di concentrazione, perdita parziale della memoria, fibrillazioni cardiache, dolori al capo, crampi muscolari, dolori addominali, svenimenti, collassi, capogiri, dolori articolari. Il suo cervello aveva bisogno dello zucchero per carburare, il suo stomaco aveva bisogno degli alimenti per sopravvivere, per non morire di crampi, la sua vista aveva bisogno urgente di vitamine. Il suo fisico così come era strutturato non gli consentiva di seguire fedelmente diete rigide. Doveva trovare un compromesso se voleva evitare simili e frequenti disturbi. Per dimagrire doveva cercare altre strade, inventarsi metodi più efficaci e meno compromettenti per la sua salute. Eppure vedeva molti seguire diete ristrette e riuscirci con estrema tranquillità. Non capiva come mai il suo fisico fosse così particolare. Era veramente sfortunato. Dopo mesi di sofferenze inaudite, di malesseri strani fu costretto a sospendere la dieta che gli aveva dato un signore del palazzo, non poteva permettersi un dietologo. In fondo era troppo timido per consultare uno specialista. Le visite mediche lo innervosivano sempre. Il fatto di doversi spogliare, raccontare i propri problemi lo irritava. Era riservato al punto di non voler confidare ad anima viva i suoi crucci. Del resto molti occultavano i propri problemi di salute, persino la causa di morte di alcuni familiari. I parenti di morti di cancro cercano di non dire la causa della morte, per una sorta di pudore, di riserbo, per non apparire agli occhi degli altri come dei marchiati. La conseguenza di quella dieta era stata tutta una serie di problemi psicologici di notevole entità. Dopo quella dieta ebbe un attacco di panico in un bar. Lo visse come una incursione area nel suo quieto cielo. L’attacco era durato poco ma a lui era parso un’eternità. Un ‘eternità dentro quel senso opaco di sconfitta, entro la morsa di un mostro senza volto, oscuro, che proveniva da dentro di lui e che non riusciva a sconfiggere pienamente. Il mostro come un drago malefico mangiava e risucchiava le sue viscere. Era stato preso a laccio come un cavallo imbizzarrito, ribelle ma libero. La morsa dell’attacco di panico stringeva il cuore fino a strizzarlo come uno straccio vecchio. Di nuovo quel senso di impotenza, di inutilità. Era precipitato in quell’attacco perché quella vita scialba, senza meriti, gli stava stretta come scarpe nuove appena comprate. Sentiva il fiato sul collo della noia, l’odore fetido del dolore, gli aghi penetranti del rimorso, del rimpianto. Rimpiangeva tutto sommato il periodo dell’infanzia quando era più spensierato, anche se non era stato un momento allegro. L’infanzia aveva avuto le sue spine e ora le spine dell’adolescenza e della giovinezza gli sembravano più pungenti. Per entrare nel mondo degli adulti ci voleva una chiave speciale che lui non possedeva, una formula chimica speciale che lui ignorava. Per questo rimaneva eternamente bambino e si guardava introno smarrito. Gli altri non solo non lo aiutavano ma lo schernivano. La cosa peggiore che esisteva al mondo non era il dolore, la morte ma la solitudine nera della morte. Tutti di fronte alla morte erano soli. Anzi alcuni si isolavano con proposito, andavano a morire lontano come fanno molti animali braccati, molte specie animali. La morte diviene solo un fatto privato in cui gli altri restano fuori. Si cerca di portare via in fretta la salma per poter poi rimmergersi di nuovo nel mondo, per stordirsi con gli oggetti del mondo, per distrarre i propri cupi pensieri. Successivamente una febbre alta, maligna, simile a un virus, aveva attaccato le sue membra. Il fisico si ribellava ai suoi maltrattamenti e si vendicava. La febbre non gli dava tregua giorno e notte, lo assaliva con una prepotenza inaudita. Il fisico indebolito dalla dieta aveva ceduto il passo a un virus letale che si manifestava con vomito, febbre alta, tosse. Stremato era vissuto per mesi chiuso dentro casa per curarsi, per debellare quella malattia. Durante la malattia aveva scoperto anche