Ordinaria follia o non senso

Capita con maggior frequenza che la cronaca nera ponga dinanzi a destini incrociati. Catapultati sulle medesime pagine di giornale o su attigui servizi giornalistici, abitanti di nazioni diverse si possono ritrovare loro malgrado protagonisti di simili episodi delittuosi nelle stesse ore.

Si pensi alla strage di Liegi e di Firenze. Protagonisti a causa di quella che viene definita comunemente “follia omicida”. Materiale da finzione cinematografica, la stessa che sempre più spesso travalica la realtà stessa. In “Un giorno di ordinaria follia” di Schumacher, il protagonista, William Foster, è un uomo qualunque che, vessato dalla vita pubblica e privata di tutti i giorni, attraversa la città per tornare a casa, lasciando dietro di sé morte e distruzione, coincidenti con gli ostacoli che gli capitano nel suo percorso. Foster afferma: “Ho superato il punto di non ritorno. Sai qual è? È il punto in cui, in un viaggio, è più conveniente proseguire che tornare indietro”. Il punto di rottura si era avuto anche a Oslo mesi prima, quando un folle che rifiuta di essere definito “incapace di intendere e volere” dai professionisti che lavorano al suo caso, prepara una strage senza destare sospetti in nessuno. Il filo conduttore di questi risaputi fatti di cronaca sta proprio nel punto di non ritorno. Bombe, granate ed armi da fuoco per soluzioni casarecce ed alternative al fantoccio delle proprie nevrosi, il diverso, visto come ostacolo al proprio benessere. Un capro espiatorio che permetta al folle ordinario di fare pace con una società da cui si sente svilito, mortificato, rimpiazzato. C’è una logica, per quanto irrazionale, nel gesto di chi cerca una giustizia che non è neppure vendetta, quanto piuttosto violenza gratuita.

Altro è il non senso che pervade la società di ogni latitudine e condizione economica. Non c’è soglia di prodotto interno lordo né di coesione sociale in grado di fornire un limite al di sopra del quale si viva meglio, se è vero che i Paesi scandinavi sono quelli che registrano le migliori performance di coesione economica e culturale ma anche i più alti tassi di suicidio del Vecchio Continente. Recenti episodi che hanno scritto pagine e pagine di cronaca sono il caso del ventenne studente triestino schiacciato dal peso di un palco, che avrebbe dovuto ultimare assieme ad altri operai. Non è certo l’ultima morte bianca, ma desta le coscienze il caso di chi rischia la vita per pagarsi le tasse universitarie. In questi contesti, non esiste un filo logico che permetta la consolazione dell’esemplarità da cui attingere per migliorarsi. Furoreggia un misto di incredulità ed impotenza nello svolgersi degli eventi, definito generalmente “non senso”. In “Ritorno a Cold Mountain” di Minghella, il protagonista è il giovane Inmar, anch’egli come Foster in un viaggio di ritorno a casa, in cui le tappe sono quelle di una violenza declinata nelle sue varie forme, eppure il suo ritorno è pieno di un attesa speranzosa, assente nel viaggio di Foster, perché qui c’è qualcuno che attende il soldato Inmar, affermando: “ Chiamano questa guerra una “nube sulla prateria”, ma l’hanno voluta loro, e se ne stanno sotto la pioggia a dire che sta piovendo!”. La guerra voluta e tacciata come evento inevitabile, accettato o da accettare, pena la vendetta contro i disertori, ricorda le dinamiche che negli ultimi mesi si sono manifestati nel Maghreb e minacciano di ripresentarsi in Iraq. La nube sulla prateria è l’imprevisto ed ineluttabile che tenta di fornire una motivazione al nulla, che causa tanta morte e distruzione. E’ la nube che si staglia nel cielo scuro della Oslo di Munch e alle spalle della persona che urla tutto il proprio angoscioso ed angosciante smarrimento dinanzi al non senso. Così spiegò Munch la propria creazione di fine Ottocento: « Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». Non esisteva motivo apparente che giustificasse la sua reazione. Né il vuoto avvertito dalla società del tempo, come da quella attuale. Eppure il non senso c’era e c’è, manifestandosi in tutto il proprio vigore proprio nell’assenza e nella nullità.

Ordinaria follia o non senso, la costante è il vuoto valoriale e sentimentale che pervade una cultura relegata ad elemento che non garantisce necessariamente benessere economico. L’apparenza sostituisce l’essere in un vortice di disordinato flusso di corsi e ricorsi storici. Ma, al contrario di quanto pensato da Gianbattista Vico e ripreso da Benedetto Croce, non si possono imputare le responsabilità alla Divina Provvidenza o a chi per Essa. Molto più spesso è indice del male di vivere in un mondo caotico, produttore di un vertiginoso vortice verso la più o meno consapevole e volontaria autodistruzione.

 

Pamela Cito

 

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