Il senso della fine – IV

Il senso della fine - IVIl 21 dicembre 2012 il mondo finisce.

 

Continuiamo la finzione e continuiamo a dare per scontata la fine del mondo.

Inizio oggi da una lettera immaginaria, frutto di ampie discussioni con alcuni amici e conoscenti sui temi dei miei articoli precedenti, alla quale cercherò poi di dare risposta.

 

E’ difficile Riccardo, è molto difficile.

Ho letto i tuoi articoli e devo ammettere che mi hanno risuonato dentro. Se il mondo dovesse finire il 21 dicembre 2012 non saprei rispondere alle tue domande. O meglio, temo che dovrei rispondere dicendo a me stesso che nella vita di tutti i giorni ho pensato a tutto fuorché alle cose che contano. E pensare che anch’io la penso come te, l’ho sempre pensata così. Anch’io ho sempre creduto che nella vita conta ciò che non si vede, la sua parte immateriale, la sua dimensione extrafisica. Eppure, se mi guardo indietro, mi rivedo egoista, opportunista, furbo, sempre teso a difendere i miei interessi (come dici tu) anche contro i miei principi di fondo. E’ così. Lo ammetto. Ma come ti dicevo all’inizio, è difficile, molto difficile.

Viviamo in un mondo che se poco poco cedi, magari pure perché ti concentri su altro (anima, umanità, ecc. ecc.), gli altri ti vedono debole e se ne approfittano. Ti fregano insomma. Quanto dici è sicuramente vero, ma prova tu a dare spazio all’umanità quando un imbroglione ti vuole fregare, o un amico si vuole fare la tua donna, o un collega ti vuole fare le scarpe. Prova a dare spazio alle esigenze della tua anima quando un gruppo di ubriachi ti strappa il portafoglio, e magari ti riempie pure di botte perché gli stai antipatico. Oppure quando leggi sul giornale che un prete pedofilo si è approfittato di un bambino.

Vedi Riccardo, secondo me nella vita ci sono due dimensioni: quella della teoria, in cui c’è posto per tutto ciò che è vero in assoluto, vero e giusto magari, e poi c’è la dimensione del “qui ed ora”, la strada insomma. Ciò che è importante nella prima, sicuramente non vale nella seconda per assicurarti un’esistenza sicura e felice. E viceversa, purtroppo.

Le tue riflessioni sono giuste, magari anche vere, ma credo che siano fuori luogo rispetto alla piega che ha preso il mondo. Per come la vedo io è come se fossimo in guerra, una guerra non annunciata, non formalizzata, ma decisamente infuocata in cui ognuno combatte per la sua sporca bandiera. E in guerra, si sa, tutto è permesso.

Se esistesse un Dio, il giorno della fine del mondo quel Dio nel “pesare” il valore di ogni singolo individuo non potrebbe non tenere conto di questo, altrimenti chiederebbe all’uomo l’impossibile, cosa della quale è specialista  solo Lui. Se invece non esistesse alcun Dio, dimmi te cosa mai ci potrebbe importare di fronte alla morte di conoscere il proprio valore, visto che in ogni caso non servirebbe assolutamente a nulla saperlo.

Concludendo, sarà pure giusto riflettere su tutto questo, ma per farlo qua, in questa specie di limbo in cui si scherza a fare quelli evoluti. Ma fuori da qua, credimi Riccardo, è tutto tempo perso.

Un caro saluto.

 

Giovanni

 

 

Caro Giovanni,

non c’è dubbio che sia difficile, anche se io userei un termine diverso. Per me la situazione attuale è faticosa, molto faticosa.

Viviamo in un mondo che ha demonizzato l’idea di fatica relegandola ad attività da evitare con ogni mezzo, finendo per attribuire alla parola un significato negativo, a metà tra l’inutile e il dannoso. E siccome costa fatica essere se stessi, molto meglio in questo mondo essere colui che tutti si aspettano che io sia, risparmiando tempo ed energie da dedicare ad altro. Allo stesso modo costa fatica essere coerenti, molto meglio quindi essere volubili, incostanti, inaffidabili.

Ma veniamo alla tua lettera, della quale non condivido assolutamente nulla. Innanzitutto non condivido il fatto che alimentare il proprio senso d’umanità, o se vuoi ascoltare le istanze dell’anima, equivalga a cedere, ad una debolezza, ad un atto di remissione rispetto ai più forti. Tutt’altro. Nella vita più credi nella tua natura profonda, più dai ascolto alla tua parte immateriale, più gli altri ti percepiranno sicuro, forte, deciso. Pensi che Maria Teresa di Calcutta, o il Dalai Lama, o Nelson Mandela, che nella vita hanno ricevuto gli onori di Capi di Stato, fossero percepiti come persone deboli? Più si è se stessi, in armonia con la propria interiorità, sereni, più la propria limpidezza interiore sarà percepita come forza indistruttibile, inattaccabile. Viceversa più si è strategici, disposti a mille compromessi, sempre disponibili a modellare i propri convincimenti in funzione dei propri obiettivi, più gli altri ci percepiranno deboli, incostanti, e quindi, giocoforza, facilmente manipolabili, vulnerabili.