l’esistenza di calcoli renali e i medici erano stati costretti a intervenire chirurgicamente. Durante la malattia il suo umore era peggiorato. Poche erano le persone che erano giunte a fargli visita, la maggior parte erano impegnati nel teatro tragicomico della vita. I mille impegni non davano tregua a nessuno. Nessuno si recava a far visita a un malato, a portagli una ventata di aria fresca, una parola di conforto. Passava i pomeriggi a leggere struggenti romanzi d’avventure e d’amore, a bere del tè zuccherato, a fare progetti per il futuro. Nonostante tutto voleva uscire dalla palude del male e si sforzava, si impegnava per la riuscita. Il suo animo combattente favorì la ripresa. Lo slancio della sua anima fu benefico per la ripresa del suo corpo. Voleva fare qualcosa nella vita di concreto, lasciare una traccia, risollevare sua madre già prostrata dai tanti dispiaceri. Una sua sorella si era separata dal marito ed era andata a vivere negli Stati Uniti. I matrimoni dei tempi moderni non reggevano più. Le coppie scoppiavano come palloncini colorati in aria. Non c’era più comprensione, rispetto, educazione solo soprusi e sopraffazione, menzogne e ipocrisie. Vedeva coniugi antagonisti fra loro, rivali, in continua competizione su tutto, come se l’altro fosse un estraneo, non la persona scelta e amata. I tradimenti erano all’ordine del giorno, le bugie, le lotte, le insicurezze. Se una donna pensava di essere protetta da un uomo nel matrimonio si sbagliava di grosso. Le donne, anche le più fragili, anzi soprattutto loro venivano lasciate al loro destino, abbandonate magari per gli occhi di una ragazza più giovane e più bella. La bellezza che entrava prepotente negli affari di cuore lo agitava. Forse per il fatto di non essere bello non si sarebbe mai sposato, eppure lui aveva il sentimento che gli scorreva nelle vene, era passionale, bisognoso di affetto, leale. Il suo cuore era un vulcano pronto a esplodere, i suoi sensi erano sempre all’erta. Già al tempo della malattia aveva capito che non ci sarebbe stato nessuno al suo fianco, solo sua madre che lo seguiva come la madonna seguiva Gesù al calvario. Molte dolorose stazioni della via crucis della sua vita erano state fatte, altre bisognava ancora farle. Eppure riflettendoci bene sapeva per certo che non aveva fatto niente di male, anzi, in certe situazioni aveva cercato di aiutare gli altri. Nessuno aveva compreso, nessuno aveva capito i suoi sforzi sovrumani per essere sempre e comunque una persona onesta. Un libro del marchese De Sade parlava però apertamente delle sventure della virtù e lui cominciava a crederci. Perché il destino non lo lasciava in pace e si accaniva con lui con una vera forma di persecuzione. Anche i parenti lo perseguitavano, lo agitavano con parole irriverenti. Al suo capezzale erano giunti pochi parenti, alcuni avevano portato caramelle, cioccolatini, avevano fatto una visita di cortesia ed erano spariti inghiottiti nel nulla. La freddezza dei rapporti la si vedeva da quelle frasi stentate, fatte a denti stretti, da quel sorriso tirato, da quelle strette di mano glaciali, da quelle eleganti scatole di biscotti le stesse che si portano a uno sconosciuto, a un amico. Lui era quindi un parente di serie b, da tenere a bada anche con un comportamento formale, poco coinvolgente. In fondo lui chi era? Era un mostriciattolo che finora aveva combinato solo guai, era caduto, si era ammalato ma non aveva apportato al parentado una ventata di ottimismo. Con lui i parenti non si divertivano. Se lui si fosse sposato, avesse fatto feste, ricevimenti, organizzato cene sarebbe stato ben accolto. La sua malinconia invece dava fastidio, era deleteria. Il periodo della malattia fu lungo e tedioso come una strada monotona priva di vegetazione. Dario in cuor suo cercava ancora un riscatto per risalire. Dopo la malattia i problemi, gli assilli tornarono tutti come vespe a pungergli il cuore. Il problema principale era il lavoro che non trovava. Lo stato avrebbe dovuto, una