Gabriele D’Annunzio: un poeta militante incompreso?

Gabriele D’Annunzio: un poeta militante incompreso?D’Annunzio è sempre stato animato da uno spirito di protagonismo, da un desiderio di successo come poeta vate della nazione italiana e per questo motivo non c’è da stupirsi se agli occhi dell’opinione pubblica è apparso come il portavoce dell’ideologia fascista. In realtà egli non condivise mai pienamente le idee di Mussolini dato che il suo scopo era quello di elevarsi dalla volgarità del popolo staccarsi dalle cose futili, presupposti questi che troveranno

massima espressione durante la fase del superuomo. Ma quando egli parla di vivere inimitabile, contemporaneamente nasconde un profondo malessere che lo accomuna ad altri letterati del primo Novecento. È il caso di Baudelaire, di Huysmans, di Oscar Wilde, di Pascoli e di James Joyce ovvero di intellettuali che fanno parte di quel periodo noto come decadentismo. Anche in D’Annunzio si sente la necessità di superare una crisi di identità che coinvolge non solo poeti e scrittori ma tutta la società che, in preda ad un mondo in continuo cambiamento, non possono non sentirsi persi, senza un punto di riferimento, privi di certezze e vadano alla disperata ricerca di un ideale forte e stabile. E’ da questa necessità che prende piede in Italia il fascismo. Ma ritornando a D’Annunzio, il suo disagio sociale si può trovare in particolar modo nelle sue prime opere, nelle vite stanche e annoiate di Andrea Sperelli, di Tullio Hermil, di Giovanni Episcopo e di Giorgio Aurispa, personaggi chiusi nei loro desideri, nei loro futili amori, nelle passioni, nelle finzioni, incapaci di rapportarsi con il mondo circostante e instaurare un rapporto vero con esso. La vita estetica di Kierkegaard, parlando in termini filosofici, è il vero scopo di D’Annunzio e nelle sue opere essa è il tema che maggiormente ricorre. Non a caso nella prefazione al Trionfo della morte, rivolgendosi all’amico pittore Francesco Paolo Michetti, egli scrive:

[…]V’è sopra tutto – sebbene io sembro forse ambire che lo sforzo da me

tentato, per rendere la vita interna nella sua copia e nella sua diversità,

abbia un valore trascendente quello della pura rappresentazione estetica

– v’è , sopra tutto, il proposito di fare opera di bellezza e di poesia, prosa

plastica e sinfonica, ricca d’imagini e di musiche.[…]

 

Da queste parole si comprende che cosa D’Anninzio intende quando parla di vivere inimitabile, si tratta di un vivere all’insegna della bellezza e della purezza che deve riguardare ogni aspetto della vita fino alla prosa e alla poesia. Sulla base di ciò, sarebbe errato definire questo scrittore come emblema del fascismo. Egli era sì spinto dal desiderio di una rivincita per l’Italia (tanto che fu lui stesso a parlare di pace mutilata), si era sì schierato con gli irredentisti, ma è vero anche che non fu il solo. Io preferisco vederlo, piuttosto, come lo strumento in mano al fascismo, un mezzo efficace per fare propaganda politica, anche lui un uomo assoggettato a Mussolini verso il quale D’Annunzio non nutriva grande stima. Ancora una volta voglio ricordare che questi rifiutò di partecipare alla marcia su Roma, episodio che, a mio parere, è una prova del suo atteggiamento restio nei confronti del potere politico. Con questo non ho alcuna intenzione di smontare il legame, ormai consolidato, tra l’ideologia dannunziana e quella fascista. Che l’una si rispecchi nell’altra è un dato di fatto. Dalle sue opere, soprattutto quelle del periodo superomistico, si nota quanto questo scrittore sia orientato verso un orizzonte nazionalistico e imperialistico che converge con atteggiamenti molto diffusi nella piccola borghesia del tempo, e che pone le sue basi sul culto della violenza, della distruzione e della guerra, concepito come utile strumento di epurazione in grado di forgiare nuovi spiriti umani. Anche se D’Annunzio non si impegnò direttamente nella politica e nutrì forti dubbi nei confronti del fascismo, a lui va attribuita la responsabilità di aver fatto convergere i suoi ideali di sopraffazione in quel partito politico che nell’arco di pochi anni avrebbe portato a compimento il processo di trasformazione dell’Italia in uno Stato totalitario. In particolar modo ai fascisti interessò l’oratoria infiammata e dirompente, la parola vibrante e aggressiva che il poeta e scrittore del vivere inimitabile adoperava per dare maggiore enfasi al rischio e al pericolo e con il quale egli giungeva direttamente alle menti di chi lo stava ad ascoltare inducendole a fare ciò che lui voleva facessero. Nessuna meraviglia, dunque, nel vedere che il linguaggio politico fascista seguì spesso questi modelli dannunziani. Ne nacquero motti diventati parole di battaglia, immagini eroiche ed esemplari, veri e propri slogan, tutti espedienti volti non a far conoscere la realtà, ma a creare un consenso puramente emotivo.

 

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