10 dicembre 2000 (Romanzo epistolare)

Una vita difficile romanzo epistolareMorì fra le braccia di mio padre in bel mattino di sole del mese di Giugno. Morì gridando il mio nome con quel poco di fiato che le era rimasto. L’ultimo suo pensiero fu per me, l’idea di lasciarmi sola l’aveva resa folle. Non volli vederla al letto. La vidi nella bara, era la prima volta. Di solito si ha riluttanza a vedere i cadaveri, ma quando si tratta dei nostri cari congiunti saremo disposti anche a scendere con loro nella fossa, non abbiamo paura o repulsione. Guardai con gli occhi velati di pianto la bara chiusa coperta dei miei fiori. Era possibile che mia madre era lì dentro? Ci doveva essere uno sbaglio. La realtà ci mette con le spalle al muro, ci presenta il suo conto anche senza la nostra richiesta. Non avevo chiesto io di venire al mondo, come ora non chiedevo la fine di mia madre. Il destino crudelmente mi perseguitava, si accaniva, infieriva su di me. Nessuno chiede di venire al mondo e una volta arrivati dovremo essere trattati con i guanti bianchi se non altro per farci abituare al nuovo ambiente, invece veniamo presi a bastonate. La natura era matrigna, mi metteva davanti a un fatto compiuto, lei rimaneva beatamente indifferente. Il sole era nel cielo, i prati brillavano al sole solo mia madre non c’era più. Tutto continuava come niente fosse. La gente di passaggio guardava con aria distratta lo svolgersi del funerale, il corteo funebre passava nelle strade fra l’indifferenza della gente. Avrei voluto urlare, gridare, strapparmi i capelli a uno a uno, invece vagavo con lo sguardo da idiota. Mi avevano imbottito di gocce, di calmanti e il rumore del mondo mi giungeva attutito. Mi sembrava di stare dentro un sogno sfocato dai contorni scialbi. Una nebbia fitta avvolgeva la mia mente instabile. Ero presente con il corpo, nei gesti consueti ma la mia anima era altrove, in un punto indefinito dell’universo. Gli occhi vagavano senza meta in cerca di un appiglio, di un supporto. Mentalmente dovevo crearmi un punto di riferimento dove aggrapparmi, poteva essere un oggetto, una persona, un animale, ma dovevo trovare una cosa positiva cui pensare per i giorni a venire. Non potevo continuare a girare a vuoto, inquieta. La preghiera era solo un ripetere frasi già fatte che non mi davano forza. La preghiera era uno sterile rito senza intenzioni. Pregavo meccanicamente come un automa, ma non ero convinta di quello che dicevo. Pregavo per abitudine. Anche Dio mi abbandonava in quella landa solitaria senza luce. Non meritavo una azione del genere visto che ero stata sempre onesta e seria. La mia fede vacillava come la tremula luce di una candela, prossima a spegnersi. Non avevo nutrito la fede, o l’avevo nutrita con sostanze sbagliate che ora mi avvelenavano. Il cammino davanti a me era faticoso ed io non avevo più il coraggio per andare avanti. L’ingiustizia divina mi appariva in tutta la sua grandezza. Ero stata raggirata, costretta a credere a un Dio che uccideva le sue creature migliori e lasciava liberi disonesti, ladri, assassini, malvagi. Mi venivano alla mente molte persone disoneste che giravano indisturbate, respiravano l’aria pur non essendo degne. Ma chi ero io per giudicare? Ero superba, presuntuosa, fanatica della fede, convinta di essere nel giusto. Forse anche io dovevo scontare dei peccati. Dovevo espiare alcune colpe e la morte, la malattia erano utili per la mia purificazione. La morte riscattava i peccatori, li metteva davanti alla cruda luce di Dio, in bilico fra il bene e il male. Non avevo mai scelto il male, o almeno così a me sembrava, forse tutti sono convinti di essere nel giusto, proprio questo è l’errore. Anteporsi a dio, mettersi al suo posto. Su ognuno di noi esisteva un disegno divino e solo Dio sapeva cosa era meglio per noi. Molti vivevano indisturbati lontano da dio e vivevano bene. Molti misteri erano inspiegabili. La mia mente faticava a comprendere certi concetti legati alla fede. Dio era un mistero pieno di incognite. Il mistero della trinità non lo capivo, era fuori della mia portata come tante altre cose. Nel momento del funerale ero distante da Dio, avevo preso posizione. In chiesa ascoltati distrattamente l’omelia, non partecipai alla comunione, non cantai i canti dell’offertorio. Mi ero ribellata, sarei stata punita o forse l’avrei scampata come tanti di mia conoscenza, potevo rischiare. A dio avrebbe fatto piacere avere una interlocutrice agguerrita, che non si lasciava irretire dalle belle parole del vangelo. La mia fede non aveva radici profonde. Lo scetticismo aveva sempre inquinato il mio animo. Ero una mente matematica, razionale che accetta solo i freddi calcoli e le leggi esatte dell’universo. In superfice ero credente, per educazione ero credente ma in fondo, nel profondo del cuore ero dubbiosa e incredula. All’uscita della chiesa, sul sagrato svenni. Per rinvenire mi fecero odorare del profumo racchiuso in una boccetta. Quel profumo era di un colore giallo paglierino che mi colpì a morte facendomi impallidire. Ormai odiavo il giallo con tutte le mie forze. Il giallo era il colore della resa, della disfatta, della pelle di mia madre. Per anni respinsi il giallo come si respinge un insetto repellente. Le gocce calmanti mi avevano stordito, sentivo sonnolenza, calore nel corpo. Una specie di sudore mi imperlava la fronte. Al cimitero mi disperai nel vedere la bara entrare nel fornetto, non l’avrei più rivista. Prima di farla entrare la accarezzai lungamente, la baciai per l’ultimo addio che per voleva essere un arrivederci. In qualche parte ci saremo ritrovate non poteva finire così. Non era giusto. L’ultimo saluto era doveroso, prima della definitiva separazione. Non ci sarebbe stato un altro incontro. Un capitolo importante della mia vita si era concluso. Gli altri capitoli futuri erano solo pagine bianche dove era difficile scriverci un rigo. Le mie idee di fronte alla bara che spariva alla mia vista erano però quelle di un ateo, che non crede al mondo ultraterreno. Potevo credere agli angeli che avevo visto, ai sogni ma sulla morte non avevo le idee chiare e nessuno me le aveva chiarite strada facendo, Nessuno mi aveva spiegato nel dettaglio il funzionamento del paradiso. Non credevo alla possibilità di rivedere mia madre in spirito. Fingevo di credere e forse volevo cedere, perché mi faceva comodo un mondo parallelo al nostro, ma nei recessi più profondi del mio essere respingevo l’idea di una sopravvivenza dell’anima. Matematicamente non era possibile. Il corpo si dissolveva seguendo le leggi della fisica, della chimica ma non vi erano leggi che potevano spiegare il volo solitario di un’anima al cielo. Lo potevo figurare con la mente, sognare ma non riguardava la realtà. La dottrina cattolica rimaneva una teoria, la realtà era diversa. Mia madre era finita in una bara di legno e non sarebbe più riuscita viva. I giorni successivi al funerale furono tremendi. Avevo lascito mia madre sola, al suo destino, l’avevo abbandonata oltre il muro del cimitero. Il cancello in ferro battuto, massiccio ci divideva, separava ciò che vivo e ciò che è morto, non in via transitoria ma per il resto dei giorni a venire. Avevo tradito mia madre e lei era sola, specie di notte, in quel cimitero assurdo.

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