Il senso della fine – II

Il 21 dicembre 2012 il mondo finisce.

Proseguiamo la riflessione continuando a dare la fine per scontata, sicura.

Adesso mancano 443 giorni, poco più di diecimila ore.

Il precedente articolo si concludeva riflettendo sulla capacità di ognuno di dire con estrema franchezza a se stesso se la sua esistenza sia stata sin qui un’esperienza utile o inutile, giusta o ingiusta, benefica o dannosa per gli altri, per il resto dell’umanità. Se siamo stati ossigeno o veleno per coloro che abbiamo incontrato.

Certo, nel corso di un’intera vita si può essere a volte veleno, a volte ossigeno, a volte solamente acqua tiepida nelle melme di un quotidiano incolore e ripetitivo, e una valutazione definitiva, unica, inappellabile sembrerebbe impossibile, un po’ come si ragionava nel primo articolo a proposito dell’utilità o meno della presenza umana sul pianeta. Ma analogamente al ragionamento già fatto per l’intera umanità, si ha adesso il dovere di compiere lo sforzo di scomporre il valore della propria vita nelle particelle elementari che lo compongono, e valutare in quest’ottica la propria esistenza.

Particelle elementari quindi, mattonelle fondamentali che costituiscono la propria materia morale, la struttura interiore della coscienza, l’anima pensante, noi stessi. Particelle elementari certe, poche, indubitabili, indiscutibili, completamente nostre, anche nonostante noi stessi.

Hanno nomi diversi, ma sono tutte quante mescolate nella nostra essenza come una vera e propria natura, come lo è l’elettrone dentro ogni tipo di atomo. Sono il senso di giustizia, la fratellanza verso i propri simili, l’empatia verso la sofferenza altrui, l’istinto di protezione verso il prossimo, l’appartenenza alla specie umana. Ma la ragione utilitarista, il raziocinio egoistico indotto dalla società, dai suoi simboli e dai suoi valori, spesso ci fa sembrare la nostra natura qualcosa di debole, inopportuno, scomodo, persino inutile per il conseguimento del miglior obiettivo immediato, facendoci diventare alieni dall’umanità che ci identifica e ci compone, alienati della nostra stessa natura.

E’ partendo da qua che è possibile dire a noi stessi quanto la nostra essenza sia ancora presente nell’esistenza quotidiana, oppure, al contrario, quanto si sia allontanata da noi, quanto ci siamo alienati. Magari possiamo dire a noi stessi che proteggiamo i nostri cari, che sentiamo il loro dolore come il nostro, che vogliamo tutto il giusto possibile per loro, ma tutto questo lo proviamo anche per gli altri? Sentiamo la nostra umanità vibrare anche per colui che ci passa accanto, per l’extracomunitario, per il clochard, per il collega, per il rivale in amore? Probabilmente no. Facciamo dei distinguo, giudichiamo chi è meritevole e chi no della nostra umanità, e subito dopo ci comportiamo di conseguenza. Anteponiamo la logica del mondo in cui viviamo a quella della specie di cui siamo parte. Resta solo il problema di sapere quanto volte lo facciamo, come lo facciamo, cosa facciamo. Individuare il Quantum della nostra umanità. Il valore da mettere in fila, assieme a quello di tutti gli altri, per comporre la somma con cui misurare tutta quanta l’Umanità.

 

Riccardo Jevola

http://riccardojevola.altervista.org

 

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