Uno sguardo al popolo giapponese

Uno sguardo al popolo giapponeseIl terremoto che lo scorso marzo ha colpito il Giappone, provocando il maremoto che poi ne ha sconquassato le coste nord-orientali, ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica un popolo molto amato ma ancora scarsamente conosciuto. Nonostante il numero di coloro che si definiscono amanti del Giappone sia elevato, l’amore per questo paese è generalmente limitato a manga, anime e, nei casi più alternativi, musica pop (il cosiddetto j-pop) e dorama (telefilm), portando ad una conoscenza assai scarsa della storia, della cultura e della società del Giappone.

In particolare, ciò che più caratterizza la visione occidentale, è l’idea dei giapponesi come un popolo omogeneo per religione, cultura, situazione economica, lingua e soprattutto etnia.


In realtà, all’interno della popolazione giapponese possiamo identificare gruppi ben distinti, sia per classe sociale, come per esempio i burakumin (i fuori casta), sia per origine storica, come ainu e ryūkyūani.

Durante l’epoca Meiji (1868-1912) il Giappone si impegnò nella creazione di uno stato moderno, occidentalizzato e dotato di una società coesa. Fu in questo clima che nel 1869 incorporò nel suo territorio Ezo, la moderna Hokkaidō, l’isola più settentrionale dell’arcipelago, e nel 1879 incorporò le Ryūkyū, insieme di isole collocate a sud, la più nota delle quali è Okinawa. Entrambi i luoghi erano abitati da popolazioni che, economicamente e culturalmente, possedevano una storia diversa rispetto alla popolazione del resto dell’arcipelago e necessitavano quindi di una diversa Politica di Assimilazione (Dōka).

Ad Ezo gli ainu vivevano di caccia e pesca in piccole comunità autosufficienti e distanti fra loro.

Quando il governo decise di inglobare questo territorio, sostenne la massiccia emigrazione della popolazione giapponese verso nord e impose la coltivazione delle nuove terre. Gli ainu furono trasferiti in comunità più grandi, fu loro vietato di cacciare e pescare liberamente, furono obbligati a diventare agricoltori (spesso con l’inganno di non poter ottenere la proprietà della terra da loro coltivata) e furono loro imposti restrizioni e divieti per quanto riguardava usi e costumi tradizionali. In poco tempo divennero una minoranza marginalizzata e sfruttata, priva di coesione sociale e segnata da piaghe quali alcolismo e malattie. Inoltre l’assenza della lingua scritta e la scarsa alfabetizzazione facilitarono l’obiettivo della Dōka: privi di una coscienza identitaria, gli ainu non furono in grado fino agli anni ’30 di offrire risposte politiche allo sfruttamento.

La Dōka, ad Ezo, aveva come obiettivo centrale quello di eliminare le particolarità degli ainu, attraverso la nipponizzazione forzata.

Le Ryūkyū, invece, fin dall’antichità, erano state un regno indipendente, tributario della Cina. L’assenza di terre coltivabili scoraggiò l’immigrazione dal resto del paese, consentendo ai ryūkyūani di rimanere sempre maggioranza; poi, la continuità spaziale e temporale, la presenza di fonti storiche e culturali scritte, concessero ai ryūkyūani di sviluppare e mantenere fin da subito una propria coscienza identitaria. Inoltre vi era un’élite, alfabetizzata e bilingue, che fungeva da mediatore fra Tokyo e la popolazione locale. Questa élite non rifiutò l’assimilazione ma riuscì a offrire risposte ai problemi sviluppatisi con la Dōka. I ryūkyūani infatti, furono capaci non solo di progetti politici come l’Okinawa Kurabu o la KouDōkai, associazioni per la tutela degli interessi dei ryūkyūani, ma anche di avviare studi sulle proprie origini e sulla propria identità, che concessero di rafforzare almeno un minimo la loro posizione all’interno del Sistema Giappone. In particolare Iha Fuyu sostenne la cosiddetta nichiryu dosoron, la Teoria delle Comuni Origini di giapponesi e ryūkyūani, secondo la quale eliminare le peculiarità di Okinawa equivaleva ad un “suicidio interiore”, un danno per l’intero paese.

Nel caso delle Ryūkyū, data la maggiore resistenza posta dalla popolazione, il governo centrale non poteva puntare all’estinzione dei ryūkyūani o alla loro completa assimilazione, ma, più ragionevolmente, si pose come obiettivo l’eliminazione delle resistenze poste dall’èlite, ottenendone l’appoggio.

Le discriminazioni sociali e lo sfruttamento economico imposto dalla Politica dell’Assimilazione portarono alla quasi totale estinzione degli ainu e segnarono negativamente lo sviluppo futuro delle Ryūkyū..

Dopo la seconda guerra mondiale, nonostante l’imposizione da parte americana di una nuova costituzione basata sui principi del pacifismo e dell’uguaglianza, ainu e ryūkyūani si trovano comunque ad occupare posizioni svantaggiate: scarsi investimenti, assenza di riconoscimenti ufficiali delle loro peculiarità e atteggiamenti discriminatori continuano tutt’oggi. Persino la presenza delle basi militari USA, esclusivamente concentrate sul territorio delle Ryūkyū, può essere letto come una forma moderna di assoggettamento.

Quindi, sebbene la storia del Giappone si caratterizzi per l’assenza totale di forti flussi migratori o occupazioni straniere (ad esclusione della presenza americana) , comportando come conseguenza lo sviluppo di un popolo sicuramente dotato di un’uniformità molto forte, la storia degli ainu e dei ryūkyūani ci dimostra come l’idea comune che si ha del popolo del Sol Levante si basi su quello che Rosa Caroli definisce il “mito dell’omogeneità giapponese”. Un discorso politico, più che una realtà sociale.

 

Zancan Anna

 

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