Capitolo sesto: la ricerca di un lavoro (Romanzo: Isole Perdute – di Ester Eroli)

Capitolo sesto la ricerca di un lavoro(Romanzo Isole Perdute – di Ester Eroli)Aveva cominciato con buoni propositi. Si sarebbe impegnata fino in fondo, avrebbe buttato sangue. La laurea in tasca, quando ancora contava l’istruzione, i corsi fatti alla regione, gli attestati conseguiti la rassicuravano. Nelle questioni bastava metterci impegno e passione e le cose sarebbero venute con sé, in automatico. Aveva le sue conoscenze, il suo bagaglio, avrebbe fatto fortuna almeno in quel campo. Se la strada del matrimonio era preclusa quella del lavoro le avrebbe reso giustizia. Era lontana anni luce dalla cruda verità. Non cercava lavori altolocati, importanti, di prestigio. Solo un posto di impiegata, di insegnante che era il lavoro che sapeva fare meglio. Aveva cominciato a scrivere un diario in cui annotava minuziosamente tutte le strade percorse, intraprese per ottenere un lavoro. Pagine e pagine scritte fitte si accumulavano come le delusioni sulla sua anima stanca di girare. La ruota della fortuna girava a vuoto, la fortuna non la guardava in faccia. Il diario si arricchito di pagine, di inserti, senza approdare a un risultato. Nel diario erano annotate date, incontri, concorsi, corsi formativi, telefonate, abboccamenti, appuntamenti. Le pagine del diario riportavano una sequenza di atti da lei compiuti che avevano portato solo a una perdita di tempo e denaro senza risultato. Aveva fatto domande, partecipato a concorsi, si era iscritta a corsi, circoli culturali, politici, religiosi, aveva persino chiesto un posto per bidella, per donna delle pulizie, per inserviente, per operaia. Aveva scritto a case editrici, a enti religiosi, a scuole private, a centri sociali, si era incontrata con sindacalisti, consiglieri comunali, ispettori del lavoro, assessori, deputati, dottori, avvocati. Aveva pensato a uno studio medico, di avvocato, a una agenzia di viaggi, a una mensa, a un ufficio di anagrafe statistica, a un centro della Caritas, a un presidio sanitario, a una sezione di partito. Aveva fatto raccomandate, inviato lettere, scritto curriculum fino a notte fonda. Poteva in teoria fare qualsiasi lavoro generico, d’ufficio. Poteva fare l’impiegata, la commessa. Si era iscritta regolarmente all’ufficio di collocamento dove però più volte era stata raggirata. Era stata persino depennata dalla lista astutamente ma lei era risuscita a prenderli in castagna e a farsi ricollocare nella lista. Il suo nome per anni era figurato tra le lunghe liste anonime dei disoccupati. I concorsi erano pieni di gente, di giovani ed era improbabile riuscire a spuntarla. Era come vincere a una lotteria internazionale con milioni di concorrenti. Quella massa di gente le faceva venire la pelle d’oca. Milioni di disoccupati, eserciti di gente senza lavoro, senza nessuna prospettiva concreta, senza speranza. Giovani del sud, ragazze del nord, uomini fatti che avevano perso il lavoro precedente e si rimettevano in pista armati solo di pazienza e buona volontà. Lei doveva essere umile accettare anche il lavoro più insignificante, non certo disonesto, illecito, ma semplice. Non poteva pretendere l’impossibile. I lavori di rilievo non erano per lei erano per i figli dei potenti, per i dirigenti, per i figli dei politici di spicco. Molti dirigenti di aziende le avevano fatto proposte fuori dal comune, l’avevano invitata, le avevano promesso un lavoro in cambio di carezze. C’erano mezzi illeciti, strade dissestate, contorte per arrivare al lavoro. C’erano compromessi, inciuci, insidie, malefatte, per ottenere un lavoro anche il più banale. Persino le donne delle pulizie avevano il loro protettore, erano raccomandate, seducevano i capi della ditta. Ovunque imbrogli, corruzione, malaffare. Posti ottenuti in cambio di voti, con strane trattative segrete. L’unico lavoro che era riuscita a trovare era come baby sitter presso una famiglia agiata. La bimba da tenere, da accompagnare a scuola, da accudire era viziata, dispotica, intrattabile. La guardava dall’alto in basso, la insultava. Aveva la stanza piena di giocattoli e il cuore privo di pietà. Sarebbe diventata una donna cinica e altezzosa. Lo si vedeva dal portamento, dal modo di parlare, dallo sguardo altero. La sua stessa madre era superba, la umiliava, la feriva con parole taglienti. Era considerata come una serva, lei che era laureata, di buona famiglia. A nulla serviva la sua educazione. A nulla serviva portare costosi regali alla bambina, che li pretendeva come un tributo. Ogni giorno la piccola voleva un giocattolo nuovo, un dolce nuovo, qualcosa di entusiasmante, di diverso. Pretendeva la puntualità, che lei indossasse abiti firmati, che fosse arrendevole. Lei si lasciava andare alla deriva, plasmare come creta. Non rispondeva male, non si accaniva a farsi rispettare. Era un tappetino nelle mani della piccola e di sua madre. Spesso la mandavano ad assistere i bimbi di una loro cugina. La mandavano da una parte all’altra, persino a fare la spesa, a ritirare la posta. Era una serva tuttofare, una schiava sottoposta ai loro voleri, senza dignità, senza personalità. La sera quando rincasava si sentiva perduta, svuotata, priva di nerbo. Lei non conosceva nessuno, non aveva appoggi politici, raccomandazioni e quindi doveva restare nel limbo del nulla fatto di nebbia. Non cercava raccomandazioni perché per principio non le voleva. Non voleva scavalcare gli altri con una semplice spinta. Entrare con una raccomandazione significava ai suoi occhi usurpare un posto che sarebbe spettato a un altro. Se era una donna di fascino poteva sperare in una buona stella. I concorsi pubblici si rivelano un bluff. Non avendo raccomandazioni non veniva chiamata e poi c’erano le spese per le raccomandate e per i libri per la preparazione e per i bollettini. Per prepararsi in modo adeguato ai concorsi studiava materie di ogni tipo: ordinamento degli ufficiali giudiziari, procedura penale, ecc., studiava dalla mattina alla sera come una pazza, senza neanche mangiare. Quello studio arricchiva le sue conoscenze ma non era proficuo. Intanto la madre della piccola Carla l’aveva licenziata perché sua figlia voleva una governante che sapesse le lingue. Il tempo perso sui libri dei concorsi la rendeva nervosa. Era frustrante e disgustoso vedere gente incapace occupare posti di rilievo perché avevano le loro conoscenze mentre tutti gli altri, per un tozzo di pane, dovevano fare i salti mortali. Il bilancio della sua vita era ancora passivo: era sola, senza nessuno, senza amici, con una laurea che non valeva niente, senza sostentamento, senza prospettive future. E’ vero era una donna colta, paziente, serena, gentile, educata, rispettosa, graziosa, ma tutto questo evidentemente non bastava, non serviva, non serviva in amore non serviva ai fini di un lavoro. Certe doti, certi requisiti non servivano. La serietà non era un valore. Non si apprezzavano le persone tranquille, serene, pure. Le persone furbe, contaminate erano più stimate. Per avere un minimo successo bisognava vendere fumo, essere intraprendenti, dire bugie, e in ultimo anche vendersi. L’idea di vendersi la ripugnava. Quante donne spinte dal bisogno si erano vendute?, erano cadute nelle trappole di uomini audaci, senza scrupoli che si erano approfittati. Il lavoro come diritto che diventa una tortura, una schiavitù. Uomini predatori che avevano collezionate prede in cambio di lavori da poco. Un malcostume che continuava, che si celava dietro le pieghe del viso di uomini cosidetti perbene, che avevano una famiglia, dei figli. Tornavano a casa tracotanti e avevano il coraggio di guardare in faccia la moglie. Erano abituati al lezzo, al puzzo della loro anima lercia. Erano uomini cinici che non credevano all’esistenza del bene, all’esistenza dell’anima, che si prendevano gioco di anime innocenti, che rubavano il