Fin dalla prima adolescenza Amy ha saputo mostrare la sua “anima maledetta”, facendosi espellere all’età di tredici anni dalla Sylvia Young Theatre School per il ribelle ostentamento di un piercing. Nel 2007 raggiunge la vetta del successo con Back to Black, con il quale album e col singolo Rehab vince cinque Grammy Award. Purtroppo la cantante ebrea è riuscita a far parlare di sé più per i suoi aneddoti di alcolismo e droga che per le sue doti canore. Barcollando sul palco, beccata dai fotografi satura di lividi e graffi, addirittura sollecitata nel marzo 2008 da un certo Keith Richards a smettere di fare uso di droghe, perché queste non stronchino la sua vita e carriera. Non bastano le parole di una star da un passato simile a interrompere l’inquietudine della Winehouse, la quale alterna la sua vita fra tour annullati, intermittenti disintossicazioni in clinica (nonostante il testo di Rehab) e video amatoriali di lei che fuma crack o cade sul marciapiede.
Così, il 23 luglio, ore 15:53, Amy viene trovata agonizzante, ormai aggrappata a un filo di vita, nel letto della sua casa di Camden Square. Avrebbe compiuto ventotto anni a settembre, ma la cantante sembra non aver voluto aspettare tale data, per adattarsi alla tradizione: la maledizione del 27. Al gruppo dei più grandi musicisti ventisettenni morti per uso di droga o/e alcol, come Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison e Kurt Cobain, si è aggiunta lei, Amy Winehouse. Piccola, talentuosa, eccentrica, trasgressiva, rimane destinata alla nuvoletta degli altri maledetti e alla perpetuazione nei nostri ricordi.
Nicola Fatighenti