volta terminati gli studi, fornire lui stesso agli studenti uno sbocco lavorativo. Invece la gente era costretta ad arrampicarsi sugli specchi per avere una raccomandazione. Ci voleva una raccomandazione pure per fare la donna delle pulizie, il commesso, pure per fare mestieri giudicati umili e manuali. Riuscì,con un contratto a termine, a lavorare come commesso in una catena di supermercati., grazie alla segnalazione dell’amico del padre Il mondo ostile però ancora lo teneva di mira non aveva mollato la sua presa. Era di nuovo sotto scacco e non poteva sottrarsi visto che non poteva fuggire, come di solito faceva. I colleghi erano insipidi come una minestra di verdure, i superiori lontani. Tutti lo evitavano come la peste. La colpa forse era sua che non sapeva farsi amare. Di fronte a un insulto, a una allusione si chiudeva a riccio, non parlava più risultando antipatico. Forse se avesse superato l’impatto negativo, se fosse stato più malleabile avrebbe fatto breccia nel cuore degli altri. Ma il suo maledetto orgoglio lo spingeva a stringere i pugni e a combattere con le stesse armi. Ai musi lunghi, ostili rispondeva con lo stesso sguardo minaccioso. Nella sua scala di valori interiore, che lui stesso ignorava consapevolmente, l’orgoglio, la tigre che c’era dentro di lui, era al primo posto. L’orgoglio lo faceva ruggire di rabbia ma solo internamente, fuori non si ribellava più di tanto, anzi alcune volte soccombeva. Se si fosse mostrato meno arcigno, più sorridente forse avrebbe conquistato gli altri. con una collega, che lo aveva deriso, aveva tentato la strada della riconciliazione. Aveva fatto finta di nulla e l’aveva persino difesa cercando di penetrare nel suo animo, di entrare nelle sue grazie. Un giorno l’aveva incontrata fuori dall’ambiente di lavoro, viso a viso, ma lei, in pubblico, non si era degnata di salutarlo era proseguita nella sua marcia lanciandogli una occhiata eloquente di rifiuto. Si era sentito morire. Quindi quando si presentava l’occasione lui tentava un approccio diretto, più familiare con gli altri ma i nodi restavano legati, non si scioglievano. Gli altri mettevano paletti, erigevano muri, diventavano come bunker impenetrabili. Sul lavoro erano frequenti le allusioni, anche aperte, alla sua costituzione pingue. Aveva sentito dei colleghi parlare di lui ma caso strano non lo chiamavano con il suo nome di battesimo ma con il termine: barattolo. I nomi che gli mettevano erano sempre gli stessi più o meno: bidone, boccia, ecc. In pausa pranzo molti gli consigliavano di non mangiare. Il totale digiuno poteva essere un rimedio naturale. Loro non sapevano che lui aveva già sperimentato l’assenza del cibo e i risultati erano stati catastrofici. Molti gli indicavano l’uso di potenti pillole dimagranti che lui aveva sperimentato e che gli avevano bruciato lo stomaco. Le aveva tentate tutte: massaggi, corse, sport ma senza apprezzabili cambiamenti. Non capiva perché non potessero accettarlo per quello che era: un essere umano. Non pretendeva di far parte della vita privata dei suoi colleghi ma almeno un saluto, un gesto di simpatia, una frase gentile. Un sorriso amico poteva farlo risorgere. La mattina quando si alzava per andare al lavoro aveva la bocca amara, dovuto anche al digiuno della sera. La sera, per il fatto che poi andava a dormire, non si concedeva una cena sostanziosa, ma leggera. Il suo dramma era che non poteva nemmeno invitare a cena un amico, una donna. La mancanza di una presenza femminile nella sua vita cominciava a farsi sentire. I l digiuno sessuale non era una passeggiata. I colleghi non si limitavano alle invettive, gli facevano dei dispetti come al tempo dell’asilo. La gente era cresciuta ma i comportamenti erano rimasti gli stessi, tutto era immutato. Un giorno per dispetto gli rubarono il pranzo e lo gettarono nella spazzatura, dove lui lo ritrovò. Aveva gli occhi pieni di lacrime, ma non poteva farsi vedere abbattuto. Non voleva dar soddisfazione ai suoi nemici. Ma poi perché gli