Generazione mille euro, e anche meno

Generazione mille euro, e anche menoNon sempre riusciamo ad ottenere ciò che vogliamo. E questo a volte è un bene perché ci mettiamo sotto e sgobbiamo per arrivare al nostro obiettivo. E una volta arrivati, la soddisfazione è massima. Sempre se ci arriviamo. Per quanto riguarda il lavoro, puoi sperare finché vuoi ma pare che ultimamente siano in pochi quelli che vengono accontentati. Ai tempi dia mio fratello (ha dieci anni più di me, mica cinquanta), sceglievi il tuo percorso di studi in base a quello che volevi fare. E prima di finire l’università, ricevevi sempre qualche interessante offerta di lavoro. Ricordo che allora il telefono suonava in continuazione dato che i cellulari non erano ancora così largamente diffusi da dare quello come numero di riferimento. Morale, il giorno prima della proclamazione aveva in mano ben tre proposte di lavoro e doveva scegliere. Col senno di poi si può dire abbia optato per la soluzione migliore. Oggi non è così. Io mi sono laureata cinque anni fa e mi sembra un secolo se penso a quanti colloqui ho fatto per avvicinarmi al lavoro che vorrei per poi finire nell’unico posto in cui mi ero ripromessa con la mia amica non sarei mai andata. Però un lavoro ce l’ho. Non è quello che voglio, non è creativo, non è stimolante, non è flessibile. Ma lo stipendio pieno mi arriva il ventisette di ogni mese senza eccezioni. E questo è un miraggio per molti della mia età che si barcamenano tra contratti a termine e a progetto. Noi, generazione mille euro, che se va bene finiamo a fare gli impiegati. ‘Questa è l’unica epoca in cui i figli stanno peggio dei padri’ afferma il protagonista del film generazione 1000 euro, appunto. Ed è così, senza dubbio. Mio fratello, e tutti i suoi amici, sono arrivati dove volevano. Certo non proprio tutti, ma quelli che si impegnavano e sapevano dove volevano arrivare sono li, nell’ufficio che si immaginavano da quando avevano vent’anni a fare quello per cui hanno studiato. Che sogno. Per noi giovani italiani under trenta è davvero un sogno arrivare al lavoro che volevi ed essere anche pagato. Sono due discriminanti fondamentali perché i casi sono due: o non riesci proprio ad avvicinarti a ciò che vuoi oppure, se ci arrivi ti offrono meravigliosi stages o collaborazioni non retribuite. E, allora, tu ti infili in una lavoro che odi e che non senti tuo, nel mio caso la banca, pur di sbarcare il lunario e poter navigare verso l’isola felice del tuo lavoro ideale. Non importa quanto ti sei impegnato, se ti sei laureato sei mesi prima con 110 e lode, se hai frequentato master da tremila euro perché credevi ti dessero una chance in più. Sei li con il tuo odioso lavoro, quando c’è è giusto dirlo, che ti scervelli per capire se hai fatto qualcosa di sbagliato o se va meglio così. Perché il passo successivo è ovviamente cercare di pensarla in positivo “ma poi non sto così male, sono fortunato rispetto a chi è stato licenziato o è a casa” continui a ripeterti. Ed è la verità. Bisogna considerarsi fortunati se si lavora, al giorno d’oggi. Noi giovani che dovremmo essere il capotreno del motore dell’economia, relegati a macchinisti. Io sogno da quand’ero bambina di diventare giornalista. Ci sto provando da anni, ho iniziato a collaborare con testate giornalistiche da quando avevo sedici anni, sempre impegnata a so scrivere, commentare, cercare nuovi spunti.. All’università mi sono laureata prima, ho fatto stages nei quali ho regalato gratis le mie idee a chi le ha usate senza pagarmi un cent, sperando fosse un investimento. E oggi sono demoralizzata e non riesco più, dopo tutti questi anni, a guardare al futuro con positività. Forse dovremmo stare più attenti ai nostri sogni. Ieri mia nipotina mi ha detto “Zia, io da grande voglio fare come te che vai in tanti uffici, sei sempre in giro in macchina, scrivi al computer e hai la macchinetta fotografica sempre nella borsa. Sembra divertente”. “Tesoro ma lo sai che lavoro fa la zia?”. “No ma il papà dice che hai studiato tanto per farlo!”. Tuscé.

 

Eva Stella

 

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