sorriso sul volto di fanciulle in erba. Poi naturalmente c’era il rovescio della medaglia. C’erano donne disposte a tutto pur di fare carriera che provocavano volutamente, che si vendevano di proposito, che diventate dirigenti erano dispotiche, superbe, infami, oppressive. Donne che sfruttavano il loro ascendente sugli uomini per raggiungere le vette del potere, per dominare, per prendere finalmente il posto che era sempre stato appannaggio privilegiato degli uomini. Era una rivincita pagata a caro prezzo, con il sudore della fronte. Donne che perdevano la faccia, la dignità per il successo. Il potere poi si rivelava denso di solitudine, pieno di rancori e rimorsi. Infine il potere si rivelava non duraturo, gli incarichi si susseguivano, come le nomine, come le poltrone. Niente era eterno e si combatteva per tornare magari allo stesso punto di partenza, come il giro intorno al mondo. Dopo le avance di qualche direttore malvagio di qualche ditta anonima aveva sempre conati di vomito, febbre, malesseri strani. Tornava a casa pallida come un cencio. Come donna agli occhi del mostro di turno appariva debole e indifesa, la preda ideale. Molti pensavano che lei era disponibile, disposta allo scambio. Molte donne erano state ingannate e non avevano ottenuto il posto promesso. Non poteva dare carta bianca a uomini da galera. Le donne si perdevano e chi si era persa veniva sempre giudicata negativamente, additata. Intanto le poche amiche che aveva si erano tutte fidanzate, e vivevano con lo stipendio del marito. A cercare lavoro andava da sola, con gli occhi sempre più tristi. Alcuni datori di lavoro le facevano capire che se voleva lavorare con loro si doveva vestire più sexy, i suoi abiti erano monacali. Quanti ostacoli c’erano ancora nella sua vita? Era una prigioniera, un anima bella con la palla al piede, incapace di volare. Era nata libera ma ufficialmente era schiava di certi sistemi, di antiche e radicate consuetudini, difficili da sconfiggere specie quando non si voleva. Tirare troppo la catena della prigionia non serviva. Eppure lei desiderava conquistarsi l’autonomia, l’indipendenza economica, per non dover dipendere da nessuno, per non dover dipendere da un uomo. Dove andava a trovare lavoro trovava porte sbarrate, chiuse, persino nelle chiese, persino nei conventi, nelle biblioteche. Spesso dai colloqui di lavoro fuggiva inorridita, le condizioni imposte erano disumane. Alcuni uffici erano luoghi pieni di intrighi. A un certo punto il lavoro era diventata una ossessione che le faceva perdere il gusto della vita. Stava solo perdendo tempo lontano mille miglia dalla strada giusta. Cosa sapeva fare in concreto, in cosa eccelleva? Cosa le rimaneva, un pezzo di carta privo di valore, una manciata di orgoglio, pochi spicci in tasca, la faccia ancora pulita ma non sapeva fino a quando. Per prepararsi a un ipotetico concorso studiava sodo, usciva poco. Spesso i concorsi li rinviavano, li cancellavano, li eliminavano in un gioco perverso di specchi. Molti corsi erano a pagamento e spendeva soldi inutilmente. Non faceva vita sociale viveva come una larva nel suo bozzolo. Si sentiva insicura, irresponsabile i suoi l’avevano sempre protetta ed ora era fragile come una canna al vento. I parenti, gli amici invece di incoraggiarla la deridevano o la scoraggiavano. Sua madre la accompagnava in ogni colloquio nel timore di altre sconvolgenti avance. Sua madre era l’unica fedele amica, sempre al suo fianco, sempre disposta ad aiutarla. La accompagnava alle biblioteche a fare le ricerche, nelle visite mediche. In quel periodo studiava per i concorsi pure la domenica. Del resto poi a che serviva uscire se poi veniva maltrattata dalle amiche e incontrava sempre uomini sbagliati. Quelli che le piacevano erano tutti svitati, per il gusto delle donne di farsi del male. Gli uomini più sono play boy e più godono del favore delle donne. Quelli bravi non le piacevano in nessun modo e li scartava. Non si sentiva ancora pronta per il mondo del lavoro, non era abbastanza matura, non era abbastanza donna. Non sapeva scegliere, non sapeva quello che voleva. Aveva imparato a controllarsi, ad essere meno impulsiva ma aveva ancora tanta strada da fare per rimodellare il suo carattere. Per fortuna la questione amorosa era archiviata definitivamente. Non si sarebbe più scottata al fuoco dell’amore. Non riusciva ad innamorarsi più, il suo cuore era di ghiaccio, gelato. I nuovi idoli li demoliva subito trovando mille difetti. I pochi anni di pratica amorosa l’avevano inaridita, il risultato era che non provava più niente per nessuno. Una cosa l’aveva capita, ed era a suo avviso, fondamentale: non doveva mai parlare di questioni spiacevoli con gli uomini, in particolare dei suoi problemi. Doveva farsi vedere sempre allegra, sorridente, sempre felice, come se la felicità si potesse racchiudere in un barattolo o fosse un profumo da spruzzarsi a piacimento a seconda delle necessità. Gli uomini volevano la spensieratezza, l’allegria, e lei doveva recitare la parte dell’eterna contenta con la morte nel cuore. Con gli uomini, con i colleghi, non parlava mai di libri, di malattie, di farmaci, di funerali. I panni sporchi li lavava in casa e fuori si mostrava normale, serena, alcune volte allegra. Allora a che serviva avere un compagno se non ci si poteva sfogare? Non poteva raccontare ad anima viva i suoi assillanti problemi di lavoro. Se a qualche ragazzo aveva confidato, i primi tempi, che non lavorava questi si era dileguato. Tutti volevano donne vigorose, fisicamente perfette, sempre sexy e realizzate nel lavoro. Gli ingredienti della miscela erano sempre gli stessi. Se si avevano tutti i componenti, tutte le carte in regola, tutti i requisiti si poteva accedere al concorso di fidanzata perfetta. Tanti ragazzi una volta trovata la fidanzata ideale si lasciavano andare anche ad avventure di breve durata. Molti di questi fidanzati ufficiali o mariti ci avevano provato con lei per divertimento peccato che lei non era disponibile. L’uomo in generale voleva una donna culturalmente inferiore, sottomessa. Erano gradite oche belle che pendevano dalle loro labbra. Quello che contava era l’aspetto fisico, il seno, il corpo, tutto il resto poteva anche essere cestinato, buttato a fiume. I suoi valori, i suoi sentimenti, non erano presi in considerazione, i suoi pensieri ignorati. L’importante era che lei stesse al loro gioco, che li assecondasse. Siccome lei opponeva resistenza finì per essere ignorata dalla maggior parte dell’universo maschile. Intanto cresceva l’ostilità delle donne in generale nei suoi confronti. Siccome ormai si vestiva elegante e andava in giro con la sua valigetta di pelle suscitava solo sguardi carichi di invidia, di repulsione, di rabbia. Le donne invidiavano persino un paio di orecchini di brillante che le aveva regalato sua nonna prima di morire. Persino sugli autobus riceveva occhiate bieche. Per strada le donne la squadravano con ironia e tra loro facevano commenti e apprezzamenti salaci. Cercavano di demolire con le parole la sua personalità che ormai cominciava a spiccare. Si distingueva per una certa classe, per i modi gentili, per lo sguardo timido, per il comportamento riflessivo. La sua persona, a sua insaputa, emanava un fascino sottile lo stesso che aveva attirato Dario. Lui era stato l’unico a riconoscere la sua aura di luce. Per alcuni uomini non esisteva, era come morta. Quante volte, aveva perso il conto, aveva visto uomini infiammarsi per lei e poi all’improvviso voltare le spalle quando si erano resi conto che non avrebbero ottenuto da lei ciò che desideravano. E lei rimaneva delusa, stordita, con gli occhi bassi tornava su i suoi passi. Tutti quei complimenti non erano reali erano stati pronunciati a proposito per sedurla. Si faceva lunghi esami di coscienza per capire dove aveva sbagliato con gli uomini, con il lavoro. Leggeva tutte le inserzioni