avevano dichiarato guerra? Era un continuo bersaglio di aspre critiche. Veniva offeso quasi ogni giorno. Cercava di assumere un’aria composta ma dentro l’inferno bruciava con le sue fiamme rosse. Un fuoco divoratore prendeva le sue viscere e le faceva gemere. Sentiva distintamente il grido di orrore dentro di lui. In quel contesto lavorativo si sentiva inadeguato, certe mansioni, a causa del suo peso, non erano per lui. Avrebbe voluto reagire ma temeva percosse, calci, pugni. Era già successo in passato, perché non poteva ripetersi? Era terrorizzato. Sui giornali leggeva di gay massacrati di botte, oltraggiati e temeva per la sua pelle. L’idea del suicidio era stata accantonata definitivamente. Infatti ora lui viveva solo per vendicarsi, per un riscatto, per dimostrare che valeva qualcosa. Era una questione di onore e di puntiglio. La timidezza mascherava un orgoglio smisurato. Al lavoro era indifeso, solo, precario, altri avevano contratti vantaggiosi e lo sottolineavano gradassi. I colleghi mangiavano in gruppo nei locali, lui si rifugiava in un cantuccio con un semplice panino. Il problema non era quello che mangiava, era una predisposizione genetica. Ribellarsi, rispondere agli oltraggi con insulti non era per lui una strada percorribile, era educato. Appariva così sempre remissivo e spingeva gli audaci a comportamenti sempre più palesemente offensivi. Nessuno era disposto a difenderlo, forse poteva farlo solo un diverso come lui che pativa le stesse ingiurie. La gente tendeva a schierarsi per logica con il più forte. Lui era l’anello debole della catena, destinato a spezzarsi, a schiantarsi. In quei pochi mesi di lavoro si trascinava come un automa, incapace persino di lavorare seriamente. Si sentiva impacciato, gli sembrava che tutti gli occhi fossero puntati su di lui. I clienti del supermercato lo rimproveravano per la sua lentezza, si lamentavano del suo comportamento chiuso. Ma come poteva aprirsi se intorno c’era una landa solitaria? Se solo qualcuno gli avesse dato il la, fornito gli elementi per uscire dal pantano in cui si trovava. Demotivato si lasciava andare. I superiori cominciarono a rimproverarlo con ferocia. Quando veniva ripreso i colleghi godevano. L’unica sua colpa era quella di non essere esteticamente perfetto. Aveva chiesto lui di avere quel corpo gigante? Perché nessuno lo comprendeva? L’odio degli altri nasceva dalla sua anormalità. Allora perché suscitava sdegno e non parole amorevoli? Se era stato sconfitto dalla vita perché doveva anche subire l’affronto degli altri? Si accanivano con lui come se non avesse già abbastanza problemi. Lo bandivano da qualsiasi conversazione, lo allontanavano. Le donne dipendenti scambiavano solo laconiche parole con lui. Avrebbe dovuto trovare un lavoro in cui era solo o magari creare qualcosa ed essere stimato per la sua genialità. Se si fosse distinto con qualche azione eclatante avrebbe ottenuto il plauso degli altri. Cercava conferme, voleva appoggi. Il disagio cresceva ogni giorno di più. Per salvarsi si nascondeva in bagno o fingeva di telefonare, di ascoltare musica per non sentire le battute salaci. In particolare c’era una sua collega, Anastasia, che non faceva altro che atteggiarsi. Parlava solo dei suoi viaggi, del suo mondo dorato fatto di locali alla moda e abiti eleganti. Non si era mai degnata di invitarlo a una cena, a una festa di compleanno, almeno per pietà. Lei fissava le sue gambe con aria visibilmente disgustata. Le sue parole erano parole di sfida, accettate che sporcavano di sangue la sua pelle giovane. Era battuto, ferito, spezzato come un ramoscello. Solo le braccia della madre erano un rifugio caldo, ma non poteva abbracciarla i parenti lo accusavano di essere un ragazzo poco cresciuto. La mancanza di comunicazione con gli altri accresceva enormemente la sua timidezza, la sua introversione. Ogni giorno di più si chiudeva in se stesso, diventava ermetico come uno scrigno la cui chiave è stata gettata. Il suo diario la sera si riempiva di