Atleti in campo: le Paralimpiadi

Ogni quattro anni, con precisa cadenza, si svolgono le Olimpiadi, un evento sportivo molto atteso. Le olimpiadi nella Grecia antica, dove ebbero origine, consentivano solo la partecipazione di greci puri, provenienti da tutte le città e dalle colonie, liberi e maschi. Di solito appartenevano alle classi più elevate. I vincitori erano persone perfette fisicamente, che finivano per essere considerati eroi nazionali. Ai vincitori venivano dedicate statue, poemi, omaggi ecc. Da allora molte cose sono cambiate. Innanzitutto è divenuto un evento internazionale che accetta la partecipazione delle donne. Alle donne fu permesso di partecipare a partire dagli inizi del novecento. La novità assoluta sono comunque quelle che vengono definite paralimpiadi ossia gare che prevedono la partecipazione di atleti disabili. Si accetta qualsiasi tipo di disabilità sia fisica, visiva, intellettiva. I disabili si cimentano in vari campi e in molte prove. Gli atleti disabili mostrano un interesse multidisciplinare. Troviamo atleti in carrozzella, affetti dalla sindrome down, privi di arti inferiori ecc. Quest’ultimi si sono cimentati nella corsa e nella corsa a ostacoli. Le olimpiadi si sono trasformate, evolute. Allora ci viene spontaneo domandarci cosa avremo fatto noi al posto dei disabili. Magari di fronte alla sindrome di down ci saremo adattati. Con il tempo avremo accettato anche la sedia a rotelle. Ma cosa avremo fatto davanti a delle protesi al posto delle gambe? Sicuramente ci saremo disperati, avremo urlato, pianto notte e giorno, saremo caduti in depressione, avremo rifiutato categoricamente qualsiasi contatto umano. Ci saremo rifugiati nell’angolo più buio della nostra stanza e non saremo più usciti per anni. Forse avremo imprecato contro il mondo, smesso di credere in un dio, smesso di andare a cerimonie religiose, ci saremo ribellati, avremo invidiato come non mai le persone sane, avremo rifiutato ostinati le cure. Ci saremo chiusi a riccio, stretto i pugni con il volto pieno di un ghigno satanico, quasi diabolico. Avremo respinto persino i familiari. Avremo preso a calci l’amore, l’affetto. Ci saremo inginocchiati di nascosto a pregare una divinità sorda al nostro grido. Avremo fatto amicizia solo con altri disabili, smettendo contemporaneamente di mangiare, di bere vino, di sorridere. Non avremo letto più giornali, guardato la tv, ascoltato la radio, tutte cose per gente normale. Saremo caduti forse nel baratro del mutismo, del silenzio, del rancore. Avremo sempre ragionato senza impulsi positivi, solo con pensieri ossessivi. Il pessimismo sarebbe stato il nostro pane quotidiano. Saremo stati intrattabili, a tratti violenti, insicuri, persino meschini, bugiardi, vili. Ci saremo avviliti fino a contagiare i nostri cari, le pareti stesse della nostra stanza che avrebbero assunto per sempre una colorazione funerea, notturna. In realtà forse questi sono solo nostri pensieri fatti a mente fredda. In verità le cose stanno diversamente. Nell’handicap si scopre la forza della disperazione, è lei che ci fa risollevare, che spinge al top il nostro orgoglio abbattuto. Con tale forza facciamo tutto, troviamo tutte le soluzioni. Lentamente ma con vigore riprendiamo spirito, capiamo cosa conta nella vita, ci buttiamo a capofitto in nuove imprese. Scopriamo che anche gli altri, gli amici, la gente ci accettano per quello che siamo. Nella mente nasce la voglia di affermarsi, di portare avanti i propri progetti, di essere come gli altri. Si può disputare una gara in qualsiasi condizione basta la concentrazione, basta volerlo. I disabili hanno dimostrato di essere veramente come gli altri: competitivi, preparati, sprint. Le differenze non si notano perché non ci sono. Nello sport siamo veramente tutti uguali, come nella vita del resto.

 

Ester Eroli

 

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