di lavoro pubblicate sui giornali e spesso era stata raggirata in quanto erano annunci finti e pieni di insidie. Si accaniva a cercare un lavoro con ostinazione. Molti conoscenti le suggerivano di trovarsi un santo protettore, ma lei non voleva cadere nella trappola. Si dedicava anima e corpo a scrivere curriculum, a spedire lettere e raccomandate e la risposta era quasi sempre il silenzio. Alcune ditte volevano una precedente esperienza nel campo, ma se lei non aveva mai lavorato come poteva essere esperta? Lei aveva bisogno di un lavoro non solo per una questione prettamente economica, di autonomia, ma anche per avere un punto di riferimento concreto. Alcuni datori di lavoro, che aveva contattato, dopo quando li richiamava per sapere l’esito del colloquio si facevano negare al telefono. Scriveva raccomandate, faceva telefonate ma girava come la ruota di un mulino. Vedere donne che lavoravano, sicure, spavalde, affidabili, forti la faceva star male. Lei così fragile aveva bisogno di trovare un rifugio. Invece erano le donne meschine ad avere ottimi lavori e mariti devoti. Lei, che aveva bisogno di una persona al fianco, era sola. Dario l’avrebbe incontrato dopo e poi non sarebbe mai stato l’uomo giusto a cui confidare i suoi crucci. Gli uomini preferivano le donne autonome, baldanzose, vivaci, sicure e le amavano alla follia. Questo tipo di donna non disdegnava di comportarsi in modo perfido con le altre donne, specie se coetanee. Erano spietate, velenose, rivali, facevano del male con le parole, con i fatti, con gli sguardi. Se incontrava una manager donna nei colloqui di lavoro la situazione peggiorava. Era subito scartata senza ripensamenti. La escludevano per la sua indole riflessiva, chiusa, per la sua apparente tranquillità e lentezza. Non era svelta, non prendeva la vita a cuor leggero, ma la prendeva di petto. Le manager donne si distinguevano per le borse firmate, per il trucco perfetto, pesante, per le loro valigette da viaggio, per le sigarette accese, per la loro apertura a qualsiasi esperienza. Erano anche fortunate se lei avesse fatto la stessa strada probabilmente avrebbe dovuto pagare un prezzo elevato. Ogni volta che aveva messo il naso fuori di casa aveva pagato un prezzo esagerato, salato e i suoi genitori l’avevano rimproverata. Ora non si avventurava più in terreni sconosciuti. Non poteva permettersi avventure, intrighi, gite in terre deserte, colpi di testa, evasioni anche se ne aveva bisogno più degli altri. Aveva necessità di una valvola di sfogo che non trovava. La sua ricerca di un lavoro intanto era diventata una storia scritta e pubblicata. La sua valvola di sfogo poteva essere e doveva essere la scrittura. Durante il giorno recitava la parte della disoccupata in cerca di lavoro e la sera era scrittrice a tempo pieno. Questo sdoppiamento era salutare. Avrebbe voluto essere un’altra donna, magari chiamarsi Cristina, lavorare all’aeroporto, avere un fidanzato biondo e fedele. Invece era una perfetta nullità, una sconosciuta. Vedeva però donne brutte, cattive, incapaci che avevano molto successo nel lavoro e non capiva perché il destino la bloccava. Lei con la sua serietà, con i suoi principi morali non aveva successo. Leggeva il disprezzo negli occhi dei datori di lavoro e faceva più male che il rifiuto stesso. Tutto il suo essere reclamava un lavoro normale, dignitoso. Si voleva impegnare e vincere la sua innata pigrizia. Dentro di lei c’erano i germi dell’obbedienza, del perdono, del sacrificio, della dedizione al lavoro. Doveva darsi una scossa se voleva realizzare il minimo. La sua preparazione per accedere al mondo della lavoro fu lunga e estenuante. Per anni rimase al palo. Ogni concorso, ogni corso richiedeva sforzo, richiedeva studio. Avrebbe voluto un lavoro tranquillo, con un capo protettivo, comprensivo, di buone maniere. Invece doveva rassegnarsi a camminare nelle strade poco frequentate per paura di incontrare i soliti insolenti vicini di casa che le facevano domande sulla sua ricerca di lavoro. Alcune donne la guardavano con ironia, altre si vantavano della posizione raggiunta nel loro ambito lavorativo quasi a rimarcare la loro differenza da lei. Molti datori di lavoro la guardavano dall’alto in basso, le donne wamp erano predilette. Il suo era un pellegrinaggio mesto presso milioni di porta chiuse, sigillate con il lucchetto che si aprivano a comando solo quando entrava un raccomandato. La sua delicatezza, la sua mancanza di sfacciataggine, la sua grazia erano controproducenti. Lo studio per i concorsi era stimolante, intenso e importante. Con certe materie era in perfetta sintonia, ma si rendeva conto che più andava avanti più perdeva tempo e fiducia. Uno scoramento profondo la portava sulla strada dell’esaurimento. Insonnie, fallimenti, danzavano davanti ai suoi occhi di notte. Nessuno la aiutava minimante, nessuno le dava una parola di conforto. Mentre si dibatteva per trovare un lavoro fra aritmia, notti insonni, mal di testa, incontri, studi, l’obiettivo si allontanava progressivamente da lei. Si sentiva scadente, mediocre. Vedeva che chi mirava in alto otteneva ciò che voleva. Gli ambiziosi avevano fortuna. Non bastava avere cultura, educazione per mettersi a livello degli altri. Ingenuamente aveva creduto al sistema della meritocrazia. Ci voleva ben altro: una famiglia potente, facoltosa alle spalle, denaro, ricchezza, amicizie influenti, eccellenti, padri e nonni famosi, appoggi e conoscenze politiche. I politici di tutte le correnti si spartivano il bottino dei migliori posti presenti sul tappeto. La sua preparazione non era apprezzata, il suo cognome non era abbastanza noto in certi ambienti. Veniva lasciata indietro come un fazzoletto vecchio. Alle soglie del Natale la sua solitudine, il suo rammarico aumentavano. Non poteva fare regali tanto costosi, non poteva muoversi e fare viaggi per la mancanza di una entrata sicura. Come sarebbe stata la sua vecchiaia senza un sostentamento? Il trentun dicembre si ritrovava a fare un bilancio passivo della sua giovane vita. Dopo tanto impegno si ritrovava puntualmente ai nastri di partenza. I suoi desideri naufragavano per colpa di un destino avverso e puntiglioso, cinico come un soldato al fronte. Ogni volta doveva ricominciare tutto daccapo e dimostrare che aveva fegato. Le ricerche del lavoro erano arrivate al capolinea. Ricordava ogni volta il suo cammino fatto, gli incontri avuti con un brivido. In certi uffici la prima stessa accoglienza era glaciale. La squadravano senza clemenza disapprovando con lo sguardo. Alcuni datori di lavoro sembravano giocare le facevano strane domande personali senza senso. In alcuni quiz di preselezione le avevano persino chiesto la sostanza del suo conto in banca. I sindacalisti stessi menavano il can per l’aia e la illudevano. Quegli uffici, dove andava come un frate per la questua, alzavano sottili barriere invisibili. Quel mondo fatto di carriere e di scrivanie di mogano non era il suo. Tutti i progetti per il futuro si sgretolavano come neve al sole. Nessuno sembrava capire, apprezzare se non altro i suoi sforzi. Era come battere di continuo la testa contro un muro spesso. Eppure era pura, caratterialmente serena, fiduciosa, altruista, generosa. Se fosse stata ricca, nonostante i suoi difetti, l’avrebbe spuntata. Ma se era ricca non avrebbe avuto bisogno di un lavoro e avrebbe lavorato per puro piacere. Con i soldi avrebbe potuto seguire più corsi formativi a pagamento, si sarebbe potuta vestire meglio per fare una buona impressione sugli imprenditori di aziende, frequentare centri estetici, palestre, luoghi di incontro. Avrebbe potuto allargare il giro delle amicizie, entrare nei palazzi del potere, nel cuore della politica. Cominciò a capire sulla pelle l’importanza del denaro, che lei aveva sempre considerato vile e corruttore. Non aveva mai pensato avidamente al denaro. Intanto donne ricche, vestite