malinconiche poesie. Non diceva a nessuno che scriveva per non essere considerato idiota e ridicolo. Era diventato un barattolo chiuso, in fondo tale lo giudicavano. Il silenzio e l’impassibilità erano le sole armi che possedeva per difendersi. Era costante, preciso anche di fronte all’insulto più grave restava immobile, come se fosse insensibile, di marmo. Noi spesso ci comportiamo male pensando che gli altri siano solo dei burattini senza fili in nostra balia, dei pupazzi senza nerbo. In realtà il cuore gli batteva forte nel petto e le pulsazioni si sentivano alle tempie. Il cuore accelerava la sua corsa come un bimbo inseguito da un cane feroce. Il sudore acre gli imperlava la fronte e non riusciva nemmeno a dire una parola. La depressione era in agguato con tutte le sue conseguenze. Fu durante questo periodo sottotono che fu colpito da una infezione polmonare. Era come se il fisico avesse accumulato un’energia negativa e la risputasse fuori a distanza di tempo. Il corpo si sfogava a suo modo. Il suo animo prostrato aveva favorito suo malgrado l’innesto della malattia. Per curarsi dovette raggiungere un luminare nella capitale, spendendo un patrimonio. Il tempo, durante la convalescenza, lo trascorreva scrivendo un diario e leggendo assiduamente. La lettura come la scrittura erano una preziosa valvola di sfogo. Di nuovo nessuno si recava a trovarlo come se il suo vivere in punta di piedi fosse ignorato da tutti. Era lui in fondo che si era autoescluso dal banchetto della vita. Passava i pomeriggi con i libri, gli unici compagni di viaggio amici, gli unici che non l’avevano mai tradito. Tra le braccia della letteratura si sentiva confortato. Le poesie struggenti di Sergio Corazzini, dei crepuscolari erano il suo pane quotidiano. Si immedesimava nella sofferenza dei poeti. La loro tristezza era la sua. Sua madre non gli bastava, voleva di più. Voleva una fidanzata innamorata, affettuosa, colleghi leali, amici sinceri. Non chiedeva la luna. Voleva una vita normale come tutti: una casa accogliente, una fidanzata fedele, un lavoro decente, un automobile, occasioni di svago. Ogni volta che tentava di divertirsi subiva delle umiliazioni incredibili allora preferiva starsene in un angolo, seduto in una panchina del parco, in un bar, in mezzo alla gente per guardare gli altri vivere senza dare nell’occhio. Trascorreva tranquilli pomeriggi a casa, tra le pareti domestiche si sentiva sicuro. A fatica usciva di casa, temeva sempre di imbattersi in qualche scocciatore. Alcune volte cambiava strada se vedeva qualche pericolo. La sua era una vita blindata, non vissuta. Quali peccati doveva scontare per essere costretto a quella prigione? La sua vita somigliava sempre più a quella di un recluso. Evitava di frequentare certi luoghi, certi locali, per paura di incontrare persone ironiche nei suoi confronti. Ora che la sua cura dimagrante era fallita si sentiva perduto. Quel periodo di cura era stato un vero tormento, non aveva mangiato quasi nulla e in cambio si era ammalato, era diventato anemico e depresso. Le malattie lo assediavano, tamponava una falla e subito si apriva una voragine. Il suo corpo massiccio era fragile come panna. Si era iscritto a una palestra ma anche lì aveva sentito risolini quando non riusciva a fare un esercizio. Dovunque andava era come se fosse un appestato, si portava dietro la sua personalità contorta, il suo corpo informe. L’opinione della gente su di lui non mutava se si mostrava bravo e onesto. Le sue qualità morali non venivano notate. L’impatto visivo era quello che contava. Stanco di essere considerato un pagliaccio abbandonò la palestra dopo solo sei mesi. Non era disposto a continuare su quella strada, si sentiva accerchiato. Il pensiero di andare in palestra lo faceva soffocare. Le cose belle si trasformavano in un incubo come per un maleficio. I più grandi divertimenti si rivelavano delle delusioni. Solo nella sua stanza piangeva disperatamente. Aveva deciso di abbandonare ogni tipo di sport, specie