Ho preso un treno chiamato Italia

Ho preso un treno chiamato ItaliaHo preso un treno chiamato Italia. Son partito da Venezia con destinazione Palermo. Tante tappe e tante ante da aprire per scavare negli armadi della ricchezza e tante persiane da chiudere per dimenticare le cose perse.

Venezia e le sue gondole dondolano nel ristagno di una bruna laguna. San Marco e i leoni in piazza a ruggire a colombi e piccioni, tra i turisti impiccioni, intenti a cibarsi di arte abbondante per poi abbandonarsi alle briciole della vita. Tra le dita il vizio del gioco e, ormai,  il casinò e l’ordinato Veneto sono alle spalle.

Milano e la Madonnina rompono la nebbia e seguono moda e suv correre tra grattacieli, che grattano i cieli solleticati dai fumi di un’aria ricca. Progresso mangiato a bocconi troppi grossi, come i gessi universitari che servon solo ad abiti gessati e invecchiati che rompono i denti ai giovani studenti.

La padania si allontana con le sue tane per ratti, che rubano i fatti delle fragili ampolle. Un po’ di Po è acqua che muore nel nord, se poi la si piscia sul sud.

Piadina, Bologna, Romagna e campagna. Si aprono le rosse regioni cadute nel rosso di un vino divino, che scorda ragione. Dopo le torri vedo strade e tette a servizio di chi vuole digerire i tortelli. Pazze rane che saltano valori per svuotare ripieno e calori.

Fratelli d’Italia ecco Firenze, piccola e piena di affreschi e mercati freschi di seta e pelle, coperta da foulard. Una commedia umana, che col suo viaggio ha dato umanità e coraggio all’umanità.

Un eterno inferno cercare il sorriso di un paradiso nella sala d’aspetto di un purgatorio, per rinascere e crescere senza difetti e affetti.

Il treno corre come una freccia rossa e pian piano rallenta e diviene un carro e si ferma. Ecco la capitale, dove i capitali si fermano in blocchi e bloccano un paese. Ecco Roma, ecco il Colosseo, ecco traffico e clacson perdersi nei fori di mille rumori a scordar silenzio e profumarsi d’incenso tra enormi chiese, indifese e offese da scatti e mercati.

Da lontano, oltre l’ingorgo, scorgo il Vaticano con fiumi di fedeli alla riva del cuore per bagnarsi di battiti. Luce attesa nella distesa dei momenti bui.

È notte e le gallerie coprono quel che resta delle gesta di eroi ed imperatori, ora star e calciatori, cavalieri della repubblica italiana, fondata sul lavoro.

I miei occhi non hanno sguardi e nel risveglio vedo bellezza, ma odoro dimenticanza. Napoli è una chiusa stanza e il cielo, se pur l’annusa, è più azzurro della maglia di Maradona e ancora ride alle battute del principe Antonio De Curtis. Sento il canto dei quartieri tra tradizioni ed azioni illegali. Una libertà che costa. Il prezzo è alto e la posta in gioco è in ritardo. Lo è anche il treno.

Troppi uomini dello stato che non pagano e occupano i posti degli onesti, in piedi e in fila a tenersi, col biglietto prenotato in tasca, dopo un anno di lavoro e trattenute.

Fiancheggio la Salerno- Reggio Calabria, un cantiere sempre aperto al lavoro della mafia.

Ecco Villa San Giovanni e il treno si ferma. Aspetto senza fretta assieme alla persa pazienza, la coincidenza persa del traghetto.

È un tempo interminabile, senza mezzo termine, ma con un termine intero, scremato e stremato: perdita, perdita di tempo.

Arriva il mare. Un mare che fa innamorare, un mare che porta al largo i pensieri, il Mare dello Stretto.

Il tempo di passare sotto l’ombra dell’invisibile ponte e leggo le parole della Madonnina di Messina: Vos et ipsam civitatem benedicimus (Benedico voi e la vostra città).

Il treno si ferma e prende e lascia vagoni ed io, prendo arancini e cannoli. Scanso motorini con sopra tre persone senza casco, che sbucano tra macchine in tripla fila. I vigili al bar prendono un pezzo di pizzo per chiudersi gli occhi ed aprire la bocca per assaporare una meravigliosa granita caffè con panna.

Manca Palermo, manca poco. Eppure è tanto. Come il divario tra un italiano e un siciliano. Stesse tasse, stessi contributi, ma diversi servizi, enormi disservizi dovuti a tanti vizi, uno su tutti: non ribellarsi.

Ripartiamo e il treno invecchia. I sedili sgualciti, l’aria condizionata dall’aria del sud, afa che fa sudare e lavorare il doppio rispetto a  chi, tra uno spritz e l’altro, fa lo scaltro e fuma oppio.

Qualcuno chiama questo treno la freccia nera. Si narra che questa freccia sia l’ultima freccia rimasta all’arco del trasporto italiano. Inoltre si dice che, nel periodo delle elezioni, questa freccia sbianca e prende un po’ il colore delle promesse e poi ritorna con la faccia di prima perché come prima ritornano le stesse facce.

Il paesaggio intorno è un assaggio di paradiso. Il sorriso della natura ed un mare trasparente nuotano insieme e rinfrescano i campi di frutta dai colori accesi. Più accesi dei neon dei grandi ipermercati, che fruttano però tanto.

Finalmente dopo mille battaglie nella terra della battaglia dei Mille ecco Palermo. Resto fermo come il treno. Freno gli occhi, mi guardo dentro e inizio a scrivere.

Ho preso un treno chiamato Nord-Sud, Ricchezza-Povertà, Servizi-Disservizi, Artificio-Natura, Bellezza, Arte, Storia, Poesia, Tasse, Evasione, Eroi, Calciatori, Cavalieri.

Ecco ci sono: Ho preso un treno chiamato Italia.

 

Santi Germano Ciraolo

 

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