alla moda passavano altezzose per la strada e la snobbavano volutamente. Avevano lo sguardo fiero e altero di chi sa di essere elegante. Certi abiti indubbiamente valorizzavano la bellezza, mettevano in risalto le curve. Intanto uomini di potere la evitavano come la peste. Era tutta una questione di denaro e di conoscenze. Lei non era fatta per la vita mondana, per gli uffici prestigiosi, per gli abiti di lusso. Detestava le feste gaudenti, i pub affollati, lo sguardo superbo della gente del mondo bene. Amava la semplicità, l’umiltà, la sincerità, la pazienza, la serenità. Lei sapeva accontentarsi e alcune volte si sentiva ricca, ricca dentro. La gioia scaturiva anche dalle piccole cose: un tramonto sul mare, una pizza gustosa, una canzone romantica, un profumo intrigante, un prato pieno di fiori, un paesaggio innevato. Ai viaggi in luoghi esotici e lontani preferiva la visita in piccoli borghi sperduti e tranquilli, magari medioevali, senza il brivido nascosto dell’avventura. Non amava rischiare la vita per fare una vacanza. Molti, per sete di avventura, per vantarsi con gli altri, avevano perduto la vita in viaggi senza ritorno in luoghi pericolosi. Alcuni attentati terroristici avevano messo la parola fine alla vacanza, o un incidente di percorso. Per questo motivo un datore di lavoro che l’aveva interrogata sui viaggi da lei fatti e sulla opportunità di viaggiare per lavoro, l’aveva accusata di essere una “massaia provinciale”, una donna troppo chiusa nel suo guscio. Un altro datore di lavoro l’aveva accusata apertamente di essere troppo attaccata ai valori tradizionali, di non essere innovativa, rivoluzionaria. Quelle che in passato per le donne erano virtù come la grazia, l’illibatezza, il rispetto, la timidezza ora erano giudicati dai più mostruosi difetti. Lei si ostinava a camminare controcorrente in acque in tempesta. In questo il coraggio vinceva la timidezza. La sua originalità era punita con l’isolamento. Dopo ogni sconfitta tornava a studiare per il prossimo concorso ma con più fatica, con meno ardore. Studiava sodo chiusa nelle librerie, nelle biblioteche. Per mesi vedeva solo libri, carte, manuali. Era entrata in un tunnel senza apparente via d’uscita. Non trovava neanche i lavori più umili. Non si accorgeva del cambio delle stagioni e talvolta d’estate portava ancora le camicette a maniche lunghe per quanto era concentrata. Molte ragazze nel cercare lavoro erano accompagnate dai fidanzati e lei provava sempre una fitta di gelosia. Non era per carattere invidiosa ma la solitudine in quel delicato frangente le pesava come un macigno. Voleva calore umano, condividere con qualcuno quel peso. Voleva essere rassicurata, protetta, difesa e invece era allo sbando. Le amiche stesse le voltavano le spalle, non volevano sentire i suoi lamenti, i suoi problemi. Molti datori di lavoro vedendola completamente sola pensavano di approfittarne dicendole delle bugie, dicendole che l’avrebbero assunta nella ditta per farla cadere al laccio senza pietà. Lei era solo un corpo a disposizione senza anima. Doveva forse mercificare il suo povero corpo per lavorare.? Se era insidiata lei figuriamoci le ragazze belle. Nessuno sembrava comprendere la sua solitudine, era sola con il suo problema, come una spina nel fianco. La sua sensibilità la portava ad avere sovente crisi di pianto. Per salvarsi come ultima spiaggia c’era la droga dei libri, unica ancora di salvezza. Leggeva di tutto, filosofia, economia. Lei aveva fatto di tutto, non aveva rimorsi, rimpianti. Aveva assecondato i voleri di suo padre che la voleva pura, cristallina come acqua di fonte, ma cosa ci aveva guadagnato ad avere tanti scrupoli? Seguire la tradizione, i valori significava aumentare il divario con gli altri. Non riusciva mai a combinare nulla di concreto e per questo era insoddisfatta, non si poteva permettere il meritato riposo del guerriero. Non era combattiva si arrendeva davanti al primo rifiuto. Intanto non poteva permettersi spese fuori dell’ordinario. Il denaro le appariva come un miraggio. Avrebbe voluto sperimentare il colpo di fortuna, come aveva sperimentato il colpo di fulmine in amore. Anche se ora preferiva innamorarsi lentamente di qualcuno affine a lei su cui aveva riposto la sua diffidente fiducia e che le sembrava di conoscere da una vita. In lavoro sarebbe stata scrupolosa, leale, onesta, precisa come mai non lo capivano? Quell’esperienza era umiliante se pensava poi che doveva fare in fretta, gli anni passavano ed aveva già trenta anni. Il cappio della vita si faceva stringente, il cerchio della vita sembrava chiudersi rapidamente. Nella sua vita, come un recinto, non c’erano segni positivi, vitali. In poco tempo si era bruciata, aveva perduto quota. Il periodo più bello paradossalmente era quello del suo fidanzamento, quando aveva la fedina, e si era aperta una possibilità di lavoro in una biblioteca, poi sfumata negli anni successivi. Era parzialmente appagata e pensava di meritare la felicità, anche se il destino non era d’accordo. Il suo apparente cielo sereno si era di nuovo oscurato. Gli anni della ricerca del lavoro furono funestati da pesanti lutti familiari che aggravarono il suo umore tetro. Ritornava il problema del paradiso, ritornavano di colpo i pensieri neri sul destino fragile dell’umanità che continuava ad affannarsi, a tradire, a mentire solo per morire. Di nuovo quel senso estremo di vuoto, di impotenza. In quel periodo venne corteggiata da un uomo più grande di lei che aveva il vizio nascosto della bottiglia. La sera nei night al buio, quando nessuno lo vedeva, si abbandonava fra le braccia dell’alcol. Era stato visto più volte ubriaco. L’alcol veniva prima di lei, era più importante di lei. Preferiva che avesse un’altra donna. Quando lo colse in fragrante lui osò negare l’evidenza e tentò persino di malmenarla. In tutta risposta le continuava a telefonare usando epiteti ingiuriosi e offensivi. Non pensava che quell’uomo così educato potesse arrivare a tanto. Rimase scioccata. Lei non si era mai accorta di nulla nella sua ingenuità bendata. Ora gli uomini che la corteggiavano erano quasi tutti più piccoli, ragazzini che vedendola seria e matura credevano di trovare in lei la madre. Ignoravano ovviamente le paurose cadute della sua anima nei momenti critici. Davanti a un evento catastrofico non si sapeva controllare, tremava, urlava, piangeva. Intanto i datori di lavoro che incontrava sembravano detestare i suoi principi morali, le sue opinioni. La sua educazione cattolica dava fastidio, la guardavano con distacco, annoiati. A casa ripercorreva con la mente i colloqui di lavoro e certi episodi le tornavano alla memoria in tutta la loro crudezza. Certe frasi che lei aveva sottovalutato erano invece la chiave di lettura di quello che era poi accaduto. In lei forse c’’era qualcosa di strano, o forse mancava una segnalazione. Paragonando la sua vita a quelle delle sue ex compagne di scuole notava la differenza. Le altre erano quasi tutte sposate, lavoravano, avevano figli e quando la incontravano si vantavano della posizione raggiunta. Certi giorni non voleva più saperne di padroni possessivi, di manager donna perfide e gelose che la punzecchiavano con frasi infelici. Odiava la competizione, l’antagonismo presente in molti luoghi di lavoro. Ora se vedeva la gente da lontano cambiava strada per non dare spiegazioni della sua disoccupazione cronica. Avrebbe voluto essere come tutte, una ragazza frivola, con i grilli per la testa, che pensa solo all’ultimo modello di scarpe. Molti conoscenti la rimproveravano di aver gettato via il tempo laureandosi, visto che la laurea non serviva a trovare un lavoro decente. La cultura personale non serviva si poteva essere ignoranti ed avere un ruolo di potere. L’importante era essere figlio di. Tutti le facevano notare l’importanza, specie per lei che era single, di un lavoro. Le frasi pungenti