quelli competitivi. Doveva evitare per sempre il confronto con gli altri. Aveva finito per odiare l’agonismo, la competizione sfrenata. Ormai faceva il suo ingresso nell’età della gioventù. Qualche sera aveva deciso di andare a ballare, per fare come gli altri, nella speranza remota di imparare qualche passo. Nelle discoteche, in mezzo al caos, alla confusione, si sentiva più solo che mai. Nessuna donna sembrava accorgersi di lui, era invisibile. Aveva tentato qualche approccio ma senza risultati. Le ragazze che piacevano a lui erano tutte abbracciate a uomini e ragazzi Nei locali avevano notato la predilezione per le avventure, tutti aspiravano a divertirsi senza impegno. I sentimenti sbocciavano con difficoltà. Gli amori duravano poco e si esaurivano nel giro di una sera. Lui invece avrebbe voluto una storia duratura, impegnativa. La sua vita aveva poche carte in mano e doveva sapersele giocare, ma lui era come un pulcino nella stoppa. Non era in grado di intrigare una donna. Uomini più brutti di lui di viso mietevano successi. Non era una questione di bellezza ma di fascino. Lui era privo di una spiccata personalità, quella che colpisce con la sola presenza. Il locale, la balera non erano fatti per lui. Lui non amava per principio, per l’educazione rigida che aveva ricevuto, le avventure galanti, l’alcool, le bravate, il fumo. La sua eccessiva onestà dava fastidio. Se fosse stato più galeotto anche con il suo aspetto si sarebbe imposto. Molte donne grasse, ma vestite moderne, truccate si facevano notare. Bastava essere più lascivi, più trasgressivi. Si era reso conto che per le questioni sentimentali giocava un ruolo fondamentale l’aspetto fisico. La bellezza unita alla ricchezza faceva faville. I Play boy famosi erano tutti belli e maledettamente ricchi. Lui non solo era brutto ma non aveva molte risorse economiche. Cosa poteva offrire a una donna? Non certo gioielli e pellicce. Doveva accontentarsi, non guardare solo le donne splendide, non erano per lui. Le cose che non erano per lui cominciavano ad essere troppe. Doveva accettare una donna mediocre, magari più grande di lui, magari malandata, trasandata, povera. Non poteva conquistare una donna con il fascino, con il potere del denaro, a cui molte donne, specie vanitose, non sanno dire di no. Sicuramente non si sarebbe mai innamorato. I sentimenti dovevano essere repressi. Su questo era certo: nessuna si sarebbe mai innamorata di lui. Doveva concepire per forza un futuro senza amore. Era accaduto proprio a lui che aveva una natura così passionale. L’idea di vivere una vita senza affetti lo faceva star male. Il fatto era che si sottovalutava, che non aveva fiducia in se stesso. L’assenza d’amore, di sesso, gli faceva venire le vertigini. Eppure si doveva per forza rassegnare. Doveva convincersi che per lui non c’erano possibilità e non ce ne sarebbero mai state. La sua vita sarebbe stata solitaria, avrebbe visto gli altri godere dell’amore, sarebbe stato uno spettatore. Quando chiedeva da ballare a una ragazza sapeva già la risposta. Gli altri ballavano stretti alle proprie ragazze incuranti di lui. Seduto sul divano della discoteca si confondeva con la tappezzeria. Era un puro elemento decorativo. Ogni volta sospirava di dolore. La vita futura era un inferno, caratterizzata da una costante lotta alla tetra solitudine. Avrebbe dovuto affrontare tutte le questioni da solo. Non aveva amici validi. Sarebbe andato dal medico da solo, al mare, ma fino a quando avrebbe resistito? Si può sopravvivere così senza gridare? Caratterialmente non era forte e questo elemento giocava in suo sfavore. Se almeno avesse avuto un carattere forte, battagliero! invece era tenero e ingenuo come un bimbo piccolo. Chiunque astutamente avrebbe potuto raggirarlo. Non credeva più in se stesso, non credeva in Dio, perché gli aveva voltato le spalle. Si demoralizzava perché sapeva che crescendo non sarebbe cambiato. Le bastonate della vita forse l’avrebbero maturato e reso più audace ma non meno