La morte del Rais e il tiepido saluto di Pechino

La morte del Rais e il tiepido saluto di PechinoGheddafi è morto. La notizia accolta con giubilio dal popolo libico e con sollievo dall’Occidente – il passaggio a miglior vita del Rais sancisce finalmente la fine della missione in Libia dell’Alleanza Atlantica – sembrerebbe aver lasciato Pechino in una tiepida indifferenza. “La Cina rispetta le scelte del popolo libico e l’importante ruolo svolto del Consiglio nazionale di transizione. Ci auguriamo che il Paese possa mettere a punto un processo di transizione politica il prima possibile, al fine di preservare la stabilità e l’unità sociale”. Lo ha dichiarato venerdì Jiang Yu, portavoce del ministero degli Affari Esteri cinese.

Il Dragone non si sbilancia mai; rilascia parole attentamente ponderate, si destreggia nell’intricata rete di relazioni internazionali intessute negli ultimi anni, mantenendo i piatti della bilancia ben in equilibrio. A febbraio Pechino si era astenuto dalla votazione sull’intervento in Libia in sede di Consiglio di Sicurezza ONU, senza nascondere nemmeno un certo disappunto per le operazioni aeree della NATO. Un comportamento certo non dettato dal caso né da un capriccio del momento, quanto piuttosto dalla necessità di difendere il proprio “posto al sole” nell’Africa del nord. La rivoluzione libica, infatti, ha messo i bastoni tra le ruote del Dragone, arrestandone la corsa agli investimenti. Soltanto nella prima settimana di violenze, il ministero del Commercio di Pechino aveva stimato l’attacco e la distruzione di 27 stabilimenti e cantieri d’impresa cinesi; al tempo le autorità bollarono il gesto dei ribelli come “razzie di gangster”. Un brusco risveglio rispetto ai tempi della gestione Gheddafi, quando il Paese di Mezzo vantava il titolo di primo partner commerciale, con 36mila lavoratori sul campo impegnati in progetti da 19 miliardi di dollari e con l’appalto di un gigantesco progetto di infrastrutture su rotaia vinto dalla Compagnia delle ferrovie cinesi per un compenso di 2,6 miliardi di dollari.

Ma se Pechino aveva quindi tutto l’interesse a difendere il leader libico (il quale, tra l’altro dopo l’intervento armato dell’Alleanza Atlantica e la partenza delle società petrolifere occidentali si disse pronto a sostituirle con quelle di Cina e India), allo stesso tempo doveva anche evitare di suscitare l’ira della “mezzaluna”. La sete energetica dell’Impero Celeste viene infatti in gran parte placata dai Paesi arabi, da sempre ostili al colonnello, e bloccare la risoluzione delle Nazioni Unite – in altre parole schierarsi con Gheddafi – costituiva un passo troppo lungo da compiere, poiché uno scivolone del Dragone avrebbe potuto mettere a rischio i rapporti con l’Arabia Saudita, uno dei principali “benefattori” di greggio dell’Impero Celeste. Tanto per quantificare numericamente l’eventuale danno, si pensi che il Dragone importa il 52% del petrolio consumato (8 milioni di barili al giorno), di cui oltre la metà proviene dal Medio Oriente e un terzo viene fornito proprio dal regno di Saud.

Il Regno di Mezzo si barcamena nel tentativo di mantenere in equilibrio la nuova assertività in politica estera con l’esigenza di tutelare i propri interessi, i quali ormai ne condizionano inevitabilmente i movimenti sulla scacchiera internazionale. La risposta dei Paesi occidentali alle rivolte del mondo arabo hanno sfidato i principi di coesistenza pacifica sbandierati da Pechino, incardinati sul “comandamento” di non ingerenza negli affari interni; valori questi che tuttavia il Dragone non esita ad infrangere qualora i fatti contingenti lo richiedano. Nello specifico, un pronunciamento contro la no-fly zone avrebbe comportato un isolamento internazionale, ragione sufficiente per mantenere una posizione vaga, ritrattabile al momento giusto. E così è stato: una volta capito che le sorti del Rais erano segnate, la Rpc non si è fatta troppi problemi ad entrare nella coalizione dei Paesi fautori del cessate il fuoco e dell’avvio dei negoziati.

Insomma, nel corso della guerra civile, il governo cinese ha preferito mantenere il piede in due scarpe, portando avanti i rapporti sia con i ribelli che con le forze lealiste. Mentre a giugno il Partito riceveva il ministro degli Esteri del colonnello, soltanto pochi giorni prima i diplomatici cinesi di stanza al Cairo e in Qatar avevano preso contatto con gli insorti di Bengasi.

Ora però le regole del gioco messe in campo da Pechino, rischiano di trasformarsi in un pericoloso autogoal. Alcuni portavoce del nuovo governo libico tempo fa avevano dichiarato che le società cinesi potrebbero subire delle discriminazioni a causa della condotta poco limpida della Rpc. A ciò poi va ad aggiungersi la delicata questione della vendita di forniture militari ai soldati dell’ex leader libico. La notizia, riportata alla luce nel mese di settembre dal quotidiano canadese Global and Mail, aveva palesato l’intenzione di tre compagnie statali cinesi di vendere armamenti per 200 milioni di dollari alla Tripoli di Gheddafi. E sebbene l’indiscrezione sia stata in seguito smentita categoricamente dal ministero degli Esteri, adesso che il Rais è morto, è inevitabile chiedersi se il nuovo governo libico deciderà di mettere in atto azioni di ritorsione.

 

D’altra parte la questione libica è soltanto l’ennesimo banco di prova per la “realpolitik” del Celeste Impero. Acquisire potere e gestire i conflitti in modo da utilizzarli a proprio vantaggio è la strategia utilizzata dal Dragone per raggiungere la stabilità mondiale, requisito indispensabile per continuare la sua crescita economica e realizzare il sorpasso sugli Stati Uniti che di fatto sancirebbe il trionfo del “Beijing Consensus”. Eppure, a quanto pare, questa stessa strategia, talvolta, sembra sfuggirgli di mano.

 

Alessandra Colarizi

 

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