le lasciavano l’amaro in bocca. Non sapeva capire le situazioni, non sapeva capire la gente, non inquadrava il lavoro adatto a lei. Era un’idiota, una credulona, priva di personalità e ricordava gli sguardi, le ultime battute dei vari datori di lavoro carichi di disprezzo. Venne corteggiata da un giovane che guidava come un pazzo a folle velocità moto eleganti comprate dalla famiglia. Il suo sguardo era gelido come la neve. Aveva fatto anche degli incidenti paurosi ma non gli era mai stata ritirata la patente. Anche questo giovane sin dai primi approcci la tartassava con la questione lavoro. La spingeva a forza verso il mondo del lavoro, le diceva che doveva adattarsi. La rimproverava per l’uso che ne faceva del denaro, per il fatto che comprava cartoline da collezione e bambole di porcellana anche esse da collezione. Cercava disperatamente di risparmiare su tutto, evitava di uscire per il timore di spendere. Stanca di sentire i rimproveri aveva smesso persino di parlare con questo coetaneo, del resto non c’era stato nulla se non un corteggiamento velato. Il giovane si sentiva superiore per la sua ricchezza. Una volta era stata corteggiata da un negoziante sposata e quella sua morbosa attenzione le aveva fatto paura sul serio. Si era resa conto che quando un uomo vuole una donna è disposto a tutto pur di averla, diventa una questione di puntiglio. Aveva smesso di raccontare le sue disavventure nella ricerca del lavoro persino a sua madre. Per racimolare denaro fede delle ripetizioni ai bimbi molto discoli e maleducati. Eppure la sua famiglia era benestante ma lei si sentiva ormai un peso. Per risparmiare evitava di andare al cinema, dal parrucchiere, a ballare, alle mostre. Intanto molti in cambio di lavoro le proponevano avventure erotiche apertamente senza peli sulla lingua. Doveva tenere duro, salvare la faccia e l’onore. Non andava a ballare perché sapeva che gli uomini si lasciano condizionare dal contesto in cui incontrano una donna e magari preferiscono sposare una donna conosciuta in casa di amici. Vogliono sicurezze. Raramente usciva la sera e solo qualche volta per una pizza, che le pagava sua madre. Piano piano si ritirava, si chiudeva a riccio. Nessuno l’avrebbe presa sul serio a lavorare questo concetto le era entrato nel cervello, nel sangue. Nessuno poteva più convincerla del contrario. Una volta in un concorso pubblico conobbe un carabiniere addetto alla sorveglianza. Era un uomo diffidente, malizioso, geloso fino alla follia che non accettava che avesse avuto un fidanzato e dei corteggiatori. Non voleva che parlasse con nessuno, che portasse il rossetto quando lei era ancora solo un’amica e non la fidanzata. Non poteva salutare nessun uomo. Si mostrava possessivo, maniaco. Dopo un incontro soltanto preferì lasciar perdere. Non poteva passare il tempo in oziose divagazioni. La cosa migliore era concentrarsi unicamente sul lavoro. In un corso di computer della regione, per sole donne, completamente gratuito, sperimentò la perfidia delle donne. La solidarietà femminile non esisteva. Si accapigliavano per i voti, per i vestiti, si litigavano un professore come le vesti di Cristo. Alcune per ottenere l’attestato facevano gli occhi dolci a un professore di informatica. Avrebbero venduto il proprio corpo per ottenere un buon risultato. A lei non interessava certo ciò che facevano della loro vita privata ma voleva essere lasciata in pace. Ma invece la molestavano con ingiurie, dispetti, scorrettezze. Aveva finito per non parlare più. In questo corso conobbe Nadia, che lei considerava sua amica, ma in verità era solo una conoscenza. Era una donna più grande di lei, completamente diversa, solare, brillante, vivace, estroversa, gaudente, irrazionale, esperta delle cose del mondo. Amava solo divertirsi. Il suo passato era un punto oscuro fatto di un padre assente, di amanti occasionali, di una infanzia difficile. Era l’ennesima vittima di una famiglia sfasciata, in fondo non era colpa sua se era così. Era diventata aggressiva per difendere con le unghie il suo territorio. Nadia la faceva sentire viva. Accettava volentieri i suoi consigli. Finito il corso si persero di vista. Intanto sogni premonitori la mettevano in guardia che avrebbe trovato un lavoro. Incuriosita dal mondo dell’occulto, a cui non credeva ciecamente, la sua era solo curiosità, si fece fare i tarocchi da una vicina di casa. Era la prima volta che accadeva, e dimostrava la sua fragilità. I tarocchi confermarono che avrebbe trovato un lavoro. Si domandava smarrita dove, come, quando. Gli esami del corso di pc andarono bene ma furono funestati dalla morte di uno zio proprio quel giorno. Le sue colleghe maliziosamente, malignamente la deridevano pensando che il suo visibile pallore fosse dipeso dalla paura degli esami invece i suoi occhi dilatati erano solo sbarrati per l’ennesimo contatto con la morte, esprimevano una paura più grande che accomuna tutti: quella della morte, crudele, terribile, spietata. La morte che bussa alla porta cogliendoci sempre impreparati. Le colleghe non avevano capito, si erano rivelate senza pietà ancora una volta. Suo padre era morto, suo zio pure e lei non aveva potuto dimostrare il suo valore. Era l’ennesimo colpo basso del destino. Doveva accettare passiva e rassegnata. Non c’erano vie d’uscita. L’immagine della morte, dell’eternità, il suo abisso si apriva davanti a lei in tutta la sua drammaticità. Questa volta ad essere inghiottito nel nulla, senza tempo e senza spazio, era stato suo zio. Quando sarebbe toccato a lei? In che mese sarebbe morta? Nessuno voleva morire ma doveva. Le atroci malattie inchiodavano a letto e distruggevano il corpo ma non la mente, i ricordi. Lei era una buona a nulla, ma prima di morire avrebbe fatto vedere chi era. Non aveva dato soddisfazione a suo padre, l’avrebbe data a sua madre. La sua vita fallimentare ora balzava in primo piano, le stava sotto gli occhi, veniva ingigantita. Ora sapeva perfettamente di essere rimasta sola nell’arena a combattere una battaglia già persa in partenza. Tutto sembrava essere senza rimedio. Se solo avesse potuto trovare un lavoro sarebbe stato diverso. I datori di lavoro anziani ci provavano spudoratamente data l’età per loro tutto faceva brodo. Se da giovani avevano accettato solo quelle belle da anziani si accontentavano di bocconcini mediocri. Di fronte ai suoi rifiuti gli anziani diventavano acidi. Agli altri ormai mentiva spudoratamente dicendo di lavorare in una società dove aveva superato brillantemente il colloquio. Pietosa bugia dettata dalle circostanze. Chi però intuiva la verità le lanciava frecciatine al vetriolo. Molti parenti si allontanavano per paura che lei chiedesse aiuto. Quando finì all’ospedale sotto pasqua per una operazione molti parenti si mostrarono crucciati. Chiamati in occasione delle feste pasquali mostrarono disappunto. Dovevano divertirsi per le feste e avevano altro da fare. Le feste dovevano essere fatte all’insegna del divertimento, non trascorrerle in uno squallido ospedale. Gli ospedali stessi in occasione delle feste si spopolavano, medici, infermieri, andavano in vacanza e in ospedale restava solo un medico di turno, nervoso e scorbutico. Nella malattia doveva sbrigarsela da sola, senza disturbare parenti e amici. Tutti dovevano nei giorni di festa divertirsi e negli altri lavorare. Non c’era tempo, tutto andava di fretta. Tutti era impegnati a recitare la parte migliore nel film della loro vita, film girato quasi sempre solo per loro, dove gli altri non c’erano o facevano da sfondo. Tutti avevano impegni, non si potevano disturbare. Coloro che qualche volta erano stati importunati da lei si erano mostrati irritati. Le giornate peggiori erano quelle di tarda primavera quando il sole caldo invitava alla serenità e invece il suo cuore era logorato dall’assillo del lavoro. Vedeva la gente seduta nei bar ridere felice e lei si sentiva