Luigi Compagnone

Luigi Compagnone era nato a Napoli nel 1915. Dopo la laurea in lettere e filosofia conseguita alla università Federico II di Napoli, si era imposto come giornalista, commediografo, scrittore di poesie, di poesie d’amore, di cui esistono raccolte pubblicate,  di saggi, di romanzi oltre che insegnante a un liceo di Portici. Dopo un corso di giornalismo nel 1945 fondò la rivista Sud insieme ad altri intellettuali. Famosi sono i suoi interventi nel Mattino e le sue interviste garbate. Ha avuto molti premi come quello di Chianciano e Marzotto e al 1973 risale il premio Napoli. Ha ricevuto la cittadinanza onoraria nel suo paese di origine. Molte sono le ristampe e le pubblicazioni postume di racconti e romanzi, il primo dei quali risale al 1946 e porta il titolo La festa. Molte sono le sue passioni come la pittura.

il suo romanzo più significativo è certamente Dentro la stella. La stella è il nome di uno dei quartieri più vecchi e affascinanti di Napoli. In questo quartiere, fra vicoli e botteghe artigiane, ritorna il protagonista per far visita alla madre malata, dopo un lungo esilio durato anni per via del suo lavoro nel nord Italia. Si tratta di un ritorno alle radici, alle radici della sua memoria labile e nello stesso tempo forte e decisa a ricordare. Si descrive l’umile vita dei bassi, della gente semplice sempre in lotta fra speranze e  delusione, fame e paura, dolore e sogno di riscatto. Si tratta di gente provata dalla miseria, dalle umiliazioni, sempre in lotta per pagare le bollette che aspira a una maggiore giustizia sociale. Gente che risparmia, che evita gli sprechi e che vorrebbe vedere puniti gli evasori fiscali Una umanità che vive del proprio lavoro, che nei momenti spensierati canta nei vicoli vecchie arie. gente che conosce solo il proprio paese, che parla solo il dialetto, che vive di elemosine, di accattonaggio con la speranza nel cuore di un miglioramento. gente che lesina l’olio nelle pietanze, che gira con il banco di ambulante e che ha paura del domani. La paura di restare al lastrico, di finire male è una paura oscura, profonda, che afferra le viscere, che opprime il cuore. il protagonista ritrova la sua infanzia, ritrova la povertà, rivede le case misere con l’odore di cavolo e di medicinali. Lui che lavora fuori viene visto come un estraneo, uno fortunato. I vicoli sono sempre gli stessi con i pomodori al sole, i panni stesi ad asciugare. il fascino è quello di sempre con la musica natalizia degli zampognari e il profumo del pane cotto al forno e dei dolci tipici. Le botteghe vanno avanti a fatica,  fra debiti  e problemi economici con il registro dei conti in rosso. Nel quartiere girano miseri e diseredati che non hanno nulla da perdere, e hanno solo gli occhi per piangere, spesso asciutti e seccati dalla paura perfida e strisciante come un immondo serpente. la gente è affamata, porta le scarpe logore, è stanca e demotivata. Non ritrova la fierezza, sente solo paura. Solo i pezzi grossi della zona non hanno paura anzi sono loro a mettere paura. L’ingiustizia sociale reca solo paure che non possono essere profanate.

il quartiere appare al protagonista, considerato ormai forestiero, polveroso, decadente dove la gente si aggira impaurita e stanca  e si consola solo con un bicchiere di vino scadente o toccando un corno rosso contro il malocchio, secondo una antica usanza. Nei vicoli ci sono ruberie, ladrocini, liti. Sono disgraziati che rubano ad altri miserabili poche cose: un fazzoletto, un carretto ecc. I canti e le campane della chiesa sono sempre gli stessi di sempre e cercano di risvegliare una umanità sonnolenta e paurosa fino all’inverosimile che teme gli artigli della malasorte. il protagonista è considerato fortunato ma per lui la fortuna è respirare l’aria natia. Alla fine il protagonista riparte portando nel cuore il ricordo delle canzoni, dei fischi, della musica locale, del cibo, delle tradizioni contadine  e della paura che ha visto negli occhi di tanta gente prostata dalla fame e dalla mancanza di prospettive.

 

Ester Eroli

 

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