Prendiamo gli esempi che tu porti a sostegno della tua minimale visione del mondo: iniziamo dall’imbroglione.  Tu dici che è impossibile mantenere un senso d’umanità nei confronti di un imbroglione che ti vuole fregare, se non vuoi essere fregato. Al contrario io ti dico che pensandola così a fregarti, in ogni caso, sei tu stesso, a prescindere dall’imbroglione. Sia che tu vinca, sia che tu perda. E ti spiego perché: se ti lasci imbrogliare significa che sei stato superficiale nei confronti del tuo simile, che non l’hai osservato con attenzione, che non hai compreso le sue vere intenzioni, anche perché con ogni probabilità hai pensato che con lui avresti fatto un facile guadagno. La maggior parte delle truffe si fonda proprio sulla cupidigia delle vittime, che agli occhi degli imbroglioni rappresenta la debolezza da sfruttare. Al contrario se sfuggi alla truffa, magari pensando di aver vinto, di aver smascherato un imbroglione, il tuo atteggiamento d’odio nei suoi confronti, che te lo fa vedere come un demone disumano da cui fuggire, o al quale farla pagare, ti fa perdere di vista l’aspetto che più conta, ovvero non essere mai come lui,  non usare i suoi strumenti, non abbassarsi al suo livello. E’ per questo che anche di fronte a personaggi del genere si ha il dovere di mantenere sempre vivo il proprio senso d’umanità, la capacità di prendere atto della sua appartenenza alla nostra stessa specie, alla nostra natura. E così facendo non sarà l’odio a prevalere, ma il senso di giustizia, la fermezza della propria ragione, la consapevolezza che anche lui, se lo vorrà, potrà smettere di essere il sottoprodotto della sua miserabile visione del mondo ed evolversi fino alla nostra altezza.

Passiamo all’amico che si vuole fare la tua donna. Tralascio volutamente il commento al triste uso del verbo fare per indicare qualcosa che s’intreccia con l’amore. Per affrontare questo genere di situazione è richiesto ancor più senso d’umanità, trattandosi appunto d’amore. Amore per la propria donna (amala di più e difficilmente avrai qualcosa da temere), amore per l’amico (amalo di più e per lui sarà più difficile tradirti), amore per la verità (prendi atto che la tua storia è finita se davvero il tuo amico potrà far l’amore con la tua donna), amore per se stessi (prendi atto che la tua donna, o il tuo amico, non sono degni del tuo amore se davvero sono così materiali da ignorare il tuo amore). In ogni caso devi solo amare, comprendere e infine capire che le persone non sono oggetti che appartengono, che si fanno fare o si fanno, ma esseri senzienti che liberamente decidono cosa fare e cosa non fare.

E poi c’è il collega che ti vuole fare le scarpe. Fra tutti gli esempi questo decisamente è il più calzante. E’ difficile (faticoso direi io) comportarsi come senso d’umanità comanda dinanzi a chi usa mezzi opposti (egoismo, materialismo, utilitarismo) su questioni d’interesse. Ma la difficoltà risiede soprattutto nel restare se stessi, nell’accettare la sfida usando le proprie armi, nel non diventare come lui. Quel collega continuerà ad essere un proprio simile, anche se è scorretto, furbo, perfido, viscido, subdolo. E sono proprio queste le parole che lui deve sentirsi dire da chi non è come lui, che gli fa da specchio in virtù della sua differenza. Magari non se ne rende neppure conto di essere così, preso com’è dal confermare ad ogni costo la propria visione del mondo (un po’ come te, mi dispiace…) e forse sentirselo dire gli sarà utile per avvicinarsi al suo vero sé. Saranno le parole evocate, e non dette, da chi non è come lui a farlo riflettere, parole che colpiscono l’anima senza muovere le labbra, che si liberano semplicemente dal confronto tra due persone dissimili, l’una materialista e miseramente attaccata ai suoi tornaconti, l’altra ispirata dall’altezza della propria visione dell’altro. Come dire: so come sei e ti leggo dentro, mio caro collega. E se poi lui ti fa le scarpe ugualmente, allora, beh, ammetti la sconfitta. Pensa a dove hai sbagliato e la prossima volta vola ancora più in alto. E difficile lo so. Ma soprattutto faticoso, faticosissimo, proprio come volare controvento.