esclusa, la sua anima danzava dentro un dolore acuto senza confini, un dolore che le comprimeva il petto, che la soffocava. Il suo assillo principale le opprimeva il cervello e quindi tutto passava in secondo piano, non aveva più importanza. Dopo la morte di suo padre fu colta da una febbre maligna, da stress che molti presero per debolezza di carattere e il problema del lavoro divenne più pesante. Non riusciva a trovare una soluzione, a pensare, a concentrarsi, molti tentativi erano andati a vuoto. Nell’elenco delle soluzioni c’erano già dei punti cancellati, porte dove aveva bussato e dove aveva trovato lo sbarramento. Nelle notti successive iniziarono i contatti con suo padre che le inviava messaggi attraverso sogni e segnali. La certezza dell’esistenza dell’aldilà la tranquillizzò. Nessuno moriva veramente e l’anima sopravviveva e ricordava tutto. Si continuava a vivere non solo attraverso il ricordo. Non pensava di poter essere un potenziale medium, l’idea la spaventava a morte. Per risolvere il problema ricorse all’aiuto di un sacerdote, in questo modo le notti non furono più popolate da fantasmi inquieti. Perché proprio lei doveva avere questi poteri? C’era in lei qualcosa di diverso, qualcosa che non andava? Forse era adatta proprio per il suo spirito malinconico, per la sua anima struggente di nostalgia, per i suoi sentimenti profondi. Tornò quindi ad avvicinarsi alla chiesa e a frequentare un gruppo, dove scoprì che tutto non era così cristallino. Nel gruppo esistevano rivalità, gelosie, per ragioni di prestigio, di interesse. I capi gruppo erano antagonisti, superbi del loro ruolo. L’umiltà, predicata dai Vangeli, non era contemplata. Lei mal vista per la sua cultura religiosa. I capi dei vari gruppi volevano sempre avere su tutto l’ultima parola. Lei con i suoi discorsi poteva essere un ostacolo. A lei nel gruppo non rimaneva che ascoltare, accettare le decisioni altrui, anche se si trattava di fare una gita, obbedire, comprare libri suggeriti dai capi e dai preti. Alcune suore erano altezzose e intriganti. La carriera ecclesiastica le rendeva sospettose fra di loro. C’era chi ambiva in cuor suo a diventare madre badessa. In poco tempo Irina aveva speso molto denaro per comprare regali, libri, per cene con il gruppo. Il capo del suo gruppo era una donna giovane che aveva con lei un atteggiamento di sfida, si atteggiava a donna superiore. Quando parlava Irina lei fingeva di non ascoltare e voltava la faccia. Il suo antagonismo divenne guerra aperta. La capo gruppo spesso la metteva in cattiva luce, la offendeva davanti agli altri, faceva allusioni alla sua vita privata. Aveva un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti e lei non aveva fatto nulla se non esternare qualche volta le sue conoscenze di storia, di storia delle religioni. Ogni capo gruppo difendeva il suo territorio con accanimento temendo di essere spodestato. Nel gruppo c’erano anche ragazzi sbandati che ogni tanto facevano uso di droghe e ragazzine dalla faccia spavalda. Molti si recavano al gruppo per trovare amici con cui fare feste, bagordi, con cui uscire insieme. Molti coltivavano il proprio orticello incuranti degli altri. Volti ipocriti si nascondevano dietro la maschera della fede buona per tutti gli usi. La sua capo gruppo la derideva, la maltrattava, la metteva in ridicolo con un atteggiamento decisamente lontano dalla fede. Molti cattolici che avrebbe incontrato dopo avevano lo stesso tipo di comportamento, non seguivano i dettami della fede. Si vantavano di essere cristiani, di andare in chiesa, di accendere le candele, di andare in processione, ma seguivano il culto esteriore. All’atto pratico si comportavano come pagani: non aiutavano le persone in difficoltà, non perdonavano, facevano del male. Era una fede esteriore che si ammantava di frasi fatte e riti preconfezionati. La cosa più strana era che nessuno voleva ascoltare la sua testimonianza sul mondo delle anime, che pure era autentica. Molti non credevano neppure alla sopravvivenza dell’anima. Durante la sua frequentazione, durante gli stessi pellegrinaggi in santuari e in luoghi famosi di culto Irina incontrò molte madri cristiane bugiarde, perfide, spietate, crudeli, insipide. La fede era un paravento dietro il quale nascondere le malefatte di un’anima nera. In quel periodo per arrangiarsi faceva delle ripetizioni. Tra i suoi alunni c’era anche un suo parente che per tutta risposta la accusò di essere un’incapace. Nessuno cercava amorevolmente, con affetto di aiutarla. Continuavano per tutta risposta gli insulti, le frecciatine velenose, le insinuazioni. Irina cominciò a prendere le distanze. Smise di andare al gruppo, si allontanò dai parenti. Quando incontrava le persone cercava di parlare poco, di rimanere in silenzio, di restare indifferente. A cosa sarebbero servite le parole? Tutti i parenti prediligevano una sua cugina e tutto quello che lei faceva era ben fatto. Se lei faceva le stesse identiche cose era criticata. Possibile che avesse solo difetti e nemmeno una virtù? Tutti indistintamente la scrutavano da capo a piedi per poi trovarci da ridire. Se si abbronzava al mare sua cugina era giudicata carina, se lo faceva lei le dicevano in faccia che la abbronzatura le stava male. Lei pensava che se anche fosse stato vero per educazione dovevano tacere. Spesso erano frequenti le mancanze di rispetto. Allora cominciò pure lei ad essere maleducata, a rispondere per le rime andando contro la sua natura. Molti parenti li lasciò cuocere nel loro brodo, altri li massacrò con parole risentite e taglienti. Alcuni parenti erano superbi, altezzosi perché benestanti, ostentavano i loro soldi, descrivevano di viaggi favolosi, di ville, di abiti firmati. Lei ai loro occhi era una povera derelitta. La facevano sentire piccola e insignificante. Cercavano sempre di umiliarla, di metterla in cattiva luce. Cominciò ad uscire con una ragazza del gruppo che si rivelò più falsa delle altre. Alla fine la ragazza non volle più uscire con lei e la liquidò con una telefonata dai toni accesi. Irina cominciò a distaccarsi da tutti, parenti e amici, e prese a uscire da sola. Le sue passeggiate solitarie erano inconcludenti. Qualche volta incontrava qualche uomo che voleva una relazione o un’avventura. Vedendola sola la consideravano una preda relativamente facile. Molti cercavano di corteggiarla ma si freddavano quando vedevano la sua compostezza. Nessuna storia andava a buon fine. La maggior parte erano uomini avventurieri senza scrupoli che non avevano nulla da perdere, e che non si ribellavano nemmeno davanti al suo rifiuto. Lei poteva essere una distrazione, un passatempo. Ragazzi fidanzati che la importunavano solo per divertirsi. Lei non poteva ascoltarli era impegnata nella ricerca del lavoro. Molti uomini finirono per demoralizzarla. Alcuni di loro criticavano i suoi principi morali e religiosi, altri tentavano di toccarla spudoratamente davanti a tutti senza riguardo, altri tentavano di baciarla. Decise per distrarsi di fare una vacanza di una settimana in un convento dove avrebbe speso poco. Sperando di trovare la pace, si era portata molti libri da leggere. Nel monastero incontrò un gruppo di giovani cattolici e si unì a loro. Un giovane del gruppo criticò il suo modo di essere accusandola di essere troppo seria, troppo legata ai valori tradizionali. Nessuna stima veniva dal mondo degli uomini. Forse a ben guardare valeva la pena fare la ragazza di facili costumi solo che lei non c’era portata. Non era adatta. Comportarsi bene e ricevere insulti non era piacevole. Stava sempre aspettando un riscatto, un momento di felicità, che non arrivava mai. Una sera d’autunno mentre guardava stancamente la televisione seduta sul salotto, giunse una telefonata di uno zio. Si era liberato un posto in un ufficio, poteva sostenere il colloquio. Finalmente un parente l’aveva aiutata. Solo allora comprese