Oggi, la famiglia-tipo è composta da due genitori e due figli, mentre meno di un secolo fa, ogni famiglia annoverava almeno cinque figli. La famiglia agricola e patriarcale era spesso formata da più nuclei, in cui gli uomini lavoravano e le donne si occupavano della casa e dell’educazione dei figli. La realtà odierna ci mostra due genitori che entrambi lavorano fuori casa e l’educazione dei figli, per forza di cose, è delegata a strutture sociali sin dalla tenera infanzia.
La trasformazione della famiglia italiana si deve soprattutto alla conversione economica del Paese che, da prevalentemente agricolo si è convertito in industriale, sviluppando, di conseguenza, i servizi e le indispensabili strutture sociali. Tale evoluzione non ha tuttavia cancellato ogni traccia del vecchio modello, sussistono tuttora abitudini e modi di pensare che legano la famiglia del presente a quella del passato.
Secondo quanto riportato dall’ISTAT, tuttora le famiglie si riuniscono almeno una volta al giorno. Il pasto è l’occasione di dialogo e confronto tra genitori e figli, la cena, in particolare, diventa uno dei pochi momenti della giornata in cui i membri della famiglia possono stare insieme. Inoltre, pur essendo di tipologia prevalentemente mononucleare, non è raro che uno dei nonni paterni o materni, specie se in condizione di vedovanza, viva ancora con uno dei figli. Un ulteriore elemento che lega ancora il presente al passato è lo stretto legame affettivo che rimane tra i membri familiari anche quando questi ne creino dei nuovi.
E’ noto, inoltre come gli italiani siano sempre pronti ad aiutare i propri parenti, specie se in difficoltà economiche, o di lavoro, o di salute e, quand’anche lontani, come cerchino sempre di ritrovarsi e riunirsi in occasione delle feste religiose o dei compleanni.
In questi ultimi anni si è verificata una controtendenza che ricalca antiche abitudini, anche se dettata da motivazioni e necessità diverse di un tempo: la decisione da parte dei figli di rimanere ospiti dei genitori fino ai trentacinque-quarant’anni prima di crearsi un proprio nucleo familiare.
Le motivazioni sono di stretta natura economica, più che di bamboccionismo, tanto per usare un recente neologismo; le responsabilità economiche aggravate dai costi sociali e dall’incertezza del futuro certo non incoraggiano i giovani ad uscire dalle case paterne. Ne consegue un preoccupante fenomeno di riduzione della fecondità e uno spostamento verso l’alto dell’età delle primipare. Oggi le madri concepiscono il primo figlio dopo i trent’anni, fino a cinquant’anni or sono, intorno ai venti, se non prima.
Ecco la ragione principale che relega il nostro Paese, in quanto a fecondità, all’ultimo posto in Europa.
I freddi indici ISTAT ci dicono che, in seno alle famiglie, tanto è cambiato, ma che molti componenti delle stesse, ora statici e sfiduciati, se fosse possibile, cambierebbero atteggiamento e modo di vivere. Sarebbe sufficiente qualche certezza in più sul futuro, per ritornare dinamici, per procreare più figli e soprattutto avere più tempo da trascorrere con loro. In fondo la qualità della vita in molti settori è migliorata: l’alimentazione, l’assistenza sanitaria, l’offerta farmacologica, i trasporti, non si può cancellare tutto quel che si è costruito in quest’ultimo secolo di vita. Ma l’impegno deve partire dalle Istituzioni che devono garantire lavoro e servizi di qualità a sostegno delle famiglie per porre le basi di una sostanziale inversione di tendenza alla desolante crescita zero.
Adriano Zara