Il senso della desolazione

In un pomeriggio di ozio si può andare in giro nella propria città a osservare distratti l’andirivieni dei turisti, dei gruppi allegri di stranieri che si divertono spensierati, alla luce del sole che fa rilucere i tanti ricordini esposti a vista nelle vetrine. Nel nostro angolo preferito, suggestivo e ammaliatore, possiamo divagare in pensieri particolari. In caso di malattia la luce dorata del giorno può non riscaldarci a sufficienza, non ci garantisce quel calore di cui abbiamo estremo bisogno. A un certo punto se siamo gravemente malati macchie scure appannano la nostra vista, le stesse macchie che appaiono sul quaderno del nostro destino ormai consumato. La malattia consuma piano piano il tempo che ancora ci resta da vivere. Le ombre sulla nostra vita si allungano, diventano rapaci, prendono tutto il corpo e poi anche l’anima. Il corpo prigioniero del male, sembra avvinghiato in un balletto osceno con la morte. Il punto caldo, il nodo focale diventa quel dolore a intermittenza che pulsa nelle vene, nelle viscere. La gente in giro che si incontra sembra al sicuro nella propria vita giovane e frizzante. Invece noi siamo nel cono d’ombra del male, nella parte buia. Gli altri sono nella parte illuminata a giorno della vita. Il male oscuro ci isola, ci separa dal resto del mondo, dal divertimento, dalla gioia. Gli altri ci guardano, ci sfiorano maldestri ma non sanno quello che ci portiamo dentro. Alcune donne ci scrutano impietose, guardando e invidiando magari il nostro vestito elegante, vistoso. Quella invidia così manifesta fa male, procura una vertigine simile a quella della febbre, fa più male della malattia. Gli altri indifferenti non sanno che noi specie di notte lottiamo con il male malvagio, subdolo. Le battaglie notturne con il male sono cruente, selvagge, fiaccano, stremano. La luce del giorno ci trova esausti, insonni, persi nel dolore. La mattina abbiamo la fronte gelida, le mani fredde, il volto stravolto, ma nessuno ha pietà o sembra averne. Gli altri sono indifferenti quando si comportano bene, in altri casi sono ostili, perfidi. La cattiveria di certe persone ci fa più male del vero male che si annida e cova dentro di noi. Se siamo pallidi, magri non è colpa nostra, ma gli altri ce lo fanno notare senza tanti preamboli. L’aspetto esteriore imperfetto può essere motivo di discriminazione. Allo specchio vediamo il nostro volto emaciato, la pelle aderente alle ossa, gli occhi spiritati, le mani percorse da vene azzurre ben evidenziate e sappiamo di stare in difetto, di non essere in forma per gli altri. Il corpo si trasforma ogni giorno si adegua alla malattia. L’anima viene sempre più respinta lontano e finisce per non riconoscere più come suo quel corpo sgraziato, martoriato, distrutto, quel corpo che tutti respingono perché impresentabile. L’aspetto poco florido, trascurato, l’abbigliamento trasandato, i capelli scomposti, le occhiaie ci rendono poco appetibili anche al partner. Alla gente interessa l’esteriorità, biglietto da visita lucido e perfetto, pulito, senza macchia. La salute è il lasciapassare per ogni iniziativa, la malattia una specie di handicap. Fa un certo effetto a un certo punto trovarsi per caso dall’altra parte della barricata, dalla parte del male. E’ come sentirsi estranei in casa propria. Ci si sente abbandonati fra l’indifferenza di tutti, amici compresi. Si invidia la gente per la strada e ci si sorprende a guardare scene di vita familiare con occhi avidi. Anche noi vorremmo quella parte di felicità che ora appare preclusa, non in modo temporaneo, ma per sempre. Tagliati fuori dal divertimento, dalla bellezza dell’universo, che non si potrà più godere, ce la prendiamo con quel malore che ci ha distrutto la vita. L’angoscia lascia il posto alla malinconia, a quel lasciarsi andare alla deriva come un aquilone senza meta. Lottare serve a ben poco è come lottare contro i mulini a vento. La lotta con il male è perversa, al limite della follia, impari e alla fine spesso siamo destinati a soccombere senza scampo. Il destino cieco colpisce senza riguardo. Ci disorientiamo a guardare la folla rumorosa, ci stordiamo a vedere il traffico in tilt. Tanto rumore che finisce per contrastare con il silenzio interiore dello sbigottimento, un silenzio chiuso, ostile, rassegnato. Allora ci si chiude ancora di più in se stessi, si chiudono gli occhi per non vedere tutta quella desolazione, tutta quella indifferenza che alcune volte uccide più di una malattia.

 

Ester Eroli

 

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