una cosa fondamentale e sempre valida: i parenti possono essere serpenti ma tutti gli altri sono peggio. Infatti gli altri si erano totalmente disinteressati della sua situazione, nemmeno la ricordavano. Il richiamo del sangue era stato più forte di qualsiasi altra cosa. C’era ancora chi rispettava i legami di parentela. Per tutta la vita pregò per questo suo zio così generoso. Non volendo era caduta anche lei nella trappola: era una raccomandata, anche se non se ne rendeva conto. Per anni si era battuta per non far parte della schiera degli eletti ed ora faceva il suo ingresso nel mondo del lavoro passando per la porta principale con tutti gli onori. Nell’immediatezza del fatto pensò solo che un passo avanti era stato fatto, qualcosa si era mosso in suo favore. Finalmente dopo tanto penare poteva contare su uno stipendio fisso, su quella benedetta e tanto sbandierata, sicurezza economica. Gli stessi uomini incontrati per caso le avevano fatto notare l’importanza del lavoro. Si apriva un nuovo e interessante capitolo della sua vita. Il mondo del lavoro spalancava le sue porte per accoglierla. Con entusiasmo si gettò nella nuova impresa. Ben presto si rese conto che non era tutto oro quello che riluceva. L’ambiente era fortemente legato alla politica e gli impiegati erano tutti raccomandati. Il suo parente si era limitato solo a farla entrare. In realtà era entrata senza saperlo nell’arena dove si sarebbero combattute sanguinose battaglie all’ultimo sangue. La carriera era riservata ai più raccomandati e quindi per lei non vi erano possibilità. Veniva così puntualmente esclusa da attività, incontri, convegni, congressi, corsi. Gli anni passavano, tornava il Natale con le sue luci e i suoi addobbi e lei era sempre allo stesso livello di quando era entrata. Una esclusione sistematica, precisa come il bisturi di un chirurgo. Alle riunioni, ai convegni era sempre costretta a non partecipare, a rimanere nell’ombra. Molti mostravano di non gradire la sua presenza. Il suo era un ruolo secondario, di comparsa, era un soldato mandato in trincea, un mercenario che poteva persino combattere con la divisa francese nell’esercito russo. Era manovalanza, popolo senza coscienza. La sua cultura, la sua educazione di nuovo non contavano nulla. Gente maleducata, senza titoli di studio significativi otteneva avanzamenti di carriera e la derideva. Il suo ruolo le si addiceva, era insignificante. Le persone che ottenevano successo sul lavoro la schernivano con frasi pungenti. Le dicevano apertamente che la laurea non contava nulla e che aveva perso gli anni a studiare. La offendevano attaccando la sua sfera personale. Ma che importava a loro della sua vita privata? Fuori dell’ambiente di lavoro poteva fare quello che voleva, non doveva rendere conto a nessuno. Veniva esclusa sistematicamente da molti lavori e poi accusata di isolarsi. Aveva un ruolo di secondaria importanza. Se voleva progredire doveva arrangiarsi. Di nuovo doveva fare i conti con porte chiuse in faccia, sbattute con forza. Quell’ambiente di lavoro era altamente competitivo, spietato, frequentato da gente vanitosa. L’invidia serpeggiava con le sue spire. Fra colleghi non vi era amicizia. In alcuni casi c’era lotta di potere, rivalità. Le donne erano anche esse rivali, assetate di potere. Gli sguardi che riceveva Irina erano falsi, ironici, penetranti. Le domande erano pungenti, le frasi offensive. Commenti sgradevoli venivano fatti sul suo conto. Pettegolezzi se ne facevano un po’ su tutti. Non contavano i sentimenti, tutto ruotava ancora una volta intorno al dio denaro. Tutti volevano conoscere la sua vita privata per poi criticarla. All’inizio ingenuamente aveva raccontato qualcosa di lei ma poi diventò ermetica. La strada giusta da seguire era un’altra. Doveva dare poca confidenza a nessuno, lavorare a testa bassa, non ribellarsi, rispettare i superiori, obbedire agli ordini come un automa, parlare poco. Cominciò a non dire più niente di sé. Salutava gentilmente ma era sempre fredda. Guardinga difendeva la sua privacy a spada tratta. Nel privato cercava di ritagliarsi uno spazio, un angolo dove sognare, dove poter vivere serenamente, lontano dagli strali. La sua nicchia, la sua salvezza fu la scrittura, la lettura. A un certo punto la sua ancora di salvezza furono i pochi amici che aveva, Dario compreso. Lavorava per conto proprio evitando volutamente i contatti con i colleghi, non lasciava il segno. Il suo lavoro era normale, di routine. Ma lei aveva una dignità da difendere, una smania di successo e allora si buttò a capofitto nella cosa che meglio le riusciva: scrivere. Con le donne, con le colleghe non si apriva per paura di essere derisa. Le donne erano molto critiche nei suoi confronti, la giudicavano per come vestiva, per come parlava. A un certo punto non si lasciava più avvicinare, prendere al laccio. L’autocontrollo le consentiva di essere sempre impeccabile, perfetta ma distaccata. Le donne più smaliziate erano irritate dalla sua freddezza, la guardavano con disprezzo, con rabbia. Per quale atto di superbia non si confidava con loro? Non sapevano che lei non si concedeva neppure a se stessa. Tutta la vita l’aveva passata a bloccare gli istinti ed ora era una abile maestra nel recitare la parte che le era stata assegnata quella di semplice impiegata. Al lavoro non lasciava mai trapelare la sua infelicità, il suo disappunto, come con gli uomini. Comprendeva che esistevano altri amori da coltivare quello per gli animali, per la cultura, per la pittura, per la poesia, per l’arte, per la natura. Cercava dei surrogati per poter sfogare la sua potente passionalità, che ogni tanto traspariva. Alcuni uomini erano attratti proprio da questa. Era una donna sensibile, passionale, innamorata dell’amore, sensuale, lasciva nell’anima. La sua passionalità era per lei peccato, andava arginata prima che la portasse fuori strada. Si reprimeva per paura di sbagliare. Tutta quella passione folle se assecondata dove l’avrebbe portata? Nel baratro della follia e dell’incoscienza. La passione era una furia cieca, una forza abbietta che le prendeva le viscere, il cuore. Sentiva la sua sensualità partire dallo stomaco e propagarsi per tutte le membra. I suoi desideri erano ossessioni, ma non poteva compromettersi, specie sul lavoro. Si scopriva donna a tutto tondo e poi mutilava la sua femminilità a tratti audace e trasgressiva. I suoi sogni proibiti non li poteva vivere nel concreto. Ricordava un proverbio che recitava: le cose buone o sono peccato o fanno male. La sua passionalità la spaventava, le faceva venire i sudori freddi. Perché quella passionalità era chiusa in un corpo sgradevole? Non era una buona educatrice di se stessa. Sul lavoro era impacciata, non si sapeva gestire. Per lavorare in quella struttura ci volevano tante qualità che lei non possedeva. Quel posto di lavoro si rivelò una trappola e questa volta era una prigione che aveva voluto lei. Spontaneamente si era lasciata mettere le manette ai polsi. Non riusciva a crearsi amicizie, non riusciva a costruirsi rapporti umani. In quell’ufficio era un’sola perduta nello sconfinato oceano. La carriera era riservata agli eletti. Lei non voleva il potere, non aveva l’autorità necessaria per esercitarlo ma voleva il rispetto, la stima che mancava. Voleva rapporti collaborativi e invece trovava gente disposta persino a sabotare i suoi lavori. Gli arrivisti, i prepotenti erano rispettati, avevano carta bianca. Lei in ogni contesto restava sempre indietro. In un angolo della stanza di ufficio lavorava a testa bassa, chiusa nel suo mondo muto, dove il sonoro era stato abolito, come in un vecchio film in bianco e nero. In ufficio esibiva abiti semplici, trucco leggero, scarpe basse mentre nel frattempo le colleghe sfrecciavano per il corridoio impettite nei loro abiti alla moda. Il rumore dei loro tacchi risuonava per tutto l’ufficio. Alcune