onesto. L’onestà poteva essere un handicap, doveva essere più aggressivo, più egoista. Invece si lasciava trascinare come un turacciolo dalla corrente e subiva gli alti e bassi della marea della vita. Era come una isola sbattuta da furiosi flutti. La ricerca affannosa di un porto tranquillo era destinata a restare infruttuosa. Il porto veniva avvistato e mai raggiunto. In lontananza vedeva il molo, l’approdo, ma poi accadeva qualcosa che lo portava inesorabilmente indietro. Era una lenta agonia, una discesa nel buio. Nella sua coscienza c’erano solo barlumi di speranza. Spesso era abbattuto. La sua depressione si manifestava con lunghi silenzi, vomito, nausee, capogiri, mal di testa, apatia, dolori addominali, palpitazioni. Non riusciva a provare interesse per nulla. Tutto gli scivolava addosso senza scuoterlo. Solo la musica ogni tanto aveva il magico potere di renderlo sereno. La musica gli forniva un benessere momentaneo. Finita la musica tornava musone, orso, come prima. Intanto il lavoro a termine al supermercato era finito era stato richiamato solo una volta in occasione delle festività natalizie. Mentre la gente si dava a spese pazze in occasione delle feste lui lavorava a testa bassa. Vedeva la gente ben vestita, in compagnia entrare al supermercato e il cuore gli si stringeva in una morsa. Lui solo, costretto a lavorare, sconsolato. La soluzione migliore nell’immediato era la ricerca di un altro lavoro più stabile. Ma lui non aveva conoscenze nelle alte sfere. Non aveva raccomandazioni, non aveva particolari vocazioni. Si mise alla disperata ricerca di una occupazione, dissipando energie. Più volte fu raggirato, truffato da società fantasma che promettevano un lavoro stabile e ben remunerato. All’ufficio di collocamento era solo un numero, nessuno si curava di lui. Procedeva cauto, prudente ma faceva molti buchi nell’acqua. La ricerca del lavoro si rivelava un fallimento, nella ricerca sbatteva le ali come una farfalla chiusa in uno stanzino. Non riusciva a fidarsi di nessuno, nessuno lo aiutava. Nel suo diario annotava, raccontava tutte le peregrinazioni fatte per trovare una occupazione dignitosa. Le porte della miseria gli si spalancavano davanti. Non avrebbe avuto uno stipendio, una pensione, un sostentamento. Viveva solo con la pensione di sua madre, che aveva il volto sempre più smunto. A sua madre aveva dato solo preoccupazioni. Si sentiva responsabile. Per il lavoro aveva chiesto a tutti, aveva spedito curriculum a molte aziende, ma nessuna si degnava di rispondere anche solo per respingerlo. Faceva dei concorsi pubblici ma la vista di quelle folle oceaniche di giovani lo deprimevano ancora di più. Quante illusioni in quelle anime giovani! ormai si era perduto e vedeva altri perdersi. Era perplesso di fronte alla piaga della disoccupazione che i politici di turno non erano disposti ad arginare, tutti intenti a fare carriera. La storia si ripeteva, i giovani del popolo non erano considerati, non trovano un lavoro decente. Doveva arrangiarsi mirare in basso, raso terra se voleva farla franca. Doveva puntare su lavori umili. Nessuno lo notava, non aveva titolo specifici, riconoscimenti, non era parente di persone influenti. Era estremamente difficoltoso trovare un lavoro, a meno che non ci fosse stato qualcuno disposto a segnalarlo e ad aprirgli le porte del mondo del lavoro, porte inaccessibili. Alla fine trovò un lavoro come operaio, grazie alla segnalazione di un sindacalista che viveva nel suo quartiere. Era un lavoro di routine, privo di attrattive, che non dava soddisfazioni.
Agli occhi dei potenti, dei grandi era un piccolo granello di polvere insignificante, da guardare dall’alto in basso e spesso lo facevano con aria tracotante e sguardo fermo. Lui non si lasciava intimidire sapeva che prima o poi si esce dalla scena del mondo e anche i potenti non hanno scampo. La loro è una semplice recita su un palcoscenico provvisorio pieno di crepe.

Ester Eroli

 

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