Parliamo adesso dei violenti ubriachi e dei pedofili. Una domanda: cosa vorresti fare? Fucilarli? Torturarli? Bruciarli sul rogo? Io per loro ho solo una parola: Giustizia. Chiedo, reclamo, esigo, pretendo, voglio, voglio, voglio con forza la Giustizia. Sia quella eterna se c’è un Dio, e se c’è a Lui la chiedo senza tregua come dimostrazione della Sua grandezza, sia quella terrena fatta di giusti processi, di giusti risarcimenti degni della gravità del delitto, e infine di anni e anni di carcere. Questo voglio, senza rinunciare a un grammo della mia umanità, senza corrompere un alito della mia anima, ma lo voglio con tutto me stesso. Voglio la Giustizia per le vittime, voglio che possano sentirsi compresi e amati da Lei, voglio la Giustizia vera, fino in fondo, senza se e senza ma. Una Giustizia che non è vendetta barbara, ma al contrario l’occasione per affermare nella civiltà il vero valore di un essere umano (la vittima) e il vero disvalore di un altro (il suo carnefice).

Tralascio volutamente la questione delle due dimensioni (quella teorica e quella della strada) perché rappresentano il debole tentativo di negare il pensiero a vantaggio della sola azione, cosa che di per sé mi fa aborrire. Affronto invece più volentieri la questione della guerra. E dico: ma tu sai cos’è una guerra? Hai mai parlato con qualcuno che l’ha fatta? Penso proprio di no. Hai mai letto le poesie di Ungaretti dalla trincea? Pensi proprio di no. Hai mai visto Platoon, o La sottile linea rossa? Penso proprio di no. Allora il mio consiglio è soltanto uno: parla con chi ha fatto la guerra, leggi Ungaretti, e guardati Platoon e La sottile linea rossa, e poi ne riparliamo. Una sola cosa voglio dirti: se c’è un sentimento oltre al dolore che il soldato si porta dentro dopo essere sopravvissuto alla guerra è proprio l’umanità che ha incontrato laggiù, tra macerie e morte. Pensare di essere in guerra l’uno contro l’altro, ognuno a combattere per la sua sporca bandiera, significa non avere capito niente, né della guerra, né della pace. Significa avere una gran voglia di fare ciò che si vuole senza alcun limite, e darsi ragione sempre, anche quando si hanno tutti i torti. Significa pretendere un alibi per liberarsi coscientemente della propria umanità.

Stessa identica considerazione per la questione dell’inutilità di conoscere il proprio valore se non esiste alcun Dio. Se hai sempre barato con la tua interiorità, se sei stato velenoso per gli altri, se hai tradito, se hai deriso, se sei stato egoista, individualista, opportunista, insensibile o cattivo, tale resti e devi sapere fino in fondo di essere come sei, ti è utilissimo per la piena conoscenza di te stesso. La tua umanità lo pretende e la tua mente deve prenderne atto, ogni mattina magari mentre ti pettini davanti allo specchio. Saperlo ti è necessario per conoscere cosa ti puoi aspettare dagli altri, e come gli altri ti guardano, ti considerano, ti giudicano. Anche quando chiedi o dai amore devi saperlo: devi sapere con esattezza che tipo di amore puoi dare essendo quello che sei, e che tipo di amore devi aspettarti di ricevere. O quando chiedi amicizia, o chiedi aiuto, o chiedi un consiglio, o più semplicemente chiedi qualcosa di vero, di sincero. Devi sapere cosa aspettarti dalla vita in virtù di quel che sei.

E per ultimo Dio. Supponiamo che esista. Tu pensi davvero di poter giudicare Dio? Pensi di forse essere come Lui tanto da dirgli cosa deve fare e cosa non deve fare per essere Dio? Se la pensi così, rifletti bene sulla tua misura umana (un uomo aggrappato al suo pianeta) e sulla misura divina (l’Universo). E’ come se una formica pretendesse di dirti cosa devi fare, e come la devi pensare, per essere un uomo.

Concludendo ti dico cosa penso della tua lettera: è solo il puerile tentativo di darti ragione anche se nel profondo sai benissimo di non averla, né davanti a un ipotetico Dio, né davanti all’Umanità intera. E io, associandomi a quest’ultima, ti dico che hai torto, torto marcio. Perciò pensaci. Mancano adesso solo 408 giorni alla fine del mondo.

In bocca al lupo Giovanni.

 

Riccardo Jevola

http://riccardojevola.altervista.org

 

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