colleghe erano stimate, apprezzate, portate in pianta di mano, difese, facevano ciò che volevano. Il mondo era ai loro piedi, il destino si inchinava umiliato. Desideravano una cosa e di colpo la ottenevano. Erano sempre allegre, con il sorriso aperto e malizioso, vestite di tutto punto. Possibile che non c’era un giorno che erano più stanche, più pallide, meno serene. La pioggia faceva arrivare Irina bagnata, con i capelli abbassati, in disordine, le scarpe sporche, loro arrivavano in splendida forma con le scarpe lucide e il trucco perfetto. Le colleghe in ufficio parlavano di stivali, di viaggi, di gioielli, e tra loro facevano squadra, facevano la colazione insieme. Irina non comprava abiti firmati di lusso, non fumava, non beveva caffè. Sul lavoro inoltre tutti si vantavano di essere benestanti, parlavano di viaggi in terre lontane, di ville, di mobili antichi, di quadri di grande valore che dicevano di possedere. Possibile erano tutti ricchi sfondati tranne lei? Lei si poteva considerare benestante, del ceto medio suscitava l’invidia dei poveri il disprezzo dei grandi. Lei misera creatura come poteva conversare con queste persone fanatiche? Cosa poteva dire? Nei dialoghi tutti si esaltavano o tendevano a demolirla. Non vi erano argomenti comuni. Nei pochi dialoghi che aveva avuto era sempre uscita umiliata. Spesso le rivolgevano sguardi ironici e facevano battute sarcastiche. Lei era troppo semplice per i gusti sofisticati degli uomini e per lo sguardo fiero delle donne. Il rapporto con alcune colleghe divenne teso. Non si sentiva a proprio agio. Sempre osservata si sentiva nell’occhio del ciclone. Allora se loro erano tanto superiori e importanti perché non la lasciavano in pace, invece di torturarla? Sembrava che provassero un gusto matto a metterla in difficoltà, a farla sentire ridicola. Farsi una amica collega significava entrare per forza in antagonismo con lei, subire il suo veleno. Allora Irina preferiva il silenzio e la solitudine. Si chiudeva nella sua stanza, lavorava senza battere ciglio evitando qualsiasi tipo di contatto. Qualche volta incontrava in ascensore, in giro uomini di potere e li vedeva superbi, fanatici. I discorsi vertevano sugli stessi argomenti ed ogni pretesto era buono per poter dimostrare la propria superiorità, per sottolineare la propria posizione raggiunta. Lei viveva tranquilla, non faceva viaggi di favola, non aveva auto di lusso, cercavano di metterla in minoranza. Frequenti erano le allusioni al suo aspetto fisico che erano come frustrate sul viso. Avrebbe preferito uno schiaffo a tutti quegli insulti. Era difficile dimenticare quella cattiveria gratuita, quell’assenza di carità, di pietà. Non c’era rispetto per l’essere umano. In quel mondo pieno di squali, selettivo l’aria era irrespirabile. Per forza si doveva proiettare fuori. Alle feste in ufficio non partecipava perché spesso aveva sentito commenti poco lusinghieri su di sé. Erano apprezzamenti sul suo corpo, sul suo modo di vestire, su modo di muoversi. Le nuove assunte la guardavano con aria sprezzante come se lei fosse una vecchina senza risorse. Molti ridevano della scarsa armonia del suo corpo. Aveva smesso di uscire con le donne dove c’erano sempre problemi di vestiti, di uscire con gli uomini sempre critici e pieni di pretese. Usciva solo con Dario, un’isola perduta come lei nel mare in tempesta. In lui trovava tenerezza e conforto. Gli umili si coalizzavano, davano scatto matto agli altri. Il racconto delle vicissitudini sentimentali degli altri, specie se catastrofiche, la deprimevano ancora di più. Era stanca di sentire storie d’amore finite male. Faceva fatica a comprendere la fine di un sentimento per lei sublime, linfa vitale. Con Dario faceva lente passeggiate, senza fare le ore piccole, non aveva una notevole capacità di resistenza. Le notti brave non erano per lei. La mancanza di sonno le procurava mal di testa, dolori muscolari, incapacità di concentrazione. La settimana la passava al lavoro, stretta in una morsa, e il fine settimana respirava con innocenti evasioni e la sera rincasava nel suo quartiere abitato da gente di medio ceto, da studenti, avvocati, casalinghe. Nel lavoro si ripeteva il calvario passato nella adolescenza, nella prima gioventù. Portava impressi nell’anima i segni della esclusione. Negli occhi sempre la paura di non essere accettata. Ora non era più giovanissima e al lavoro facevano allusioni anche alla sua età. Le delusioni d’amore l’avevano resa più adulta. Non aveva mai avuto un attimo di tregua. Nel suo ufficio era stato portato avanti il progetto ambizioso di una rivista, a cui molti erano stati invitati a prendervi parte. Lei era stata esclusa. Vedeva ogni giorno la gente cimentarsi nella scrittura di articoli e lei che sapeva scrivere lasciata da parte. L’ennesima coltellata inferta su un tessuto già lacerato per i troppi colpi. Strappi, scuciture, che alteravano la trama della sua esistenza. Si poteva salvare solo con l’indifferenza, solo con il costruirsi un nido caldo, una vita parallela in cui ci avrebbe messo dentro tutto il suo mondo: i suoi pochi amici, le sue poesie, le sue camicette piene di paiette, il suo diario, le sue canzoni preferite, il suo cuore innamorato dell’amore. Sarebbe stata un’isola solitaria davanti al mare del continente in attesa di essere scoperta. Un’isola circondata dal mare, piena di paletti, dove l’accesso era possibile solo in certe circostanze. Avrebbe selezionato gli ingressi nel centro, nel cuore dell’isola. Era un isola che stava bene solo in compagnia di altre isole perse per il mare a formare di tanto in tanto un arcipelago. Il sorriso che non aveva mai illuminato completamente il suo volto si sarebbe aperto una volta diventata isola. Aveva dovuto ingoiare molti bocconi amari ma ora la vista del mare dall’isola la avrebbe rassicurata. Sul lavoro lentamente aveva guadagnato terreno, il suo silenzio era apprezzato. Era stata invitata a partecipare a un convegno per la prima volta, ma tutto questo aveva scatenato l’invidia di alcuni colleghi che pure c’erano sempre andati in trasferta. Perché essere gelosi di qualcosa che si possiede già? La gelosia si traduceva in dispetti, in frasi offensive. Era il male che tornava a andate nella sua vita, che tornava a ferirla. La gioia di partecipare a un congresso funestata da atteggiamenti di indescrivibile rabbia. Intanto cominciava a ricevere molti premi letterari segno evidente che qualcosa contava, li affiggeva nella bacheca dell’ufficio suscitando di nuovo rabbia. Avevano dei livelli ed erano indispettiti da quei premi avuti fuori dell’ambiente di lavoro La ruota della fortuna che cominciava a girare. In fondo non poteva lamentarsi: aveva una bella casa, una casa al mare, un lavoro, un amico con cui parlare liberamente, la possibilità di fare vacanze di viaggiare, la consolazione della scrittura, una nipote erede. Lei era simile a Dario. Entrambi erano stati bambini con la voglia di crescere e una volta adulti si erano ritrovati al punto di partenza, a voler tornare indietro per recuperare ciò che avevano perduto, a cui avevano rinunciato. Raggiungere la maturità aveva significato solo un nuovo scontro con la dura realtà. Crescere era un’illusione, i problemi erano sempre sul tappeto irrisolti. Avevano pensato invece che una volta grandi tutto si sarebbe appianato, semplificato. Erano vissuti di illusioni, come i maghi di un circo, come gli incantatori di serpenti. Ogni volta che avevano incontrato un amore avevano creduto che fosse quello definitivo, invece era una strada in salita piena solo di tappe, e ogni tappa mostrava la successiva. Decidendo di vedersi Irina e Dario avevano messo fine alla lunga serie di illusioni d’amore fatue come fuochi estivi. Avevano passato in rassegna persone diverse senza mai formare una famiglia normale.

 

Ester Eroli

 

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