Caravaggio, Genio e Umanità

Caravaggio, Genio e UmanitàUn anno fa quando andai a vedere la mostra di Caravaggio, alle scuderie del Quirinale non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi quadri e ad allontanarmi dalle sensazioni estreme che salivano dentro di me dallo stomaco al cuore.
Già dalla“Canestra di frutta” ( non a caso eletto logo della mostra) che apriva subito il confronto tra il visitatore appena entrato e il genio del pittore maledetto e passando poi a tutte le altre opere dal “il Bacco” i Bari” “la Deposizione” “Il Concerto di giovani” e così via, posso dire con certezza che non stavo visitando una mostra, ma ero entrata in un teatro. Ho pensato ad Harry Potter alla famosa scuola di Hogwarts dove i personaggi dei quadri di punto in bianco iniziano a parlare e a muoversi e talvolta escono dalla tela.
Mi aspettavo da un momento all’altro che Giuditta una volta finito con Oloferne lasciasse cadere la spada e mi chiedesse “Ho fatto la cosa giusta?” che il Cristo flagellato mi si avvicinasse e mi poggiasse la testa sulla spalla, che il Bacco irriverente mi facesse l’occhiolino.
Quante volte davanti ai quadri di altri geni quali Leonardo da Vinci abbiamo pensato
“Sembrano fotografie” e davanti a Raffaello “sono pura poesia”. Ecco davanti a Caravaggio noi vediamo l’unione del realismo e della poesia, del sacro e il profano, ammiriamo il capolavoro.
Caravaggio non fotografa semplicemente l’umanità e allo stesso tempo non vuole ammantare di poesia la realtà. Non vuole mistificare neppure la rappresentazione della divinità. Furono diversi infatti i suoi quadri rifiutati da ordini monastici per i suoi santi e le sue madonne troppo “popolani”, Caravaggio dipinge delle vicende e le usa come pretesto per catturare l’anima umana. Individua uomini e donne, dopo averli cercati per le vie di Roma, e li traduce su una tela. Attua un semplice trasferimento, imprigiona la loro essenza, catturando le luce che una determinata azione accende nei loro corpi, ci mostra il loro lampo vitale circondato sempre e comunque da un’oscurità inquietante. E i chiaroscuri dei suoi quadri sapientemente fusi alle luci e alle ombre riprodotte nelle sale dai curatori della mostra, ci insinua quella lieve angoscia dentro, che si mescola allo stupore, all’ammirazione, alle mille domande che sorgono sulla sua vita disgraziata e dissennata. Ci lascia commossi, inquieti e riconoscenti.
Con queste sensazioni mi sono recata all’angolo souvenir e mi è caduto l’occhio sul un libro intitolato “Caravaggio una luce nelle tenebre” scritto dallo studioso americano Roy Doliner. Più tardi andando avanti nella lettura di questo saggio ho rischiato di cadere nel tranello e provare un pizzico di delusione, ma è stato solo un attimo. E’ accaduto quando a pagina 71 ho letto questo brano: “Nella sua mansarda d’artista il soffitto e la finestra dell’abbaino erano dipinti completamente di nero e la parte superiore del lucernario era stata sfondata per far entrare la luce che si rifletteva in uno specchio convesso collocato vicino alla finestra in modo da concentrarsi come in un riflettore nell’oscurità dello studio sottostante. Focalizzando la luce intensa dall’alto creava il famoso chiaroscuro teatrale delle sue opere, evidenziando i modelli e gli oggetti principali delle scene eliminando i dettagli inutili con l’uso dello scuro” Caravaggio usava insomma una rudimentale camera oscura, improvvisata con i mezzi dell’epoca. Con lo specchio l’immagine veniva proiettata direttamente sulla tela creando poi un effetto ricalco e quindi il più reale possibile. Questo sistema facilitava il suo lavoro, velocizzava i tempi e gli lasciava più tempo libero per dedicarsi alle sue occupazioni preferite: i bagordi, le risse e il gioco.
Tesi avvalorata anche da alcuni scritti dei suoi contemporanei e dal fatto che conoscesse la tecnica perché a servizio del cardinale romano Del Monte, uomo illuminato e al corrente di tutte le novità scientifiche del tempo tra cui anche la costruzione dell’ultima camera oscura della Porta a Venezia.
Che dire? La sua improvvisata camera oscura gli era di aiuto certo…ma è veramente il suo grande segreto? Che tanto genio lo si possa spiegare solo svelando l’uso di uno specchio convesso?
Che tutto di Caravaggio lo si debba sempre ricondurre alle sue intemperanze e alle sue poco ortodosse inclinazioni e che non abbia nessuna grandezza spirituale un uomo che dipingeva quadri simili?
Io non credo. Pochi lo credono per fortuna.
Tra gli ultimi quadri esposti nel percorso della mostra troviamo “Davide e Golia” la testa di Golia è un autoritratto di Caravaggio a tre mesi dalla sua morte. Guardate bene l’espressione di Davide e quella di Golia nella testa mozzata. Se riusciamo veramente ad entrare dentro a questo dipinto, capiremo che la risoluzione del rebus è lì. Pietà, superbia, umiltà arroganza, luci ,ombre, eroi buoni, giganti cattivi, sacro e profano, ideali sublimi e istinti più bassi, tutto convive nelle tavole di Caravaggio così come dentro tutti noi e quindi nel mondo, ma lui solo ha saputo fissare il caos su una tela in modo talmente umano da risultare ultraterreno.

Valentina Roselli

 

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